VIAGGIO IN SARDEGNA
di ALESSANDRO CRUCIANI
in
LE VIE D’ITALIA
Rivista mensile del TOURING CLUB ITALIANO ⇒
Organo Ufficiale dell’ente nazionale per le industrie turistiche
Dicembre 1951
(pp. 1419 – 1434)
Nota. È uscita recentemente la nuova edizione del volume Sardegna della Guida d’Italia del T. C. I. (pag. 404 con 12 carte e 2 piante di città, L. 1000 per i Soci, più L. 85 per spese di spedizione).
Per il rifacimento del volume l’autore di questo articolo ha compiuto un accurato sopraluogo nell’Isola.
Ricordavo Cagliari come una simpatica, aperta città, per nulla isolana, ma propriamente mediterranea.
Fra i miei ricordi e il presente c’era stata di mezzo la guerra, con le sue devastazioni, ed ero preparato a dover rivedere le impressioni antiche. Che ne sarà, mi chiedevo, della palazzata di via Roma, delle aeree terrazze che sporgevano con tanta confidenza sul golfo, della bella passeggiata del viale Regina Elena lungo gli spalti spagnoli! La città mi venne incontro nella sera animata dal vento, insolitamente vivace, fremida. Ci capitavo, a mia insaputa, proprio nel giorno di inaugurazione dell’annuale Fiera di Sardegna. La via Roma era sempre la via Roma, tutta movimento, stipata di gente sotto i portici, con i numerosi caffè e lo sfolgorio della sua quadruplice luminaria. In fondo al breve largo Carlo Felice, i bastioni e la torre pisana dell’Elefante si levavano ancora irti e imminenti, in prospettiva ribaltata. Solo la polvere che il vento alzava a folate e depositava sul poco verde degli alberi, aveva un sapore dolciastro di calcinacci.
Se parlate a un cagliaritano della sua città come è oggi, provocherete in lui un moto di orgoglio. Vi dirà che la ricostruzione l’hanno fatta subito, prima ancora che la guerra finisse sul continente; l’hanno fatta di loro iniziativa, da soli, senza aspettare aiuti e provvedimenti dall’alto. Meraviglia come in rapporto alle spaventose devastazioni sofferte (il 16% dei fabbricati distrutti; il 63% danneggiati), pochi siano i segni che ancora ne rimangono. Nell’aspetto della città c’è sì qualcosa di precario, di improvvisato, che tradisce la fretta e l’estemporaneità di quella ricostruzione, ma i fabbricati ancora a brandelli o i vuoti aperti dalle demolizioni si possono contare sulla dita.
Solo le chiese nei vari quartieri, o lasciate in rovina, o in ricostruzione, come il Carmine e S. Domenico, o ancora chiuse per restauri, come S. Giuseppe, danno un’idea della vastità delle devastazioni; e la scalea monumentale alla Terrazza Umberto I, con le gradinate ancora squassate e i monconi del grande arco di coronamento levati contro il cielo.
Il quartiere alto di Castello è quello che meno. ha sofferto distruzioni. Il Duomo è intatto, e s’è provveduto, anzi, a continuarne i restauri di prima della guerra. Così di recente si son liberate e ripristinate due cappellette poligonali nel transetto, di struttura gotica, e le ricchezze del Tesoro sono state valorizzate, ordinandole in un interessante Museo Capitolare.
Pure restaurata è la chiesa della Purissima, la quale ha riacquistato le sue agili e serene linee gotico-aragonesi. Col chiostro di S. Domenico, fortunata mente sfuggito alle bombe (la chiesa, invece, è ridotta a un moncone e si sta adattandola a cripta per salvarne il salvabile), essa resta oggi il più alto e completo documento di quello stile a Cagliari.
Il Museo Nazionale è aperto e il suo materiale ha avuto una nuova sistemazione. Il carattere delle raccolte archeologiche, esclusivamente sarde come tutta sarda è la pittura, dal Trecento al Seicento, gustosissina, dell’annessa Pinacoteca dà a questo museo un’importanza unica.
Chi visita la Sardegna dovrebbe cominciare di qui le sue peregrinazioni, con questo panorama retrospettivo della civiltà isolana, che affonda nella lontananza dei tempi. È un panorama che sarà poi facile proiettare su quello della natura e cogliere gli stretti rapporti, le assonanze che corrono fra i due. Il paesaggio sardo ha spesse delle vaste zone d’un silenzio così antico, d’una solitudine tanto sotterranea e remota che la fantasia non lo comprende se non sa popolarlo di quelle immagini di vita preistorica che il museo documenta e pone davanti agli occhi.
