SASSARI

medaglione di città

di VICO MOSSA

in

LE VIE D’ITALIA

Rivista mensile del TOURING CLUB ITALIANO ⇒

Organo Ufficiale dell’ente nazionale per le industrie turistiche

Gennaio 1950

(pp. 93 – 98)

La fontana di Rosello del secolo XVII. Fot. E.P.T., Sassari

Dettaglio della fontana di Rosello del secolo XVII. Fot. E.P.T., Sassari

Rosello è la Fontana di Trevi dei Sassaresi: esige gli omaggi dei visitatori della città; chi non ha visto Rosello non ha visto mondo, si diceva qui una volta. Questa lontana, antichissima, è un’architettura, nelle forme attuali, che risalgono ai primi anni del Seicento, “regnante Philipo III”, veramente interessante, anche perché in Sardegna le fontane ornamentali sono assai rare. In fondo a un’amena valletta, è la più tipica architettura sassarese: una fantasia barocca che sa, allo stesso tempo, di classica compostezza. Il suo fascino è un po’ diminuito, dacché vi hanno edificato il viadotto e le casette attorno, e sono scomparsi i pittoreschi somarelli recanti gli affusolati caratteristici barilozzi: contrasto che era il tema preferito dei “visitatori” del secolo scorso.

Rosello, però, rappresenta qualcosa di più di una bella mostra d’acqua: riassume, infatti, la fisionomia velatamente barocca dell’intera città. Bisogna soffermarsi un po’ di tempo, a Sassari, per scoprire questo carattere, che sfugge: e se ne persuade meglio chi ha la ventura di assistere alle frequenti pro cessioni, specie quelle della settimana santa e la tradizionale dei Candelieri, a mezzagosto.

La città, fondata nel Medioevo dalle popolazioni della Romangia, della Flumenargia e, specialmente di Torres, sul mare (l’antica Turris Libyssonis, oggi porto Torres, era un fiorente municipio romano) divenne libero comune, Repubblica, con Statuti propri (1294), e come tutte le città medievali fu cinta da muraglie e munita di torri: onde difendersi non tanto contro i barbareschi che determinarono l’esodo delle popolazioni litoranee quanto dai vari potenti che se la contendevano.

Lo stemma araldico inquadra la torre, di cui la città va fiera; le torrette decorative sono invero assai numerose (la sola Rosello ne ostenta sedici!), mentre pochine e modeste sono le torri superstiti – erano ben quarantuno, come ci riferisce lo storico Angius quella merlata, architettonica, di Porta Sant’Antonio, quelle modeste, pittoriche, sormontate da agavi, ficodindia, erba calderina e muraiola, nel Corso della Trinità, e Turondola, soffocata da costruzioni, in via Torre Tonda, non hanno alcun peso nel panorama di Sassari, adagiata su la sella d’un colle.

Invece che torri, spuntano dai tetti delle bianche case altane settecentesche e chiese barocche, fra le quali s’impone la grande ventola di San Nicola, la Cattedrale. Miracolo delle pietre locali impiegate nel paramento, e del tempo, che lascia una patina dorata su i bianchi “cantoni”! Poiché, la facciata del Duomo è stilisticamente estranea a tutte le altre architetture della città non solo, ma dell’Isola intera: si ultimò di edificarla nel 1715 con gusto coloniale spagnolo, mentre il tempio nacque con forme aragonesi e italiane, nel Quattrocento, al posto di una chiesetta romanica, l’antica Plebanìa.

Il gotico-aragonese è familiare in Sardegna e ben acclimatato; questa composizione barocca è invece un’eccezione ed esercito un certo influsso su l’indirizzo architettonico generale della città. La città, ch’era rimasta medievale (e tale si mantiene ancora nel tracciato delle strade e nelle forme dei vecchi quartieri, stretti dalle mura) si ammantò anch’essa d’una scorza barocca. E del Seicento una larva di regolamento edilizio, che aggiornava le chiare norme contemplate nei vecchi Statuti.

