di VINO e di GALLURA
DA
VINO AL VINO
MARIO SOLDATI ⇒
⇒ MONDADORI – BOMPIANI – GIUNTI, ed. 1972 e successive
È stata data da parecchio tempo comunicazione all’agente commerciale degli eredi Soldati di questo breve estratto qui pubblicato.
Presentazione di Alessandra Corda – Ais Sardegna
Soldati si fa guidare nelle zone vitivinicole più importanti della Sardegna, parla con gli addetti ai lavori, con chi conosce quei territori e ne sa raccontare la storia umana e naturale. […]
Conoscere gli uomini e le donne che lo producono si rivela così la migliore condizione per avvicinarsi al vino, capirlo e raccontarlo, a volte con critico disincanto, altre con meraviglia antropologica.
[A TEMPIO E AGGIUS]
Il giorno dopo andiamo in Gallura: ci aspetta a Tempio Pausania l’architetto Giovanni Andrea Cannas. Sulla strada della Gallura, venendo da Sassari dove abbiamo pernottato, e prima di Ploaghe, rivedo e fotografiamo l’Abbazia della Santissima Trinità di Saccargia: abbiamo il favore di una luce dorata, un’aria tersa, un cielo carico di fantastiche nuvole. La chiesa, col suo alto campanile, architettura romanico-pisana del secolo XII, sorge maestosa e libera nella vasta pianura tutta a vigne. È restaurata, certo: leggo sulla Guida del Touring che si tratta di un restauro filologicamente imperfetto, della fine del secolo scorso: ma, ormai, di nuovo, è patinato dal tempo.
Passiamo il ponte sul Coghinas: aereo, modernissimo. Il cielo, intanto, si è improvvisamente coperto di nuvole nere: la profonda valle, tra boschi verdecupi, si apre in lontananze romantiche, sfumate, nebbiose, dove il fiume serpeggia e luccica in lame di sole. Una vastità nordica, runica: e per i colori, e per la luce di questo momento, non si può non pensare alla Scozia.
Coghinas, ci spiega di lì a poco l’architetto Cannas, vuol dire «cucina»: perché l’acqua di quel fiume una volta era naturalmente calda: i Romani lo chiamavano Thermus.
Cannas è alto, magro, ossuto, dall’espressione intelligente, arguta, simpaticissima. Innamorato della sua Gallura, ma estremamente informato della sua arte e di tutto: ha viaggiato, ha letto, ha meditato sul problema sociale della nostra epoca, conosce e soffre l’angoscia della nostra civiltà.
Capisce subito quello che sto cercando. Mi porta a Aggius.
Siamo solo a sei chilometri da Tempio. Un’amplissima testa di valle alpestre che si presenta a chi arriva da sud come un grande presepio naturale. La concavità è divisa in quattro zone orizzontali ben limitate e chiaramente distinguibili. Dall’alto in basso: 1) i monti di granito, una catena rocciosa, grigio chiara, a denti arrotondati; 2) le case del villaggio, grige ancora più chiare o quasi bianche, sgranate orizzontalmente per tutta l’ampiezza del semicerchio, e che, con il loro profilo variamente dentellato, riprendono in qualche modo il sovrastante fregio montuoso; 3) sotto il villaggio, la fascia verdescura di un lungo bosco di lecci; 4) e sotto il bosco, adagiate su un lento declivio infine pianeggiante, le vigne.
Cannas comincia con un proverbio: «Igna faci casa, casa no faci igna. Igna, cioè vigna. E l’economia di Aggius, nei secoli passati era legata alla coltivazione della vite. Fino al 1821 qui non esisteva la proprietà privata. Gli abitanti di Aggius erano organizzati da tempo immemorabile in una vita comunitaria che realizzava concretamente quell’ideale umano da cui i nostri governi, oggi, e i nostri movimenti politici, in tutto il mondo, ci allontanano sempre più brutalmente, ma di cui noi sentiamo, sempre più disperatamente, il bisogno. Nel 1821 salì al trono Carlo Felice. Gli abitanti di Aggius non pagavano tasse. Era impossibile tassarli perché nessuno possedeva niente. Non esistevano recinzioni: solo le chiudende, comunitarie anche quelle, necessarie a difendere orti e vigne dal bestiame. Il governo di Carlo Felice allora promulgò una legge che ordinava il catasto della proprietà. Questa legge si trasformò subito in un sistema fiscale. Anche gli abitanti di Aggius, fino allora privilegiati, pagarono tasse: e la loro civiltà comunitaria fu distrutta.» Attraversiamo il paese. Molte delle case sono nuove, di cemento. Ma molte ancora antiche, di granito.