La città s’è notevolmente estesa in questi ultimi tempi; il suo centro tende a spostarsi verso oriente, dove la natura piana del suolo le consente più respiro.
La spaziosa via Dante, il nuovo quartiere di S. Benedetto sono i nuclei di questa espansione, che spinge le sue punte fino al colle di Bonaria e, a giudicare anche dal sito scelto per i padiglioni della Fiera di Sardegna, mira a raggiungere la spiaggia del Poetto. L’incremento continuo della popolazione che ha creato anche urgenti problemi, come quello di un adeguato rifornimento idrico la nuova dignità di capitale della regione autonoma, le iniziative industriali, stimolano questo slancio di crescenza. E che bella, piacevole città potrebbe divenire Cagliari, solo che la varietà del suo sito, fra colle e piano, fosse abilmente sfruttata dalle risorse di un’urbanistica sagace e di sicuro gusto; solo che un po’ più di verde rivestisse i nudi dossi calcarei emergenti al di sopra dell’abitato, d’un bianco calcinoso e accecante, che mozza, pare, lo stesso fresco respiro del bellissimo golfo.
Ed eccomi ora, con tutto l’armamentario di carte geografiche e automobilistiche, di vecchie guide, di cartelle, di appunti, a bordo di una “topolino” in giro per la Sardegna. Venti giorni di peregrinazioni risalendo I’Isola da occidente, e ridiscendendola da oriente, per strade non sempre facili e buone, spesso costretto a mortificare le legittime esigenze dell’appetito e del sonno, giacché le condizioni dell’ospitalità fuori dei centri principali sono tuttora meno che primitive. Venti giorni in uno stato di tensione continua, da mane a sera, dietro il miraggio di vedere il più possibile, constatare, raffrontare, perché nulla della multiforme vita dell’Isola, del suo presente e del suo passato mi sfuggisse. I risultati di questo sopraluogo, la gran messe di notizie e di dati raccolta, stanno ora colati, rappresi, codificati nella nuova guida “Sardegna”. Qui mi limiterò a riassumere alcune impressioni.
Prima meta fu Carbonia e il bacino minerario dell’Iglesiente.
Lungo la strada di Teulada, traversando le zone di Capoterra, di Porto Pino, del Basso Sulcis, feci le prime confortanti constatazioni sulle opere di bonifica. È sempre sorprendente il rilievo che tali opere, anche se limitate e modeste, prendono all’occhio. Basta una casetta bianca, una strada massicciata che si vede partire rettilinea, pochi campi ben spartiti e definiti nelle colture, perché ne vibri una nota di letizia e il segno d’una attività razionalmente esercitata su una natura quanto mai irrazionale e spesso bruta sia stimolante.
Brevi diversioni mi portarono ai centri punico-romani di Nora e di Bithia; ma assai più delle rovine e degli scavi mi attrassero le solitarie spiaggie, guardate da grandi torri secentesche, lungo le quali si trovano.
Attraverso l’istmo, sul quale stagliano le alte gru del nuovo porto di S. Antioco, mi spinsi fino a S. Antioco e a Calasetta.
Questo angolo di Sardegna, con il suo paesaggio di isole, di golfi e di stagni, ha un sapore classicheggiante; potrebbe stare benissimo in un quadro del Lorenese. L’umanità del suo aspetto, il respiro largo e placido delle sue forme in nessun’altra parte mi fu dato di ritrovarli. Qui terra e mare si fondono, si compenetrano; altrove, come nel golfo di Alghero o nell’arcipelago della Maddalena, sono in fiera opposizione, e la bellezza nasce dal contrasto sempre vivo fra la distesa delle acque e il rilievo risentito della costa.
Chi conosceva Carbonia da prima della guerra oggi la ritrova raddoppiata nel perimetro. Più che mai risalta la sua natura di conglomerato operaio, funzionale e pianificato; sotto la usura del tempo anche le “eroiche” costruzioni della piazza centrale hanno perduto molto della loro enfasi.
La campagna sulla quale la cittadina si affaccia dal nudo pianoro ha mutato aspetto. È sempre brulla e come morta, ma i castelli dei pozzi minerari, moltiplicatisi, le alte teleferiche, le enormi discariche di materiale sterile fumanti le tendono sopra un alone di surrealtà.
