COSTUMI CHE SCOMPAIONO NELLA SARDEGNA CHE SI RINNOVA

di RENZO LARCO

in

LE VIE D’ITALIA

Rivista mensile del TOURING CLUB ITALIANO ⇒

Organo Ufficiale dell’ente nazionale per le industrie turistiche

Marzo 1934

(pp. 161-176)

[fotografie di Renzo Larco, Sebastiano Guiso, Guido Costa, Giacomelli, A. Ferri]

Costumi del Campidano

La Sardegna, si sa bene ormai, vien sottoposta a un processo di profonda, radicale trasformazione.

La Sardegna vetusta, patriarcale si rinnova, aderisce alla civiltà dei nostri tempi. Non solo si modifica nella sua organizzazione economica, ma financo nella sua costituzione fisica; poiché, se da una parte l’economia isolana a larghissimo sfondo pastorale si avvia, sia pure lentamente, a equilibrarsi in una fase più moderna di potenziamento pastorale-agricolo, con tendenza evidente a da re nel corso del tempo prevalenza al secondo fattore, dall’altra, appunto per favorire questa vera rivoluzione economica, la Sardegna geografica cambia volto, si modifica pure fisicamente; essa, che non aveva laghi, oggi ne le abitudini conta già due, e fra non molto ne avrà un terzo: quindi ancora ne conterà in numero maggiore. Le sue paludi si colmano; essa che non aveva che torrenziali fiumi solo invernali, incomincia ad avere qualche fiume estivo, perenne.

Ma questa trasformazione economica della Sardegna porta con sé, è facile capire, una trasformazione del popolo e in conseguenza la scomparsa di tutto, o alme no di molto ch’era aderente retaggio d’una vita statica antichissima. Quel fascio di tradizioni, d’usanze singolari, di manifestazioni dello spirito e d’adattamenti della vita esteriore che costituiva il particolare colore ambientale sardo, da cui emanava il fascino di più facile linguaggio per il viaggiatore in cerca di sensazioni della lontananza nel tempo e nello spazio, del nuovo che spaesizza, dell’esotico insomma; quella collana d’usi e costumanze, dico, si dissocia e si scolorisce e si perde. Può allora il romantico poeta innamorato della luna che sempre veglia in fondo al nostro cuore, sospirare e anche piangere per la distruzione di quanto per lui costituiva tesoro sfarzoso di indimenticabili bellezze.

Ma noi dobbiamo, in un mondo che opera e che cammina, che per ciò stesso ha la consegna inflessibile di certa superamenti, generatori a lor volta di un nuovo-utile e quindi ancora d’un nuovo-bello, noi dobbiamo comprendere la forza del tempo che s’infutura e penetrarne la bellezza dinamica e accettare il compimento dell’ineluttabile che non vuol dire tuttavia assistere impassibili e senza idee a quell’opera ciclica di dissolvimento. Poiché se la vita cambia, se il suo volto esteriore si trasforma, noi abbiamo il modo che per gente colta divien dovere di fissare i ricordi del passato e di raccogliere i documenti di questo mondo che va in decomposizione. Dico che se la Sardegna omerica, biblica, romana, corsaresca oggi brucia le tappe per avanzare verso i primi posti dell’Italia littoria, a noi, che con tutte le nostre forze auspichiamo il compimento di questa prodigiosa stupenda metamorfosi, incombe l’obbligo di radunare gli elementi sparsi di quella che fu la vita sarda nei suoi aspetti esteriori più vari e consegnarli all’immobilità della storia in un museo: che risulterà certo il più dovizioso fra tutti i musei del folclore regionale italiano, procedendo per scorci, per trapassi acrobatici dal substrato preistorico remoto verso le sopravvivenze tarde di uno spagnolismo cavalleresco e decadente.

Noi siamo oggi in Sardegna sul vertice d’una parabola precipitosa. E per molti elementi di vita paesana è forse già trascorso il periodo utile della più felice raccolta. Ma per i più. siamo in tempo. E questo si può incominciare a dire del costume, del vestito sardo.

Oggi il bello, l’austero e insieme il fantasioso costume sardo è fra le cose che più rapidamente declinano; l’agonia del costume in Sardegna è incominciata da molti anni e la sua morte è segnata a non lunghissima scadenza. Pure noi siamo ancora la generazione forse l’ultima che lo vede portato.