«Il granito, la ricchezza della Gallura, si presenta in tre diverse forme: la sarre, cioè la serra, la catena dei monti che fanno corona; il macereto, cioè i detriti, che ingombrano, al piede dei monti, gli spazi pianeggianti; e il tafone, cioè il grande masso isolato, come ce ne sono tanti sparsi qua e là in tutta la Gallura: sculture naturali e misteriose, mimetiche, simboliche, talvolta con sorprendenti forme di animali, l’orso, l’elefante, l’aquila.» Attraversiamo il bosco di lecci, scendiamo nelle vigne.
«I vitigni erano e ancora sono, quel poco che ancora lei vede qui davanti coltivato, Niedda Nostra, Pascale, Cannonau. Igna faci casa. E che case! Per uno strano destino, quasi tutte le più belle sono abbandonate: come le vigne!»
All’altezza di un folto bosco di lecci, prendiamo un sentiero secondario, fiancheggiato da rovi. Di là dalle cupole verdescure dei lecci, giganteggia un masso di granito liscio, simile a un monumento scolpito da Henry Moore. Poco oltre, una chiudenda di sterpi storta e sconnessa ricorda che qui il passo era sbarrato. Cannas si ferma e, levando al cielo il suo sguardo azzurro scintillante nelle grandi lenti, con un guardi! di ammirazione mi indica il portale, alto e snello, che sormonta la chiudenda: è tutto costruito con blocchi di puro granito. Lo avevo visto, certo, ma non vi avevo fatto caso: la desolazione del luogo, o piuttosto la straordinaria naturalezza con cui il granito si accorda a tutto intorno, mi aveva ingannato.
Entriamo nella vigna e arriviamo a una casa che vi si affaccia, con le spalle al bosco. Di granito anche quella. Il tetto non c’è più, ma tutto il resto si, inalterabile. Cannas mi illustra, minutamente, l’arte sopraffina con cui la casa è costruita. La porta d’ingresso: i lunghi stipiti diritti si alternano alla base, al centro e alla sommità con travi orizzontali: l’architrave è un solo blocco orizzontale, lievemente incurvato a volta e sormontato da una serie di conci disposti in modo da aumentare via via, verso l’alto, la curvatura.
Ho l’impressione di trovarmi davanti a un capolavoro di architettura arcaica e rustica, qualcosa come i più antichi templi dorici. Mi incuriosisce un incavo, piccolo ma profondo, nello stipite a destra, poco sopra l’altezza della spalla di un uomo. Cannas spiega: «Faccia conto… Permette?» mi sfila da sotto il braccio la «Gazzetta dello Sport», la arrotola: «Ecco, faccia conto che sia una torcia accesa. Prima di entrare, la si spegneva ficcandola e rigirandola in questa cavità».
L’interno della casa è costruito tutto di granito, e in modo funzionale, per ogni operazione che occorreva: la pigiatura delle uve, la scolatura, il travaso: ecco vasche di granito coi loro canali e i loro fori. Tutto sempre misurato e composto in un’armonia che ha qualcosa di assoluto. Fuori, e anche dentro, là dove non arriva più l’ombra della parete ma dal cielo aperto la luce del sole, sfavillano, minuscoli specchi, le scaglie di mica incluse nel granito. «Più nessuno sa costruire così. E tutto questo che poco tempo fa era ancora vivo tra noi, oggi sta morendo.»
Il vino di Aggius, non lo assaggio. Quello nuovo non c’è ancora: ancora non hanno vendemmiato. E quello dell’anno passato non c’è più: ne fanno così poco. Ma cosa importa? La verità in ogni caso non può essere se non quella, sconsolata, che Cannas e io ci diciamo l’un l’altro, improvvisi amici, sull’umile soglia di splendido granito che gli uomini di oggi hanno disprezzato, ma che gli uomini di un tempo costruirono come se potessero varcarla gli Dei: «Gli Dei ci hanno abbandonato,» ci diciamo senza parole, col solo sguardo abbiamo rinunciato alla bellezza, abbiamo perso il senso della vita e il gusto del vero vino». […]
Torniamo per Trinità d’Agultu, Badési, Villadoria [Valledoria]: una strada alta sul mare, vigne dappertutto. A Badési beviamo un vino locale, lieve di gusto, ma sproporzionatamente alto di gradazione. E comincio a sospettare che in questo squilibrio consista un rischioso difetto che affligge certi vini sardi da pasto: bassi di acidità fissa, tutto il loro profumo, quando viaggiano o anche soltanto se sono lasciati invecchiare di un paio d’anni, è sopraffatto dall’alcool. Non parlo, certo, dell’Oliena, che ha corpo: e tantomeno delle Vernaccie dell’Oristanese, che hanno un sapore deciso e violento. […]
[IN COSTA SMERALDA]
Varie volte ero già stato sulla Costa Smeralda, ma sempre arrivandoci in barca, dalla Corsica o dalla Maddalena. Ad arrivarci in macchina, dall’interno della Sardegna, fa un effetto altrettanto disastroso.