Fra Carbonia e Bacu Abis è sorto un altro villaggio minerario, Cortoghiana; dappertutto si vedono nuovi pozzi.
La strada che porta a Iglesias, passando per Gonnesa e sotto le miniere di S. Giovanni e Monteponi, nella stretta e rotta valle, fra le immani di scariche di vario colore, pare fatta apposta per comunicare un senso drammatico della lotta, della fatica per strappare ricchezze alle viscere della terra. Al confronto, nella zona mineraria di Ingurtosu e Montevecchio, gli impianti si adeguano perfettamente al paesaggio solitario di monti e di boschi, e i segni della presenza attiva dell’uomo hanno una grandiosità mitica.
Iglesias accoglie gaia e confortevole, con la sua aura dolce di borgata medievale.
Visitando le sue belle chiese, trovai la Cattedrale in corso di restauro; tutto il fitto e vigoroso intreccio delle volte gotiche stellari è stato rimesso in luce. Anche la chiesa di San Francesco ha ricuperato nell’ampia navata interna e nelle gotiche cappelle che la fiancheggiano le nobili linee originarie cinquecentesche.
Minatori di Carbonia. L’industria prevalente dell’Isola è quella mineraria che dà lavoro a oltre 20.000 operai. Essa è concentrata nella Sardegna sudoccidentale: nell’Iglesiente i minerali metalliferi e nel bacino del Sulcis il carbone.
Da Iglesias mi addentrai nella pianura del Campidano, percorrendolo da un capo all’altro, infilando le numerose e grosse borgate che lo popolano.
Il Campidano accentra le maggiori possibilità agricole ed agricolo-industriali della Sardegna. Grandi distese di colture razionali, lunghi filari di cortine frangivento, bianchi fabbricati di aziende, qualche centrale elettrica di trasformazione, stanno a indicare come l’agricoltura, prima ridotta alle zone circostanti i centri abitati, grazie all’opera di bonifica di vari consorzi stia guadagnando terreni immensi, prima occupati da pascoli e macchia.
Queste visioni sono tuttora parziali e saltuarie, ma anticipano il quadro generale che il Campidano offrirà fra un decennio, quando l’Ente Autonomo del Flumendosa avrà realizzato il suo grandioso programma di bacini montani e di canali per l’irrigazione di circa 50 mila ettari.
Le borgate, in genere, non hanno altro carattere che quello di un aggregato di abitazioni fatte spesso, come è noto, con mattoni di terra cruda impastata di paglia che si allineano lungo la rotabile. Visitando questi paesi, feci la prima constatazione di un fatto che ignoravo ed ero lontano dal sospettare. Le nozioni che si hanno sulle manifestazioni dell’arte in Sardegna si limitano di solito alle chiese e abbazie romaniche, di impronta più o meno pisana.
Le ho visitate tutte, le poche della zona meridionale e le molte disseminate nel Logudoro e nell’Anglona. Relitti di un’epoca di cui le successive vicende hanno cancellato quasi ogni altra traccia, impressionano oltre che per le loro forme robuste e solenni, per quell’isolamento nel tempo che le estranea e le fa remotissime e misteriose. Ma l’architettura in Sardegna non si arrestò con questi edifici.
Giravo appunto per Assemini alla ricerca della chiesetta bizantina di S. Giovanni, segnalata dalla guida, e inaspettatamente mi trovo di fronte a una chiesa dalla graziosa facciata rettangolare e merlata, ornata di un portale gigliato e accompagnata da un campanile di belle e semplici linee. Entro e mi si offre allo sguardo un chiaro organismo gotico di una navata con cappelle laterali, aperte da arcate ogivali. Di questa chiesa, che è poi la parrocchiale, nessuna parola nella vecchia guida.
Mi è capitato di scoprire chiese simili, più o meno intatte, più o meno alterate, ora con copertura a volta ora in legno, con campanili ora rettangolari ora poligonali e a cuspide, in quasi ogni paesetto, per una vasta fascia di territorio da Cagliari a Sassari, nella parte occidentale e centrale dell’Isola. La loro costruzione cade fra la fine del Quattrocento e il principio del Seicento. Derivano da modelli spagnoli, di tipo gotico-aragonese, e sono certo esempi di un’architettura minore, modesta e paesana, che ha manifestazioni più nobili a Cagliari, a Iglesias, ad Alghero, a Sassari. Ma il fatto in sé e quello di trovare questi esempi in così gran numero, anche in sperduti paesi, ha la sua importanza. Ci dicono che in quei secoli le condizioni economiche dell’Isola non dovevano essere troppo difficili e testimoniano di un certo gusto per forme artistiche improntate a nobiltà.