A causa della ristrettezza dello spazio e per altre ragioni, si abolirono i “porticales”, i bassi porticati che fiancheggiavano la “Piazza”, ossia l’arteria principale che divenne il corso; si sostituirono agli ampi ballatoi in legno che adornavano le case dei signori i balconi in ferro, di fogge spagnolesche; ma fu, soprattutto, con la introduzione dell’ intonaco, un intonaco asciutto, liscio, non tormentato da sagome, che mutò carattere la città medievale, edificata interamente in “cantoni” di tufo calcareo.

Sulla scorta della planimetria, nonché dei pochi edifici e frammenti superstiti, è agevole ricostruire l’originario carattere della cittadina di agricoltori e di mercanti (ve n’erano parecchi pisani e genovesi) sotto la Repubblica. Le case degli antichi rioni ricalcano le fondamenta delle più vetuste, alcune conservando incorporati frammenti degli edifici originali, così che la distribuzione urbanistica è rimasta su per giù la stessa: stesse le vie e le “strette”, le poche piazze e i “campi” e le “corti”, ampi spazi chiusi da case, costituenti dei vicinati, all’uso delle città toscane: in esse ferve ancora la vita chiassosa e pittoresca: vi fa capolino il campanile della parrocchia, risuonano del traffico delle sgangherate diligenze e delle grida gioconde dei numerosi bimbi. È in queste caratteristiche “corti”, è nella piazza Tola e nel Corso che si compendia l’urbanistica antica di Sassari: da Porta Sant’Antonio a piazza Castello. L’architettura era sobria e asciutta, secondo i dettami toscani del costrurre provenienti da Pisa, prima, e con influenze genovesi e più marcatamente aragonesi, dopo.

La cosidetta Casa di Re Enzo, un’altra casa a breve distanza da questa e alcuni frammenti incorporati nelle costruzioni del Corso, con forme tarde goticheggianti toscane e aragonesi, sono le testimonianze, alterate dai restauri, di forme che vennero superate solo tra la fine del Cinquecento e i primi decenni del Seicento. Il Rinascimento in Sardegna ha sporadiche manifestazioni architettoniche: si può dire che il salto, dalle forme goticheggianti alle barocche avvenne immediato. Fra le pochissime architetture isolane, Sassari possiede l’unico esempio di palazzetto cinquecentesco, il palazzetto del Barone d’Usini, nella piazza Tola; ma restò un saggio isolato. Furono i padri Gesuiti, più tardi, a costituire una nuova scuola edilizia: giacché i formalismi ereditari, costruttivi e stilistici, avevano col tempo preso il sopravvento sul buon modo del costrurre importato dai maestri pisani e catalani.

Le costruzioni notevoli dei Gesuiti e degli Scolopi (i primi fondarono, intorno al ‘600, l’Università) con le continue modifiche che vi apportavano nel Seicento e nel Settecento, hanno notevolmente influito sul carattere dell’edilizia privata: le larghe mostre delle finestre e dei portoni di ingresso, nonché le aperture ellitiche sono gli elementi che hanno avuto più fortuna e si ripetono ancor oggi: un’architettura con decorazione assai scarsa, fatta quasi di soli pieni e di vuoti. Il Settecento ha lasciato notevole impronta: l’impulso, partito dalle case di ecclesiastici e dei nobili (per esempio, la casa del Marchese Cugia di Sant’Orsola, in via al Rosello, la casa Grixoni in via Maddalenedda, ed il tardo, severo Palazzo del Duca dell’Asinara, oggi sede del Municipio), si estese alle abitazioni modeste; nacque allora la casa borghese, d’affitto.

Sono, però, soprattutto le chiese barocche a dar carattere alla città, quelle costruite ex-novo (Gesù-Maria, l’attuale Santa Caterina, il Carmelo, la SS. Trinità, Sant’Andrea al Corso, il Rosario, Sant’Antonio Abate, San Michele) ed il rifacimento di quelle esistenti (come Sant’Apollinare e San Donato, nei quartieri omonimi, e la Cattedrale). Sassari ha avuto il destino delle piccole città storiche, che sentirono la libertà barocca, rimanendo forzatamente inchiodate al tessuto medievale. Lo spazio, sino da allora, era pressoché tutto utilizzato, entro le vecchie mura, dimodocché il movimento si ebbe solo nella terza dimensione, o più spesso fu solo di carattere decorativo-chiaroscurale, sul piano di facciata. E così che la grandiosa ventola di San Nicola ha un modesto piazzaletto davanti, da cui non si riesce a distinguere senza sforzo, tutti i pensieri decorativi e Dio solo lo sa quanti ne ebbe l’architetto! scolpiti nella pietra molle. Altrettanto dicasi di Santa Caterina e di Sant’Apollinare, per tacere delle altre.

