PASTORI DI SARDEGNA
di Francesco Zedda ⇒
DISEGNI DI ALIGI SASSU
1 – 2
in
LE VIE D’ITALIA
Rivista mensile del TOURING CLUB ITALIANO ⇒
Organo Ufficiale dell’ente nazionale per le industrie turistiche
n. 7 – Luglio 1949
(pp. 721 – 726)
Parlare dei pastori sardi non dovrebbe essere una cosa difficile per chi ha girato per il mondo e ha letto Omero e la Bibbia. Dalla Kirghisia alla Barbagia, da Salomone alla Deledda, la vita dei pastori è stata sempre la stessa: tanto dura, quanto ingrata la terra e il clima inclemente. Il mondo pastorale è il più semplice e insieme il più spietato, perché in esso sono le bestie che dettano all’uomo una norma di vita.
Il pastore non conosce la domenica, la casa, la strada, l’amicizia, ma tenebre e luce, pioggia e vento nel mare verde dell’erba. L’uomo si rivela come tale soltanto quando si libera dalle sue bestie per fame o per danaro, ma l’atto di vendere o di affondare il coltello nella gola d’un agnello è come l’ultima atto cui è teso tutto il dramma della sua esistenza: c’è una legge elementare di vita o di morte, c’è la consumazione di un rito e c’è la catarsi d’una vendetta meditata per anni.
Qui appare più chiaro l’ètimo di Pasqua e di Tragedia. Questo uomo, come il cane, non deve fare altro che buona guardia e guidare il gregge dove il pascolo è più felice, ma per due cose così semplici, il pastore deve conoscere profondamente l’animo degli uomini più cattivi e la terra in tutte le sue erbe e in tutti i suoi fiori e in tutte le sue acque; e dal monte al piano, giorno e notte, deve sempre camminare col registro delle stagioni alla mano, per concordare i suoi passi col moto degli astri e le pause col corso dei venti e dei fiumi, secondo le necessità di quella vita gregaria. Sulle tavole della sua legge è scritto unicamente questo: il padrone mi ha affidate tante pecore e tante ne debbo riportare prima della tal festa, con tante forme di formaggio e tanti sacchi di lana.
Il pastore con la punta del coltello ha inciso sul suo bastone di ciliegio dei segnaluzzi per ricordare i numeri e le date, e lascia il paese all’alba. La mastruca, fatta con la pelle d’un grosso montone nero lo copre tutto fino ai calcagni, d’inverno e d’estate; non lascia passare né il gelo né il solleone. Il gregge tintinna a festa. Per un tratto segue la strada: ad un fischio del pastore i cani si scagliano a destra o a manca, e il gregge lascia la strada e si immerge nell’erba.
Giunto alla sua zona, il pastore con tronchi d’albero e con frascame mette su una grande capanna a cono. Un letto di foglie secche. Se i banditi lo legheranno e gli ruberanno il gregge? Se là sui monti della Gallura o nelle verdi solitudini dell’Ogliastra lo accecherà la febbre? Se dalle forre del Goceano a notte scenderanno i lupi? Davanti a questi pensieri il pastore canta e, mentre il gregge meriggia, intreccia la canna e si fa i cannicci, attorce la palma nana e tesse le fiscelle, poi tutto dispone dentro la capanna, su cordicelle che pendono dai tronchi. Nella tanca, come un ciclope, dispone da un lato le pecore, dall’altro gli agnellini; munge; mette il latte in recipienti di sughero; fa il formaggio.
Ad ogni luna nuova viene un familiare e gli porta il pane, fatto in dischi grandi e sottili come carta da musica; gli porta il vino in una grossa zucca secca; si prende il formaggio fa lana. Quando un ospite varca la soglia di quella capanna, il pastore fa festa: sgozza un agnello. Gli toglie cuoio e intranie, senza rompere un osso, proprio come narra la Bibbia che facessero i patriarchi e i profeti. Fa un fosso in terra e sul fondo ci mette uno strato di fo glie di mirto o di lauro. Ci stende l’agnello e sopra un altro strato di foglie aromatiche. Ancora terra. Sopra vi accende il fuoco. Mentre l’agnello cuoce in quella tomba-forno, con l’ospite a fianco il pastore si incanta a fissare la fiamma e a parlare: è così dolce il parlare per chi ha visto tramontare tanti soli e tante lune e non ha detto una parola.
Ma quando, invece di un ospite, sulla soglia di quella capanna appare un bandito col fucile spianato, il pastore richiama con un fischio i cani che si avventano. Mentre lui con carezze tieni i cani a freno, sente il tintinnare dei sonagli di quelle pecore che si allontanano a forza dal gregge. Se il furto è grave, il pastore fa sa ponidura, va cioè dagli altri pastori e denunzia il fatto. Ciascuno di questi gli dà una pecora giovane per ricomporre il gregge, proprio come è detto in Giobbe, XLII, 11: Et dederunt ei unusquisque avem unam.