La Sardegna è la più grande e popolata isola del Mediterraneo dopo la Sicilia, misura 270 km nel senso dei meridiani e 145 in quello dei paralleli. L’altitudine massima è inferiore ai 2000 metri. La forma predominante del rilievo é quella degli altopiani separati da depressioni pianeggianti. FOT. Dimt, Milano.
Percorrendo ora la zona fra Oristano e Sassari, con lunghi giri che mi portarono da Fordongianus ad Abbasanta, dal Monte Ferru a Bosa la pittoresca cittadina a specchio del largo fiume Temo, grigia e scoscesa come un paesetto marinaro di Liguria da Macomer al Logudoro, provai le più forti emozioni che il paesaggio sardo possa comunicare.
La tetra vallata del Tirso, col malinconico lago Omodeo, la nera distesa pietrosa del gradino basaltico di Abbasanta irto di magri sugheri, il desolato altopiano della Campeda, e poi le strane forme tabulari di un sapore quasi africano che si in contrano più a nord, mettendo davanti evidente il lungo e complesso travaglio geologico che ha formato questa terra, colpiscono la fantasia e ispirano lo stupore che si prova davanti ai documenti di lontanissime antichità.
Mi domandavo come mai nessun regista abbia ancora scoperti questi paesaggi per farli protagonisti di un film.
É qui che si incontrano i più grandiosi nuraghi, le ciclopiche fortezze dei sardi primitivi: il famoso Nuraghe Losa di Abbasanta; il colossale nuraghe S. Antine di Torralba, da non molto liberato e reso accessibile, forse il capolavoro di tale genere di costruzioni.
La loro enigmatica presenza, fra gli sterpi e le pietraie, con la spettrale torre tronco-conica di neri blocchi, come pure quella di qualche chiesa romanica perduta nella solitudine, S. Pietro di Sorres, S. Antioco di Bisarcio, S. Michele di Salvenero, la SS. Trinità di Saccargia, aggiungono a quello stupore un senso misterioso e sacro.
Il nuraghe Santu Antine a Torralba. La carta archeologica registra circa 7000 di queste costruzioni in tutta la Sardegna. Foto G. Vota, Milano.
L’abbazia della SS. Trinità di Saccargia è il monumento più importante dell’architettura romanico-pisana. Risale al XII secolo. Fot. F. Patta, Milano
Ritrovai la Sassari vivace e simpatica che conoscevo.
Ad accrescere il caotico della sua fisionomia urbanistica, ha issato in piazza Castello una specie di grattacielo; nuovi quartieri sono sorti oltre il Ponte Rosello e verso la campagna a olivi di S. Pietro di Silki. Importanti i restauri apportati al Duomo; e ora colpisce il contrasto fra il furioso barocco coloniale spagnolo della facciata e l’interno gotico, chiaro e agile, con quella cupola arditamente impostata sulle quattro arcate ogivali.
Il Museo Sanna si è aggiunto un nuovo padiglione, ove è in mostra un’interessantissima raccolta di arte popolare sarda, unica nel suo genere.
Per portarmi di qui ad Alghero, percorsi la nuova strada di Fertilia, attraverso il cuore della Nurra. La bonifica di Fertilia, dopo la crisi causata dalla guerra è di nuovo in fase di sviluppo. Il suo aspetto più evidente e pittoresco è quello delle case coloniche allineate a scacchiera lungo le rotabili, fra il verde raso dei campi. Spiccano bianche contro lo sfondo roccioso e grigio del monte Doglia, e brillano gaiamente, viste da lontano, sull’uniforme pianura. Anche Fertilia, oggi occupata da una colonia di profughi giuliani, ha sofferto il contraccolpo della guerra; è rimasta a metà, mutila, e la bella chiesetta pare che allarghi a vuoto le sue due ali di portici.