Soltanto in seguito a una ribellione, alla fine del Settecento contro le prepotenze di nobili e di ecclesiastici detentori di aree preziose entro la cerchia di muraglie, ma soprattutto dopo il 1829, le costruzioni crebbero non più soffocate.

Gli antichi edifici conventuali extra-moenia davano l’esempio di ampi spazi attorno alle architetture. Costituivano, allora come oggi, le passeggiate preferite dai Sassaresi: i Cappuccini, naturalmente su l’eminenza dominante; Santa Maria di Betlemme, ove si svolge la massima festa popolare; Sant’Agostino, sulla strada che porta alla lontana, romantica passeggiata di San Pietro. Anch’esse s’imbarocchirono; quella di Santa Maria, di impianto romanico-genovese, fu l’ultima a subire, ai primi dell’Ottocento, una trasformazione che vorrebbe essere neo-rinascimentale, ma che, specie all’esterno, si rivela affatto singolare, se non bizzarra.

Per la festa dei Candelieri (ricordo d’un antico voto alla Madonna, per la cessazione della peste), che è tripudio di popolo attorno a sette bizzarre colonne barocche, dalle trine svolazzanti, non si poteva, a bella posta, creare una quinta più adatta: la gonfia cupola ellitica, la popolare “zimbòina”, con il contrastante campanile mingherlino come un minareto, risulta di effetto barocco, quasi caricaturale: forma l’ambiente più adatto per i “paraj”, i membri delle corporazioni di mestiere custodi gelosi dei Candelieri, gonfi e tronfi nei bei costumi spagnoleschi. Le bandiere dei “Gremi”, così solenni quando infilano la stretta via al Duomo o si snodano lentamente lungo la Via Turritana, qui esplodono, coi loro colori vivaci attorno alla grigia “zimbòina”. Il circuito dei Candelieri, dalle strettoie del Corso all’ampio piazzale di Santa Maria, ricalca la storia dell’urbanistica cittadina. Impressionano, oggi, quando nereggiano di folla, le lunghe arterie longitudinali (la città difetta di vie trasversali) e le “strette” alla guisa dei “carugi” genovesi, costruite a misura dell’uomo, con la sede riservata al cavallo o all’asinello.

Con le sforbiciate, talora inconsiderate, delle vecchie mura, si ebbe uno stramazzo, disordinato, di case, tutt’attorno. Si cercò di porre un po’ d’ordine col tracciamento d’un primo piano di ampliamento, nel 1835: le cosidette Appendici, nella parte alta della città. Sorse così la piazza d’Italia, quadrata, che copre esattamente la superficie d’un ettaro: troppo vasta, fuori scala con la città murata.

Sacrificando, nel 1877, quello che costituiva il più suggestivo monumento architettonico, il grandioso Castello aragonese eretto nel Trecento, si ottenne una piazza (dominata da una banale caserma, dal lato ove stava il Castello) che lega, planimetricamente, la piazza d’Italia al Corso, che si apre a cannocchiale e termina nella piazzetta Azuni. Se si tiene conto anche delle intenzioni di allora, di dar incremento ai portici, questa successione di spazi, via via più grandi, a sorpresa, è il complesso urbanistico più interessante di Sassari. Alla compassata dignità delle strade e delle piazze delle ottocentesche Appendici, fa riscontro una dignità degli edifici che sorsero nei primi tempi: costruzioni di capimastri, non di architetti, su un tessuto stradale piemontese, ingegneristico: di carattere che va dal neo-classico al liberty.

