ABBIGLIAMENTI MASCHILI E FEMMINILI IN SARDEGNA

di MARCELLO VINELLI

in

LE VIE D’ITALIA

Rivista mensile del TOURING CLUB ITALIANO ⇒

Organo Ufficiale dell’ente nazionale per le industrie turistiche

Maggio 1927

(pp. 519-530)

[foto di Guido Costa, Cagliari; Sebastiano Guiso, Nuoro; fratelli Pes – Cagliari]

L’agonia degli abbigliamenti tradizionali

Da qualche tempo si assiste, in Sardegna, alla progressiva sparizione dei tradizionali modi di abbigliamento maschile e femminile. I caratteristici costumi, così multiformi e policromi, e che davano tanta vivezza di colore al paesaggio; quei costumi che strappavano al Valery, al Bresciani, al Mantegazza, al Ciampoli così calde parole di ammirazione; i pittoreschi abbigliamenti, di cui quasi un secolo addietro il Lamarmora fissava il ricordo nell’ Atlante del suo e Voyage en Sardaignes e che il Vuillier riproduceva negli artistici di segni e nelle belle fotoincisioni del suo libro Les lles oubliées, sono oramai, quasi ovunque, in disuso. Ove il costume sardo non è morto, può dirsi agonizzi.

In certi paesi esso è conservato soltanto nel fondo di un cassettone, sepolto sotto la naftalina, come un oggetto da museo, buono, tutto al più, per qualche parata, in occasione della visita di qualche ospite illustre.

Questa constatazione, che è, del resto, constatazione di tutti e di tutti i giorni, venne fatta recentemente, con vive parole di rammarico, anche da un visitatore augusto, che ha, insieme, cognizioni di studioso e anima di artista. Come è noto, Sua Maestà il Re, recatosi, l’anno scorso, in Sardegna, per un grande concorso ginnastico, dovendo portarsi da Cagliari a Sassari, in luogo di profittare delle comodità di un viaggio su di un treno speciale, o a bordo dell’yacht reale, percorreva tutta l’isola da un capo all’altro in automobile, in compagnia di S. A. R. la Principessa Giovanna, stabilendo egli stesso, in precedenza, l’itinerario, e praticando, a mano a mano, tutte quelle modificazioni di questo, che si palesavano opportune a rendere più interessante l’escursione. Re Vittorio volle così salire sino alle porte di Fonni, il comune dell’alpestre Barbagia d’Ollolai, a circa 1000 metri sul mare, dominato dal Monte Spada, e, più lungi, dalla grande dorsale del Gennargentu.

Ora, Fonni non è soltanto il Comune più elevato e più freddo della Sardegna, è fra i più pittoreschi ed interessanti, per il suggestivo panorama in mezzo al quale campeggia, per i boschi colossali di querce, di elci e di castani e le ampie praterie e le fresche sorgenti gorgoglianti; insomma, per quelle qualità naturali che ne potrebbero fare un’ottima stazione climatica se non vi mancasse ogni conforto di vita. È anche il paese ove il costume maschile resiste maggiormente, ove l’abbigliamento tradizionale costituisce ancora la regola, non l’eccezione; così come l’alpestre, solitario Desulo è il paese dove le donne indossano, generalmente, il rosso, singolarissimo costume.

Si direbbe che quell’abbigliamento, che dà, a chi lo porta, un aspetto così severo, abbia cercato un ultimo asilo, un estremo rifugio in quelle aspre montagne, cui gli antichi sardi chiedevano un’ultima difesa contro gli stranieri invasori.

Costume di Desulo
Costume di Desulo, di Guido Costa

Nel labirinto delle indagini sulle origini

Sull’origine dei costumi sardi gli studiosi sono lungi dal trovarsi d’accordo. Il Padre Cetti, nel 1774, affermava che anche il modo di vestire, come il costume di vitto, di lavoro, di decenza, di feste, di ospitalità, è orientale o greco. Altrettanto ne pensarono scrittori posteriori.