Alghero è turisticamente il più evoluto centro della Sardegna. Ha un patrimonio di bellezze e di attrattive di primo ordine, il Porto Conte, la Grotta di Nettuno, la Grotta Verde e quella dei Ricami esplorata da non molto, e cerca di valorizzarlo, col favore della vicinanza dell’aeroporto. Possiede la miglior spiaggia balneare dell’isola, dopo quella di Cagliari, e s’è dotata di un buon albergo. Fuori delle mura dell’antico borgo, si sta dando una fisionomia di città-giardino. Oltre ai restauri del Duomo, che hanno rimesso in evidenza le linee catalane del deambulatorio, sono importanti quelli di S. Francesco, di cui si è ricuperata la ricca e complessa struttura tardo gotica della parte absidale, e quelli dei due immensi vani interni circolari della torre Sulis.
Non so se sia per la luce che si rifrange sulle rocce granitiche, o per il mare vicino, o per altro, ma il cielo della Gallura ha una maggiore chiarità e il paesaggio, per quanto aspro e accidentatissimo, è più aperto e cordiale, senza note di tristezza e mistero.
I Galluresi amano definirsi la gente più civile di Sardegna. Certo è che i loro paesi sono accoglienti. Tempio, il più grande centro, si atteggia a città; pur non possedendo monumenti, ha certa nobiltà architettonica, specialmente nella raccolta piazza del Duomo. Aspira a divenire un luogo di villeggiatura e di cura, valorizzando le acque minerali della vicina fonte Rinaggiu, e s’è creato un grato punto di ritrovo con la bella pineta di S. Lorenzo.
Anche Olbia si avvia a diventar città, adeguandosi all’importanza di porta di accesso all’Isola. Per questo ha provveduto a migliorare notevolmente la sua attrezzatura alberghiera. Tranne il severo e pesante S. Simplicio, più appartato e medievale che mai, non offre nulla d’interessante, e nemmeno la vista del golfo è poi tanto bella. Ma fu l’unico centro dove mi parve di notare un certo fervore di attività, di gente che guarda verso l’avvenire.
Per portarmi a Nuoro seguii la via di Ozieri una cittadina inaspettatamente vivace e piena di colore, con la sua giacitura ad anfiteatro, col gustoso sapore neoclassico delle sue case coro nate da logge e del Goceano.
Penetravo così nelle regioni interne dell’Isola, nella Sardegna della letteratura, nella terra del folclore. Saggi di questo folclore mi avvenne di incontrarne correndo per la zona in quelle giornate pasquali.
Specialmente nella Barbagia, lungo le strade da Gavoi a Sorgono, da Tonara a Seulo, prima e dopo ogni paese, ci venivano incontro frotte di ragazze vestite in costume; ogni paese uno, diverso da quello del paese attraversato poco prima. Qui rossa la gonna sotto il giubbetto bianco, là verde e azzurra o di velluto nero: colori alti di tono, puri, festosi, come le ragazze. I paesi, poveri, ma bene esposti, fra ciliegi e mandorli in fiore, magari con chiesa e campanile di linee gotiche; sono le modeste villeggiature estive dei sardi. Sopra incombono le groppe del Gennargentu; sotto si sprofondano gole selvagge di torrenti.
Il verde dei boschi di lecci grida fra le nude rocce, oppure morbide distese di noccioleti ricoprono i declivi.
A Nuoro nessuno più vidi in costume, certo intimiditi dalla modernità di quell’architettura “novecento”, accampatasi nel nuovo quartiere che sovrasta il vecchio borgo: il palazzo della Posta, quello degli Uffici Finanziari, e tutti gli altri della statale ufficialità.
Ma le vie di quel quartiere le vidi deserte e i Nuoresi passeggiare e sostare sempre lungo quel vecchiotto e disarticolato corso Garibaldi. Vecchio e nuovo non si fondono, rimangono impenetrabili, e la borgata montanara stenta per diffidenza a diventar città. Non ha storia, non ha monumenti. Vive segregata e sarebbe un ottimo recesso per anime forti (vari inglesi, certo dietro la suggestione dell’esempio di D. H. Lawrence, che ha scritto su questi luoghi alcune delle sue più belle e profonde pagine, le sono fedeli, specialmente ora che dispone di un ottimo albergo). L’arrivarci e trovarla inaspettatamente rannicchiata sul calvo pianoro, fra vasti orizzonti pietrosi, sotto la luce tesa e tersa del cielo altissimo, è una forte sorpresa.