Se le facciatine barocche, o meglio le scorze sei-settecentesche, nella città vecchia, avevano ri chiesto l’elaborazione di un solo prospetto, “la facciata”, la persistenza del gusto nocque alla nuova edilizia, per cui la città, estesasi smisuratamente in breve volger di tempo, mostra per effetto della sua accidentalità, visuali poco belle di aggruppamenti di case, generalmente isolate. Di molte case si vedono, infatti, gli allineamenti posteriori, con prospetti non curati, mentre le facciate su le strade che le disimpegnano hanno solo una funzione estetica locale, quasi inutile.

E questo suo fingere a carte scoperte, che è evidente nell’edilizia, ma che è insito in tutte le manifestazioni, che rende il sassarese simpatico al forestiero. Il suo costante credere e non credere, il volersi burlare di tutto, il suo bonario umorismo è nato entro quelle vecchie mura. Egli disprezza i costumi dei “Sardi”, ma si compiace delle parate in costume in occasione delle solennità; ammira e irride insieme i pettoruti “paraj” nei paludamenti spagnoleschi; si burla dei tamburinai dei “Gremi”, che indossano una specie di cappello a cilindro, residuo di orgie carnevalesche: arguzia che è comune sia al “mengo”, il classico contadino di Porta Sant’Antonio, sia al signore che frequenta i caffè.

Se oggi ci mischiamo alla folla che si urta nella via che conduce alla fonte, la popolarissima via al Rosello, la più vitale delle strade di Sassari, non troviamo architetture illustri, né sfarzo di marmi, ma godiamo lo stesso: ci imbattiamo col popolo arguto, che predilige questa strada, la vecchia Argenteria (mutò nome nel 1837), che accoglie, sin da tempi antichi, le botteghe degli argentari e degli orafi; nei crocicchi di essa, si vendono i rossi corbezzoli, le lumache di tutti i calibri, i torroni squisiti. E in questi negozietti che i paesani trovano ancora le stoffe per i loro costumi. E piene di vita sono le piccole botteghe degli artigiani che lavorano curvi sotto le ampie volte a crociera ribassate. A sera, i poveri fan ritorno alle casupole di San Donato e di Sant’Apollinare, i più fortunati vanno in periferia: e gli uni e gli altri diventano egualmente silenziosi. L’incontro quotidiane in via al Rosello o nella vicina piazza Tola ove si tiene mercato è un bisogno sentito: è la riprova di quel gusto barocchetto, di movimento modulato, di cui la città senza illustri espressioni architettoniche è pervasa.

La diffidenza del sassarese verso il nuovo, assai spiccata, è confortata dal disordine incolore dei nuovi quartieri, ricchi soltanto di aria e di sole; egli vorrebbe che la vecchia città, la “sua” città non venisse turbata nell’equilibrio edilizio, pur sapendo che spesso è soltanto un equilibrismo miracoloso di muri stanchi di vivere, che si reggono per contrasto; non vede di buon occhio gli sventramenti, vuole che gli spazi vengano conservati, che le strade non si popolino di balconcini pieni.

Ruderi delle antiche mura in corso della Trinità. Fot. E.P.T., Sassari

La parte absidale del quattrocentesco Duomo aragonese di Sassari. Fot. F. Pasta

Se Sassari difetta di belle architetture, lo si deve più alla lacuna plurisecolare d’un buon magistero d’arte che alla mancata presenza di architetti: il gusto è salvo, perché basta entrare in una casa dalle modeste apparenze, per notare la distinzione dell’arredo. Risulta pertanto una città di aspirazioni: ognuno ha il suo bravo piano regolatore, è ricco di idee, e non potendo far di meglio, si accontenta di fare l’urbanista casalingo, disponendo mobili, quadri e oggetti d’arte.

Ecco il suo interessarsi alle piccole cose: all’ubicazione di un monumento, d’una lapide, d’un chiosco. Voler bene, svisceratamente, alla propria città, è un lato del patriottismo, dote peculiare della città della Brigata famosa. Passeggiare in una piazza, vedersi ogni sera tutti quanti, è un bisogno psicologico, comune a tutte le città storiche, soprattutto di quelle, come la nostra, che vedono realizzate nella piazza, sebbene in parte, le proprie aspirazioni d’arte. Ecco perché al sassarese piacciono ancora, fino a far testo, il neo-classico Palazzo Provinciale e l’anacronistico Palazzo Giordano, edificato, in forme goticheggianti, nel 1878.