Fu la guerra a segnare il tracollo, a portare al costume il colpo di grazia. Poiché tutti i giovani vennero con la guerra violentemente sradicati dall’ isolamento del loro immobile ambiente; ed essi o almeno quelli che ritornarono… una volta col finir della guerra rientrati nei paesi, nelle loro case modeste, non vollero più riprendere le antiche vesti, considerandole retaggio di un passato da relegare nei musei. La generazione dei reduci porto dal Continente» il vestito cittadino in uso ormai in tutto il mondo permeato dalla civiltà occidentale. E oggi invero il viaggiatore che reati alla costa, ai paesi e alle città del piano, avrà ormai rare occasioni di osservare la variata ricchezza dei costumi regionali, poiché qui la scomparsa loro è già quasi completa.

Resta la montagna, dove le cose sono andate un poco diversamente. Qui difatti il contatto con la civiltà continentale europea anche dopo la guerra, pur essendo diventato più frequente e operante, tuttavia si manifesta ancora con irregolarità; e quindi l’opera di penetrazione dal di fuori permane più difficile e lenta. Del resto è proprio la montagna che anche in questo periodo di rinnovamento, di rivoluzionamento dell’economia sarda, resta v resterà pastorale, legata alle consuetudini, alle usanze di vita secolare. E qui allora i giovani sono, magari contro lor volontà, ripresi dalla forza conservatrice dell’ambiente; ond’avviene che dopo qualche tempo quelli stessi che han riportato l’abito borghese comune della città ne abbandonino qualche capo, riprendano il bel corpetto sgargioso del costume paesano, magari solo per le giornate di festa. Ma è soprattutto la popolazione femminile, nei paesi della montagna appunto perché la donna è rimasta a casa che si mostra ligia tuttora al costume della tradizione.

Così alle domeniche le straducole rupestri e le piazzuole sterrate fioriscono di vivide macchie come prati selvaggi. E vi son poi le periodiche grandi mostre del costume che si tramandano all’aperto nelle giornate di sagre campestri.

In Sardegna ogni paese ebbe il suo costume; e sete e damaschi, lane pesantissime, pizzi e bende di lino candido e morbido; collane d’oro, pendenti complicati e massicci, anelli di filigrana con pietre celesti e rosse; un abito per le leste e uno per tutti i giorni, uno da lutto leggero, uno da lutto grave. La fantasia popolare si dimostrò qui fertile e di buon gusto; seppe scegliere le stoffe e i colori; combinò armonie sorprendenti per la loro stessa novità imprevedibile.

Ogni costume sardo ebbe caratteristiche spiccate, e certe striscioline di stoffa d’un colore diverso che qua e là affioravano fra gli ornamenti erano un simbolo, ebbero un significato. Cosi nella donna di Fonni la balza di raso bianco che orla la minuscola cappa di finissimo panno nero, che posata sul capo chiuderà profondamente il viso come a una badessa di un qualche severo ordine monastico medioevale, e coprirà quindi le spalle fino a poco più giù degli omeri, indica che la vedova è d’una condizione sociale agiata: e chi veste in tal modo dev’essere trattata con particolare rispetto, con certa signorile reverenza, meritandosi l’appellativo di Donna, alla spagnolesca. Le povere donne in lutto, invece, coprono capo e spalle con una mantelletta dall’alta balza di stoffa viola.

Le donne di Ploaghe avevano tutto un corredo di pezzuole da capo (il manteddu), di colore diverso e diversamente ornate per indicare la condizione della donna e il vario grado del lutto. Il lutto stretto della vedova, o dell’orfana di padre o di madre, se nubile. era palesato dal manteddu di panno nero in cui campeggiava una stretta croce gialla. Il latto per un fratello, per una sorella, o per il babbo o la mamma, della donna maritata imponeva la pezzuola turchina, il cui campo era in gran parte occupato da una larga croce gialla. Infine la sposa si faceva riconoscere dal manteddu di velluto fiorato azzurro tagliato da una sottile croce sempre gialla. V’era, insomma, un rigido codice di segnalazioni colorate per l’intelligenza immediata del pubblico.