Invece, nel 1814, il Padre Napoli giudicava ridicola questa smania, che chiamo addirittura fanatismo di voler trovare nel linguaggio, nel vestire, nel mangiare, nelle zampogne e in molte altre cose, vestigia o derivazione dai greci. Il Lamarmora, che pur scende a minuti particolari su ogni singolo costume, non esprime un suo assoluto giudizio in proposito. Ma certo, l’aver egli segnalato un famoso idolo fenicio con mastrucca (pelliccia), ragas (gonnellino), borzaghinos calzarıni o ghette) e berretto a cono con sovrapposte trecce di capelli, ha indotto molti a far risalire agli antichissimi popoli d’Asia la maggior parte dei costumi della Sardegna. Il Padre Bresciani, poiché vede le colonie sarde derivanti dalle prime dispersioni di popoli provenienti da quella parte d’Asia ove fu la prima culla di coloro che ripopolarono il mondo, fa provenire da quel. le genti anche le prime fogge del vestire. Il Valery, l’Angius, il Maltzan, il Fara, il Manno, lo Spano, disputarono dottamente sui primi abitatori della Sardegna, ma la questione dell’origine degli abbigliamenti in uso per secoli nell’isola non ritrae gran lume da quelle dispute.

Enrico Costa, benemerito illustratore e divulgatore di tali costumi, senza pretese di fissarne in modo più o meno contestabile le originı storiche, affronta il problema con spirito e disinvoltura, quando parla degli svariatissimi costumi femminili. Qual capriccio indusse le genti abitanti in un paese a vestire diversamente da quelle di un altro alla distanza talvolta di uno o due chilometri?

Perché le femmine sarde cangiano di taglio dell’abito quasi ad ogni passo, mentre i loro uomini si mantengono fedeli ad un caratteristico ed unico costume? Si dovrà forse dedurne che ogni villaggio abbia vo luto, nelle proprie donne, conservare il ricordo d’origine di un popolo immigratore primitivo? Dovremo noi, per esempio, seguendo l’opinione dei diversi scrittori, ritenere per egiziane le calabrarisse, per saracene le dorgalesi, per libiche le foresotte di Mamoiada, per iberiche quelle di Quarto, per etrusche quelle di Posada, per fenicie quelle di Pula, per greche quelle di Sennori, per babilonesi quelle di Lanusei, per barbarici ne quelle di Aritzo, per mauritane quelle di Iglesias, per corse quelle di Gallura, e così via? Sarebbe difficile egli conclude il districarsi in un simile labirinto. Più comodo a noi torna mettere in fascio i costumi delle donne sarde (come fa il Bresciani) per farli tutti provenire dall’Asia. Serra abbastanza vasta per poter fornire i costumi a tutti i popoli del mondo.

Ad ogni modo egli non crede che i costumi ora conosciuti siano proprio gli antichissimi, a meno che essi abbiano subito trasformazioni notevoli nel lungo cammino percorso. L’antichissimo costume sardo, secondo lui, dovette essere molto più semplice e severo, meno appariscente e non così disparato quanto è oggi fra paese e paese; la ricchezza generale degli abiti, la vivacità dei colori, la qualità delle stoffe, i busti, i corsetti tempestati d’oro, nonché gli altri accessori decorativi odierni, von risalgono al di là di due secoli e forse anche meno, lo credo egli conclude che le più frequenti comunicazioni, i commerci accresciuti e il maggior affiatamento fra i paesani dell’interno con gli spagnoli e gli italiani abbiano esercitato negli ultimi due secoli (e non più in là) una certa influenza sulla vanità della donna, sempre amante della varietà, dei monili, delle stoffe a colori vivaci e degli abbigliamenti sfarzosi, e per essa i libi, i greci e gli etruschi non c’entrano quasi per nulla, Gli uomini si mantennero costanti e fedeli alle fogge antiche di vestire che rimontano al di là dei tempi di Cicerone, ma altrettanto non possiamo dire delle donne, poiché non è facilmente spiegabile la varietà dei loro abiti da villaggio a villaggio, dovuta certamente a spirito d’emulazione, o, meglio, d’indipendenza, cioè a dire alla smania di volersi distinguere dalle vicine rivali.

Costume di Aritzo, Sennori, Atzara, di Guido Costa
Costumi sassarese, di Guido Costa

Le cause della decadenza

Più facile è certamente fissare le cause del decadimento delle infinite fogge di vestire, cause che sono molteplici e, in prima linea, quella della poca praticità e dell’alto costo di tali abbigliamenti. Molti di essi, specie quelli femminili, per quanto esteticamente belli, sono poco o punto pratici perché assai complicati, non facili ad essere indossati con troppa speditezza e non fatti per da re a chi li porta la voluta snellezza di movimenti. Sono spesso molteplici, pesanti sottane e sottovesti sovrapposte le une sulle altre, con larghe falde, pieghettate o no; sono саррuсci o cuffie o bende in fronte o fasce alle gote o soggoli monacali, non di rado doppi o tripli, avviluppanti il capo e scialli più o meno pesanti e veli e complicati corsetti, o giubboni stretti e aderenti al braccio in tutta la lunghezza, sicché ci si stupisce come si sian potuti indossare, e ricche bottoniere al corsetto e alla camicia, che vanno talora dal gomito ai polsi.