Da Nuoro a Cagliari l’itinerario mi portò lungo la costa orientale, attraverso la Quirra, l’Ogliastra e il Sarrabus.
É forse l’angolo di Sardegna meno noto; non vi si trovano centri importanti, non grandi complessi minerari, non porti; perciò è poco frequentato. La solitudine domina dovunque, ma è solitudine diversa da quella che regna su altre parti dell’Isola. Non nasce dallo spiegarsi d’una qualche forza indomabile della natura. È piuttosto il vuoto, lo squallore delle terre non umanizzate.
Nonostante la presenza di nuraghi e perfino di qualche solitario rudere di castello medievale, pare che qui non sia trascorsa storia, o se è trascorsa lo è stato solo nel senso d’un progressivo scadimento, d’una degradazione che ha coinvolto lo stesso aspetto della natura e, si direbbe, anche il vigore e la giovinezza del mare, separato, fatto estraneo alla terra da una serie di morti stagni e acquitrini, che solo ora la bonifica si avvia a redimere.
Rari i paesi costieri che abbiano una loro fisionomia: Orosei, Dorgali, e più in giù Muravera; più vivi e industriosi i paesi dell’interno, come Lanusei e l’intraprendente Ierzu. Avviene anche qui di incontrare i primi segni di un incivilimento: le grandi centrali elettriche dell’Alto Flumendosa sotto Villagrande, le opere di arginatura del F. Pelau, o la bonifica del Pranu Camisa e Castiadas; ma non prendono rilievo nell’attonita apatia che tiene queste terre, come un sortilegio.
La strada che corre lungo la costa da Orosei a Cagliari ha, però, tratti del più alto interesse paesistico. Basterebbe la traversata del settore montano fra Dorgali e Tortolì, a oltre mille metri, per fare la sua fama. Le forme aggrovigliate dei banchi che vanno a buttarsi precipiti in mare, le bianche scogliere calcaree, come dorsi di giganteschi animali preistorici fossilizzati, il precipizio dei burroni da cui si levano in disordine dicchi pietrosi, il vigoreggiare di colossali lecci ai piedi delle pallide o rossicce rocce che incombono sulla strada, lo svettare nel profondo orizzonte di cime che si accavallano come onde, il silenzio e l’assoluta mancanza d’ogni segno di vita, creano uno scenario dei più impressionanti. Al quale, poi, scendendo giù da Baunei, la vista lontana del mare deserto e dello stagno di Tortolì aggiunge una nota di pungente malinconia.
I sardi si lamentano che la loro terra attiri pochi visitatori, che il flusso turistico dal continente sia così esiguo. Quali le ragioni di questo fatto? C’entra per notevole parte la imperfetta, rudimentale attrezzatura turistica della regione. Ma è uno stato di inferiorità che, in tempo più o meno prossimo, può per volere e impegno di uomini e di enti venir superato.
Resta, a mio parere, un’altra ragione più fondamentale. Il turismo oggi manca, in genere, di spirito di avventura; si muove sul certo, vuol essere assicurato da ogni disillusione; e si dirige perciò verso zone la cui bellezza, o di natura o di monumenti, è universalmente riconosciuta, fatta domestica e facilmente accessibile. La Sardegna non offre nulla di tutto ciò; è una terra difficile, non si concede se non a chi è dotato di quello che si chiama spirito di osservazione e di riflessione. Ci vada chi concepisce il viaggiare, prima che svago e diletto, come una forma diretta di conoscenza: gli si offrirà un campo di emozioni assolutamente nuove; un’esperienza di quelle che lasciano un solco profondo nell’animo e una nostalgia nel ricordo.
Una donna di Desulo (Nuoro) con l’orcio di terracotta per l’acqua, di forma tradizionale. Fot. A. Ferri, Cagliari.
Cacciatori sardi. Nell’Isola si può cacciare il cervo, il daino, il muflone e il cinghiale. [Fot. senza nome].
La tosatura degli ovini. I pascoli permanenti occupano il 47% della superficie dell’Isola. Vi sono due milioni e mezzo di pecore, pari a un quarto dell’intero patrimonio ovino nazionale.
La caccia di San Giuliano, attribuita al pittore catalano Juan Mates (sec. XIV-XV), nella Pinacoteca di Cagliari. Il patrimonio artistico della Sardegna è di vivo interesse per le testimonianze della civiltà nuragica e, in epoca più recente, per le successive influenze toscane, francesi, catalane e aragonesi.
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