Diffuso per i paesi era del resto l’uso d’una acconciatura diversa che valesse a contraddistinguere la sposa dalla nubile. Se la mantelletta o piccola cappa di variatissimo taglio, di panni i più differenti e dai colori e dagli ornamenti singolarmente assortiti, era attributo della donna maritata, il velo, simbolo della modestia, della verecondia, dell’onestà, formava l’acconciatura alle ragazze, perpetuando cosi una tradizione lontanissima di popoli diversi, dal greco all’ebreo.

È significativo il fatto che molti paesi dell’interno dell’isola assumano il giallo per esempio ad Orgósolo a colore del lutto grave (qui si paria sempre, naturalmente, del costume femminile): la pezzuola da capo è appunto d’un denso color di croco, o, e soltanto gialla, nella vedova d’Orgósolo. E la mescolanza del giallo con nero è piuttosto un’attenuazione del lutto: vedi il costume di Sórgono, dove la donna a mezzo lutto ha la traggiola (il fazzoletto giallo da testa) ricoperto da un velo nero (il bracciale).

Singolarissima la consuetudine di portar due gonnelle, l’una più corta dell’altra. E spesso una delle due, la superiore, era ed è drappeggiata in modo originale e non di rado portata, staccata dalla vita, sul capo. Era infatti uso a Tempio Pausania, in Gallura, (e qualche superstite esempio è rintracciabile) che le anziane appendessero al capo la gonnella nera con alta balza di raso verde, che ricadeva quindi giù per le spalle fino a coprir le anche: esse facevano allora pensare, con la dovuta deferenza alle persone degnissime e salvi, ben inteso, l’austerità del taglio e il colore e la qualità della stoffa a quegli scaricatori dei porti che proteggono nuca e schiena con un sacco accartocciato a foglia di mais.

A Osilo invece le donne in duolo rovesciano sul capo una gonnella nera a mille pieghe, che resta allacciata alla cintura secondo l’uso comune; e l’ampio telo che ricade a recinge re come nelle Madonne il volto, quelle stringono intorno alle guancie tanto più severamente quanto più recente è il lutto, fin sotto gli occhi che dardeggiano con un fulgore orientale. Per le viuzze passano questi misteriosi fantasmi umani dal sigillato volto inscrutabile. Talvolta se ne incontrano gruppi che confabulano a bassa voce presso la soglia di qualche tugurio.

A Nuoro un lembo della gonnella esterna viene rialzato da un lato fin sulla spalla in maniera che la balza scarlatta che ne orla il bordo al rovescio appaia di fuori e discenda quindi traversalmente al corpo, guizzante come una fiamma.

A Fonni (e si potrebbero continuare le citazioni, ma queste bastano a rilevare la varietà grandissima cosi degli abiti come dei modi di portarli), a Fonni, dicevo, la gonnella superiore assai più corta dell’altra, è tutta a piegoline verticali, mentre quella di sotto cade liscia, vien di solito rialzata davanti a far sacco e i lembi sono fermati alla cintura, di dietro, cosicché ricadendo il superfluo e fondendosi con la parte posteriore rimasta al suo posto si forma un gran triangolo di alte balze rosse, ondulose, che chiudono uno scacco di stoffa turchina, d’un bellissimo effetto decorativo.

E il grembiule? Di taglio triangolare qui a Fonni, il vertice fissato alla cintura, la base penzoloni: un semplice triangolo di orbacce color ruggine cupo, ornato di nastro turchino. Triangolare ancora a Ollolai, ma increspato. e adorno tutto all’intorno con ricami d’un sapore barbarico, orientale, di tribù pastorale. centroasiatica. Rettangolare a Désulo, attraversato da fascia; arrotondato come una lunga lingua canina, a Belvi; leggero e corto e svolazzante come un tovaglicio a Posada, ampio e semplice a Lanusei; di broccatello e dai colori vistosissimi in certi costumi del Capo di Sopra e in altri del Capo di Sotto.

Costume di Fonni, disegno di Filippo Figari
Costume di Ploaghe
costume di Iglesias, disegno di Filippo Figari

V’è da dire che certi costumi appunto della provincia di Sassari e cert’altri della provincia di Cagliari gareggiano in fantasia e in sfarzo di stoffe e in ricami. Il costume di gala di Osilo è d’una ricchezza chiassosa. La testa della donna resta sempre fasciata, come quella d’una monacanda, in un tenue bianco velo di pizzo fiorito, cadente a punta smerlettata dietro le spalle. Il corpo vien chiuso in un bustino tutto steccato, d’un broccato ricamato a listellini d’oro. Il grembiale (panneddu) è di velluto cremisi; e termina in una balza di raso. Il giubboncino, o corittu, è anche esso di velluto, con le maniche strette percorse sull’avambraccio da una costata di dieci mirabili bottoni a filigrana d’argento. Sul velo che raccoglie la capigliatura vien posata una cappetta di velluto color granato orlata di raso bianco, fantasticamente infiorato.