Pochi edifici, dunque, si fanno ammirare per intero. Talvolta è solo un particolare, una finestra ben disegnata, un androne, un elegante ferrobattuto, uno stemma, a rendere interessante una casa. Qualche volta è solo un bel toponimo a valorizzare una via (via dell’Insinuazione), un vicolo (vicolo Godimondo) o una “stretta” (stretta delle Risa). Un bel toponimo è come un vasetto di geranio, fiorito perennemente, sul balconcino d’un vicolo grigio.

Sassari, per la sua configurazione, presenta dei panorami bellissimi: il gioco dei tetti, le terrazze coperte, chiese e campanili li rendono oltremodo vari. Elementi non trascurabili che concorrono all’effetto sono la rifrazione, dovuta a un cielo luminosissimo, e l’incanto delle notti di luna. In certe notti sassaresi, specie durante i pleniluni d’autunno, gli edifici acquistano, anche quelli più modesti, un fascino particolare. La bella tonalità della città adagiata sulla sella, povera di verde, si sposa con delicatezza alla massa grigia degli ulivi, al verde degli orti.

Gli ingressi alla città sono tutti interessanti: sia che si provenga da Scala di Giogga (scala a chiocciola), ove la Statale 131 che allaccia i due capi dell’isola, la vecchia strada di Carlo Felice, affronta in pieno centocinquanta metri di dislivello con belle curve e controcurve, o si giunga da Porto Torres, dall’altra estremità della stessa strada, fra gli orti lussureggianti, o dalle strade, fiancheggiate da uliveti, di Sorso e di Alghero.

Sono belle anche le strade di campagna, le vicinali. Due capitoli degli Statuti del 1294 “Dei danni commessi nelle case delle vigne” e “Di non impedire il corso delle acque necessarie ai molini idraulici”, ci testimoniano chiaramente di due elementi fondamentali che caratterizzano la campagna sassarese, differenziandola nettamente dal resto della campagna sarda. Trattando di Sassari, nessuno dei “visitatori” che hanno scritto su la Sardegna, ha mai trascurato di magnificare gli immediati dintorni, ove la natura ben si sposa alla intelligente opera dell’uomo.

Gli alti muri che recingono gli orti e gli oliveti, di tonalità calde, o le basse muricce a secco, che appaiono man mano che ci si allontana dalla città, sono gli elementi più umili che racchiudono la miriade di casette (ogni predio ne è provvisto), i fienili, le ville, le chiesette civettuole, o si interrompono per cedere il posto ai portali caratteristici scortati da qualche frondoso cipresso. Non soltanto le ville dei nobili, ma anche quelle “borghesi” hanno annesso sovente un oratorio o una chiesetta vera e propria, nella quale si officia una o due volte all’anno, durante le feste della vendemmia, o per la ricorrenza della festività del santo protettore del fondo.

Queste chiesette in Sardegna, sono una particolare caratteristica delle campagne fertili, di Sassari e di Alghero. Dai vasti campi di lattughe, di cavoli, di tabacco, fra i filari di vite dorata, i profumi delle mele e dei limoni, riquadrata da secolari olivi o da giganteschi mirti, si profila, di quando in quando, la sagoma della città. La città agricola sembra un paradosso: non è tale, però, per chi conosce l’origine comune a moltissimi centri isolani, dei quali Sassari è il più grande; qui, prima che altrove, da molto tempo sono scomparsi i costumi: più che la civiltà, ha avuto ragione di essi l’ironia dei sassaresi; ironia che, come giustamente afferma un illustre critico contemporaneo, è istinto d’arte.

La Piazza d’Italia con il monumento a Vittorio Emanuele II e il palazzo del governo. Fot. F. Pasta.

La strada di Carlo Felice (S. 131), che attraversa tutta la Sardegna, giungendo a Sassari s’inerpica per le curve della Scala di Giogga. Fot. E.P.T., Sassari.

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