In Sardegna i greggi vivono esclusivamente allo stato brado e si alimentano sui pascoli naturali: con due milioni e mezzo di ovini e con settecentomila caprini, il furto e sa ponidura sono quindi molto praticati. Se gli ovini sono un quinto del patrimonio totale dell’Italia, nella nostra isola però i furti sono in proporzione assai maggiori, non certo perché il sardo sia, come diceva il Niceforo, più ladro dell’abruzzese, ma perché la miseria e l’egoismo padronale qui premono più che altrove e sollecitano l’abigeato. In Sardegna, dove ad ogni passo è dato vedere un esempio di carità cristiana, appare chiaro che la società prepara il delitto e l’uomo lo compie. In un anno, infatti, vengono rubate, in media, cinquemila pecore: il due per mille. Un migliaio tra buoi e vacche e un altro migliaio tra cavalli, suini e asini.
In una terra senza strade, fitta di boscaglia, scarsa di comunicazioni, montuosa, impervia, con un milione di abitanti e con pochissimi carabinieri, i banditi, se volessero, potrebbero “lavorare” come in un loro giardino. Ma anche di banditi la Sardegna è povera. Povera assai rispetto ad altre terre e a molte città.
A dire il vero, i nostri banditi si accontentano di poco: ad una banca non pensano neppure. Sono pochissimi, rari addirittura coloro che si danno alla macchia per furto. Quasi tutti sono andati fuori legge per un punto d’onore. Da Zuanne Tolu a Samuele Stocchino, i più celebri banditi hanno ucciso il primo uomo per un dispetto sordo. In Sardegna abbiamo il bandito che va in pellegrinaggio alla festa di Santa Maria Itria per chiedere la grazia di uccidere il suo nemico al primo colpo di fucile; e il bandito che fa costruire una chiesetta sulla vetta del monte di Lula, perché dopo un agguato di tanti anni ha finalmente ucciso il suo nemico in combattimento. E il terribile De Rosas, che faceva tremare tutta l’Isola, quando incontrava il suo nemico gli diceva: Inginocchiati! Recita le tue orazioni! Domanda perdono a Dio!». E gli dava una fucilata con tutti gli onori.
Un matrimonio mandato a monte può portare sotto terra tutti i famigliari degli sposi promessi. Il sorriso d’una donna, un dispetto, una parola storta può causare una ecatombe: l’uomo offeso va di notte alla tanca del suo nemico e con una scure gli sgarretta i buoi. Se sa di non trovare bestiame, se trova ulivi o peri o meli, tronca gli alberi alla base. È triste vedere al mattino venti buoi rovesciati per terra che mugghiano a lutto e danno sangue nero dai garretti, o cento alberi in fiore uccisi mentre sognavano la primavera, con quei tronchi piantati lì come tante croci in un cimitero. Da queste ostilità all’omicidio il passo è breve. Così due uomini aprono un conto con la morte, che spesso rimane aperto per generazioni, finché la terra non abbia bevuto tutto il sangue di coloro che portavano quel nome».
In questa lotta ogni uomo si considera termine fisso d’una legge che sovrasta quella stessa vigente e tutelata dallo Stato. La Magistratura, in questi casi, non riesce mai a circoscrivere i delitti, perché l’uomo armato crede di sapere tante cose che la Legge ignora e non potrà mai intendere: tutte quelle cataste di carta bollata, di istruttorie e di testimonianze, di arringhe e di sentenze sono spesso superate e risolte con pochi grammi di piombo.
Or sono molti anni, dei banditi stabilirono una tregua e d’accordo scrissero insieme una lettera al Re, chiedendo il suo intervento diretto nella lotta. Gli esposero i fatti: giudicasse e pronunziasse la sua sentenza, senza l’intromissione di avvocati e di carabinieri: si sarebbero rimessi assolutamente al suo giudizio, senza più discutere e senza appello. Il Sovrano non rispose, ma spesso a tanto desiderio di pace, in cuori generosi e angustiati, risponde un vecchio tenuto in odore di santità: si reca nelle famiglie, come un patriarca siede tra le due parti, ascolta, medita e pronunzia la sua sentenza, che è sempre saggia e tesa alla concordia.
con la punta di un coltello ha inciso sul suo bastone di ciliegio dei segnaluzzi…
illustrazione di Aligi Sassu
…Buoi rovesciati per terra che mugghiano a lutto e danno sangue nero dai garretti…
illustrazione di Aligi Sassu
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