A Sénnori, altro paese dei dintorni di Sassari dove le donne attendono alla lavorazione di ceste di vimini e di foglia di palma, si prova una delle sorprese più garbate quando si prega qualcuna delle povere ragazze della strada, intente alla loro leggera industria, di vestire gli abiti festivi. Quando hanno mutato l’abito, non si riconoscono invero più le donne in cenci di poco prima. Ci stanno ora dinanzi ragazze riccamente rivestite di velluto damasco, avvolte in ampi veli, acconciate con una ricercata civetteria di riccioli ricadenti fin sulle ciglia nerissime. Si sono sparsa molta cipria sulle guancie e si fanno con visibile piacere ammirare, mettendo bene in mostra gli anelli che adornano le belle e affusolate dita.

Questo di Sennori sta a paro, per ricchezza, col costume di gala di Bono, con quello di Quartu Sant’Elena; sebbene vi sia da aggiungere che nei Campidani si nota una maggiore e spesso non vigilata profusione di fronzoli, di frange d’oro e di merletti e di stoffe a comuni fiorami.

Quale differenza profonda, sostanziale tra i costumi del piano e della immediata collina e quelli delle montagne centrali! Non un graduale passaggio, ma un netto stacco: due interpretazioni diverse del modo di vestire.

Una linearità di taglio che via via s’irrigidisce, anzi una perpendicolarità di linee, che diventa essenziale nel costume di Désulo; qui si perviene a uno stile geometrico e si scavalcano gli Evi per rimestare fra le mode egizie e dell’Oriente ieratico, sacerdotale. Si può riassumer tutto nel constatare che i costumi della montagna di Nuoro sono austeri, severi anche perché fatti con stoffe pesanti rozzamente tessute ai telai domestici e tinte secondo le ricette tradizionali, usando erbe. Sono costumi in cui pochi colori vivacissimi con prevalenza del rosso quello di Désulo è tutto rosso sono accostati a comporre dissonanze potenti, in cui il rosso, l’azzurro, il giallo, il nero sono commessi a croste, a scaglie, a lastre, con un contorno in rilievo come negli smalti a gran fuoco.

Sono, tutto sommato, questi gli abiti in cui, con la linea più austera si rivela, diciamolo pure, un maggior gusto, poiché come sempre la montagna spregia le mollezze, corregge, sceglie ciò che è schietto e forte.

Tra le curiosità più spiccate nei costumi sardi femminili stanno le acconciature del capo, che sono d’una varietà grandissima, addirittura impensabile. Tutte le dominazioni straniere che passarono su quest’isola rapinando, lasciarono in retaggio alle donne per le loro acconciature qualche foggia tipica particolare. Certi modi d’avvolgere il capo in bende di lino non si rinvengono uguali o si mili che presso gli antichi popoli orientali.

Ma fortissime sono le reminiscenze medievalesche monacali, in quell’uso comune dal nord al sud di occultare (e spesso invece non fa che accrescerne il risalto di seduzione) le bellezze del volto con ripari di panni e di tele.

Non è quasi del tutto uguale alla cornetta insaldata delle Suore di carità la cornetta candida, ampia, alata delle signore di Atzara?

E non è del tutto monastica, severa, l’acconciatura complicata delle donne di Benetutti?

Ma a Bitti fiere donne alte, dall’autoritario cipiglio, drappeggiano lo scuro scialle su un fusto conico, a tromba di fonografo, che ricorda il casco di certe castellane del quattordicesimo secolo.

A Samugheo il capo di tutte le donne, ragazze o maritate, è pazientemente avvolto in sette pezzuole, che cosi compongono una stratificata fasciatura che richiama in qualche modo quella delle ciociare.

Le donne di Dorgali si fanno di colpo riconoscere dal cercine posato sui capelli, che solleva la impalcatura piatta a cui s’appoggia lo scialle, ricadente distanziato dalle tempie, come un baldacchino.