Se la grafologia rivela spietatamente il carattere degli individui, l’architettura può essere definita la grafologia delle società. E in nessun complesso di abitazioni moderne come nei villaggi fulmineamente sorti dal nulla tra gli anni ’60 e oggi sulla Costa Smeralda, balza agli occhi la condanna della società capitalistica, consumistica, industriale. Vi si legge chiarissimamente una turpitudine deforme e ridicola, e la si leggerà nei secoli a venire, finché gli ultimi ruderi sgraziati, squallidi, comici, biancheggeranno di plastica e cemento tra le rosee rocce, via via sepolti dalla viva verzura mediterranea, via via assaliti e cancellati dal riflusso amabilmente frastagliato dell’antica, naturale scogliera.
Si dirà che non sono migliori le soluzioni edili di cui mena vanto la California a Santa Barbara e a Eden Rock. Certamente. Ma almeno gli architetti americani dovevano popolare di costruzioni plaghe immense fino allora prive di insediamenti umani e immemori di qualsiasi civiltà. Agli italiani, sarebbe bastato spingersi quattro o cinque chilometri all’interno, dalle rupestri baie fino ai villaggi di Arzachena e San Pantaleo, per trovare meravigliosi modelli cui attenersi proficuamente: mimare, sì, copiare le arcaiche, modeste, ma funzionali e bellissime casupole sarde. Tutto è stato fatto, invece, come si fosse trattato di improvvisare un effimero paese dei balocchi, un’altra, ma qui assurda, Disneyland! E il bello è che, sostanzialmente, un’identica operazione era stata compiuta e si continua a compiere nel settore (settore, così dicono loro) della vitivinicoltura. Don Raimondo Fresi, giovanile parroco di Porto Cervo, grande elemosiniere della Costa Smeralda e grande amico di Gino Veronelli, è un personaggio. Galleggia nell’occhio del ciclone. Ruota, volteggia e folleggia nel turbine del consumismo. E il vino è il suo hobby preferito.
Una cantina, anche quella, alla Disneyland: attigua alla Canonica: un cunicolo storto praticato nel tufo e forse naturale, ma che, seppure naturale, sembra un’imitazione in cartapesta. E, lungo le pareti di tufo, cataste di mattoni forati, nel foro di ciascuno dei quali è una bottiglia.
Proviamo subito una serie di vini eccelsi, artigianali e strenuamente alcoolici. Gentilissimo, generosissimo, e come in preda a un raptus, Don Fresi stappa per me, adagio una dopo l’altra, le preziose bottiglie. E ogni volta, esitando, riempie il primo bicchiere, lo rigira e lo rimira contro un raggio abbagliante del sole di mezzogiorno che penetra dall’usciolo aperto. Poi fiuta, sorseggia. Infine, cominciando a mescere intorno, descrive e decanta: «Vernaccia 1970 di Baràtili San Pietro! 16 gradi! il colore è puro oro! un’estasi! allarga i bronchi!» oppure:
«Vernaccia di Oristano, 1961, Sardinian Gold! questa è una delle poche bottiglie che ancora mi restano. 20 gradi! più pastosa di quella di Baràtili! il colore è come cognac, ma nessun cognac è così squisito!» e infine:
«Malvasia di Bosa, Campèda, 1970, produttore De Riu Mocci, 15 gradi! il colore, vede? è ambrato. Ma il bouquet! Il bouquet! un profumo di rose e di viole. Né oleoso né tantomeno vischioso: direi piuttosto resinoso. Si avverte anche un saporino come di ginepro: in Sardegna dicono di inibaru!».
Bosa. Consultando il mio taccuino, vedo che Veronelli mi aveva dato anche lui il nome di Salvatore De Riu Mocci, detto il Ciecone. Questo Malvasia mi pare assolutamente eccezionale: esala un profumo finissimo, vellica la lingua gradevolmente come un impalpabile velo fragrante e setoso. Sono grato a Veronelli e a Don Fresi. Prima di lasciare la Sardegna andrò a Bosa.
FONTI DELLE ILLUSTRAZIONI
Foto sulla vendemmia
Le foto sulla vendemmia (autore Antonio Carruccio, 1913) provengono dal libro di Andrea Di Stasio, Brigata Sassari e Sardegna, Sassari, Carlo Delfino, 2021.
e da una mostra fotografica, nel settembre 2023, della ProLoco di Tempio.
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