E le spose di Lanusei dispongono intorno al capo la pezzuola quadrata. dal centro scarlatto, con l’alta balza, intorno intorno, di raso nero. I lembi che aderiscono alle guance sono trattenuti dai ganci in forma di cuore e dalla catenella d’argento, che recinge il mento come un sottogola militaresco. La pezzuola che a Lanusei è quadrata nel vicino paese d’Arzana già diventa semicircolare.

A Tonara e a Gavoi, specie le vedove, s’incalottano con un curioso copricapo a lunghe alette pendenti fin sul petto, che pare una caricatura dei berretti dei dogi.

Nel costume di Désulo è ammirevole, per la grazia del taglio e la finezza del lavoro, la cuffietta che portano le ragazze e le maritate. Si tratta di due spicchi ritondeggianti di stoffa scarlatta cuciti con un leggiadro punto a giorno di seta gialla: questa costura correrà come una scriminatura nel mezzo del capo; mentre che intorno alla fronte e a recingere la nuca si dispone un listello di nastro azzurro. Queste cuffie sono ormai da anni venute di moda anche nelle nostre città e sono conosciutissime all’estero, specialmente in Inghilterra, dopo che le Industrie Femminili Italiane ne divulgarono alcuni esemplari, e oggi non poche donne del povero solitario villaggio alpestre si guadagnano qualche soldo a cucire e a ricamare, nelle ore libere dei lunghi e rigidi inverni, le gentili cuffie che andranno a ricoprire civettuolamente la testina di tanti eleganti bambini della città.

A Fonni, che abbiamo nominato già tante volte, e che è il paese più alto dell’isola, sperduto fra le montagne delle Barbagie, le ragazze chiudono il capo, la massa dei capelli spesso d’uno strano color fulvo; recingono il volto e stringono la gola e il mento in una insaldata pezzuola candida, che le fa sembrare davvero giovani e fresche monache. Allorché la domenica mattina si raccolgono in chiesa, pare che l’oscura navata del rustico tempio si riempia di palloncini di carta, di grosse corolle bianche. Le fonnesi, che sogliono camminare per le strade con un celere passo leggero, sempre a capo chino, con le mani intrecciate sotto il grembiule, qui, nella penombra della disadorna chiesuola si accovacciano a gruppi sul nudo pavimento di pietra, dietro le colonne e vicino alla porta, e tutte da un lato della navata. Sul pesante drappeggio delle vesti d’orbace scarlatto quella vaga fioritura di tonde corolle chiuse ondeggia e diffonde un alone di luce, come uscisse dallo sfondo d’un quadro fiammingo. Il prete celebra la messa in lingua sarda – che è un latino corrotto – e di tempo in tempo da quei grappoli di boccioli risponde un sommesso, flebile coro, sospirato e melodioso, ben ritmato e in cui ritorna la commozione di pianto del canto sardo, ma attenuata da una serenità di beatitudine cristiana.

Gli uomini attendono il momento dell’elevazione fuori sul sagrato, seduti sul murello di cinta, di contro allo sfondo tumultuoso delle montagne, sotto cieli tappezzati a gran plaghe d’argento. Hanno per la domenica indossato gli abiti fiammanti, i giubboni di lana d’un violento color rosso-ruggine; e sopra hanno infilato le casacche di pelle di capra, dal lungo pelo incolto. Tutti i giovani si sono fatti la barba; le guance e le labbra appaiono accuratamente rasate di fresco, violastre; e quelle facce irregolari dalle linee angelose, nella luce diffusa del mattino già alto, sono percorse da scabri guizzi. I vecchi portano le grandi barbe arruffate, da patriarchi sopravissuti agli Evi e inselvatichiti nella solitudine della macchia.

Al segnale dell’elevazione questa popolazione maschile entra anch’essa in torma nella chiesa. Scivolano lungo le pareti tutti quei dorsi villosi; e s’assiepano dall’un lato della navata, opposto a quello delle donne. Penetra con essi un acre, un forte odore di pastorizia randagia.

Costume di Sennori
Costume di Atzara, di Guido Costa
Costume di Sennori - disegno di Filippo Figari
Costume di Oliena
Costume di Bitti

Ma prima di venire a parlare dei costumi maschili bisognerà accennare alle forme diverse del bustino dell’abbigliamento muliebre.

Un viaggiatore francese, scrittore e disegnatore di talento, Gastone Vuiller, già osservò or è mezzo secolo nel suo libro su Les îles inconnues: «Se il vestiario delle donne sarde è in generale di una grande. bellezza e d’una rara magnificenza, il loro corsetto, o busto, è eseguito secondo il voto della natura. Ed è a questo corsetto, fatto come dovrebbe essere, che il seno delle donne sarde deve lo sviluppo e le linee armoniche; e, grazie ad esso, non vi sono in Sardegna cattive nutrici».

Le donne sarde infatti non chiudono in busti o fascette che la vita; specialmente serrano con aderenza la schiena, le reni, in una superba spalliera ricamata a colori vivacissimi e in un fitto intreccio di fettucce scarlatte che arriva fin sotto le scapole; ma il seno è sempre appena coperto dal lino di una camicia.

Si comincia dalla Baronia, dove persiste una mollezza orientale, retaggio delle antiche scorrerie corsaresche, a vedere l’evoluzione del busto nelle sue diverse e sempre più complesse metamorfosi. A Orosei, a Galtellì, a Torpè, a Posada il corsetto non è fermato che da un’unica fettuccia allacciata a cappio nel mezzo.

Poi si sale verso Nuoro e da quel minuscolo tronco di busto rudimentale fioriscono due alette triangolari, che a Mamojada si fanno più grandi. Il giuoco via via si complica; dalla parete che abbraccia la schiena sorgono e si distendono variamente leggeri paraventi come i paraocchi dei cavalli che riparano la carne.

Non v’è che la Gallura, nella quale, ormai, le pastorine hanno avuto il pessimo gusto di soffocare il petto entro la barriera armata di un busto moderno rinforzato di stecche metalliche. Esse sono state anche le prime ad abbandonare il costume (vicinanza della costa, influenza del mare) per vestirsi di cotonine stampate e di pannine di poche lire.

Invece le donne sarde dell’interno sanno restar fedeli in gran parte almeno al corittu chiuso o aperto, che ha le maniche squarciate al gomito in modo da permettere l’uscita della camicia; poi la manica si richiude strettamente sull’avambraccio, dove s’appende la sfilza dei bottoni d’argento.

E questa dei bottoni di filigrana è tipica. industria sarda. Variano anch’essi di grossezza e disegno da paese a paese; i più grossi li portano le belle bonesi; non so se i più piccoli, ma certo microscopici sono quelli delle fonnesi, e lavorati con grazia di ricamo.

Questi bottoni d’argento, o d’oro, danno lavoro a molti artigiani. Nelle borgate si vede sempre dentro a una angusta botteguccia qualche sardo in casacca di pelle, curvo al deschetto, intento a torcere tra le sue grosse dita dei tremuli e lucenti fili d’argento e a saldare le une alle altre le spirali composte le rosette, gli arabeschi geometrici.

Costume di Bono
Costume di Samugheo

Tutte le vesti della popolazione dei monti sono fatte, come ho già detto, con stoffa di lana grezza, non sgrassata, fortemente tessuta, impermeabile, ossia del famoso orbace, quella robustissima stoffa sarda che un recente decreto del Duce ha stabilito sia usata per la tenuta invernale delle Camicie Nere.

Di questa stoffa si rivestono particolarmente gli uomini. Gli abiti maschili non offrono la varietà degli abbigliamenti femminili: e dalla testa alla cintura li direi piuttosto abiti di parata; dalla cintola ai piedi sono essenzialmente pratici.

Uose nere, difatti, che difendono il polpaccio fino alla rotella del ginocchio: poi il calzone di tela molto ampio. Dalla cintura pende un gonnellino breve, di panno nero, sgheronato, spampanato nelle volute di più campane.

E questa la parte del vestimento maschile che s’adatta alla faticosa vita del pastore, il quale si muove fra il groviglio della macchia selvatica e va a cavallo.

Poi viene anche per l’uomo il corittu, il corpetto che fascia il torace, e dove si sbizzarrisce la fantasia coloristica, decorativa del pastore-artista. E in esso che si verificano le diversità più rilevanti da paese a paese. Muta fondamentalmente anche il colore della stoffa: che è nera a Osilo e a Nulvi, verdone cupo a Ozieri, azzurra a Gavoi, giallo oro a Orosei, rosso fiamma a Oliena, rosso solferino a Mamoiada, rosso ruggine a Fonni, meta rosso e metà turchino in senso orizzontale a Siniscola. Il corittu è chiuso, abbottonato fitto fitto fin sotto al collo a Ozieri; ritagliato con due ampi risvolti listati d’azzurro a Orgósolo. Varia la forma della manica e il suo ornamento.

Si ritrova la manica di taglio comune il consueto tubo delle nostre giacche in Gallura e a Benetutti; ma sulla montagna la manica si gonfia sul braccio a pallone e si squarcia di fianco come una melagrana, per richiudersi poco più su del polso presso a poco come nelle donne. Inutile dire che sulla manica s’inquartano colori vari, strisce di panni vivacissimi.

Piuttosto si può aggiungere che gli abiti maschili (e sovente anche quelli femminili) hanno due diritti, potendo così servire a un doppio uso: nell’un diritto hanno i colori del costume da festa, nell’altro quelli da lutto. Per esempio, recandoci da Nuoro a Oliena s’incontrano uomini a cavallo che mostrano sulle maniche il panno scarlatto accostato al velluto turchino: i colori dell’abito da festa, altri sulla squarciata manica rigonfia mescolano allo scarlatto il marroncino: i colori del mezzolutto. A rovesciar le stoffe, i proprietari potrebbero scambiarsi il corpetto, senza per questo alte rare quei sentimenti di devozione che li han mossi ad adottare l’un diritto piuttosto che l’altro.

Ma l’uomo in lutto grave porta sempre la gabbanella, che è un cappottino nero corto fino all’anca, con cappuccio. Esso è divenuto anche l’indumento d’uso più comune, perché comodo e si dice atto a ripararsi dal freddo che dal caldo; ma l’uomo in duolo anche se è estate, si copre col cappuccio, e va così, foscamente, insensibile, sotto la canicola più ardente.

D’inverno il pastore indossa il gabbanu, o cappottone, lungo fino alle calcagna, anch’es so con cappuccio, e aperto dietro per comodità dell’andare a cavallo! E il lucco fiorentino del trecento.

È ancora in uso, specie tra i più anziani, la berritta, il berretto di felpa nera, in forma di sacco stretto ma lungo o cinquanta centimetri lungo un quaranta che il pastore arrotola ora sulla fronte, ora lascia penzolare di dietro sulla nuca o di fianco su un omero, o arrovescia in altra guisa; e da ciò, anche, il viaggiatore arguisce, come da sicura indicazione, il paese d’origine del pastore.

Ma il lungo berretto tubolare cede rapida mente il posto al banale berretto da ciclista; e non è a dire quale scadimento estetico produca questo semplice mutamento del copricapo. Il più fiero pastore diventa di colpo un insignificante omuncolo, con la caduta della berretta volando via tutto l’alone di fantastico e di leggendario, d’austero e diciamo anche di terribile che aureola il sardo figlio di patriarchi magnanimi, cavalcatore temerario e, in potenza, temerario bandito.

Capo staccato del tradizionale costume, e che resiste, è invece la bértula cioè la bisaccia da appendere alla spalla, una bocca spalancata sullo stomaco, l’altra penzoloni e spalancata dietro la spalla. Ma qui v’è l’utile sensibile a determinare la resistenza al tracollo della costumanza. La bisaccia è ancora utilissima per chi va a cavallo e sono i più facili a portare e tale che può raccogliere un variato bazar di robe.

Anche nelle bértule si sbizzarrisce la fastosa fantasia del sardo decoratore, poiché vi sono bisacce tessute e ricamate a colori sgargiosi e con motivi di forte stile, accanto naturalmente alle bisacce severe e semplici della montagna: a quella di Tonara, per esempio, che pare ricavata da un abito d’ergastolano.

Con le bértule si passa dall’arte del pastore che s’applica al costume, indumento personale, all’arte del pastore che s’esteriorizza nei tanti oggetti d’un uso immediato o continuo.

Costume di Sennori
Costume di Sennori, fot. Giacomelli (Venezia)
Costume di Sennori - disegno di Filippo Figari
Costume di Desulo
Costume di Osilo
Pastore delle Barbagie, fot. A. Ferri (Cagliari)
Costume di Mamojada
Costume di Orgosolo
Costume di Osilo

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