Basta osservare solo anche una riproduzione fotografica del costume di Quarto Sant’Elena, oggi portato ancora solo da pochissime, per convincersi di quanto diciamo. Le stoffe di cui son fatti molti dei costumi sono assai costose. L’orbace del costume di Atzara o di Ploaghe è frutto dell’industre operosità casalinga delle massaie; comune e si paga a caro prezzo. Il panno della singolare tinta scarlatta, rosso, arancione, i velluti, i broccati a variati di segni, che si producono oltremare, le frange d’oro, si vendono, oggi, a prezzi proibitivi. E, d’altra parte, il contadino o il pastore, anche se abituato, per più lustri, a portare il costume del suo paese, dopo recatosi a fare il soldato in continente, al ritorno del servizio militare non può a meno di trovare più spediti ad indossare e più comodi a portare e altresì più economici la giacca e i calzoni comuni, che non il gonnellino greco, con relative braghette ed uose e la giacca ed il corpetto attillati e complicati.

Il costume maschile

Non è possibile, a meno di comporre un volume, descrivere le diverse fogge di abbigliamento, maschili e femminili. Ci limitiamo ad accennare ai diversi capi dell’indumento maschile, che, come abbiamo detto, è fondamentalmente più uniforme, ed a qualcuno dei costumi femminili più caratteristici e che meno si rassomigliano tra loro. La comunanza degli elementi fondamentali del costume maschile non esclude, però, che la diversità dei colori, la varietà, più o meno rilevante, di certi dettagli, non facciano differire notevolmente molti costumi l’uno dall’altro, Così, mentre a Fonni il corsetto rosso e i calzoni di saio bianco cadono sciolti sulle uose, e ad Atzara il corittu è turchino e i calzoni, pure bianchi, sono introdotti nei borzachinos, alla zuava, a Quarto Sant’Elena il corpetto è di velluto viola rabescato e attorno al berretto frigio corre un fazzoletto dai colori sgargianti, disposto come una specie di turbante, annodato superiormente alla fronte, E, d’altra parte, tutti questi costumi non hanno nulla ili comune, per esempio, con quelli così singolari dei maurreddus, dal giubbettino orlato e gli ampi e lunghi calzoni di orbace nero, che sembrano sottane.

Il copricapo è la beritta o barritta, una specie di berretto frigio di color nero, assai pesante e lungo, ora pendente in avanti, ora all’indietro e ora sopra l’omero, o ripiegato a modo di cono tronco ad uno o due o tre piani, che sembra stia ritto per un inesplicabile miracolo di equilibrio. Questo capo, assai pesante, è un indumento di produzione locale, che va scemando col rarefarsi dell’uso. Produzione locale nel senso che dal continente si fan venire i fili di lana merinos, colore naturale e nelle oggidì pochissime fabbriche di berrette si confeziona il panno, lo si tinge e si modellano is berritas. Ma si tratta, ripetiamo, di un’industria ridotta agli estremi.

Il Padre Bresciani trova questo copricapo usato… dal pastore Paride sul Monte Ica. II Padre Madau vede in esso la mitra che usavano i frigi ed i lidi. Il Lamarmora afferma che, quando vi si adatta un fazzoletto per fermarlo sotto il mento, risponde ai redimicula dei latini. Il Padre Napoli scrive va che, nel 1844, a Cagliari lo si portava di color rosso. Senza risalire al 1844, chi scrive queste linee ricorda più d’un rigattiere o pescatore cagliaritano che portava il berretto rosso, col fondo ripiegato verso l’interno, lungo l’estremità superiore, come, su per giù, quelli dei miliziani che ancor oggi compaiono a cavallo, alla processione di Sant’Efisio.

L’uso di portare i capelli lunghi, in modo da farli ricadere in avanti lateralmente alle guancie o accomodarli in treccia dietro la nuca, sia divisi, sia raccolti in sacchetti o cuffie, non si pratica più da un pezzo.

Rimarchevole la tendenza dei paesani dei due sessi a tenere il capo abbondantemente coperto, Quasi sempre il popolano, anche nei locali chiusi, anche a tavola, tiene il cappello in testa e la donna di servizio mal volentieri rinunzia a liberare dal fazzoletto il capo su cui l’avvolge quando al fazzoletto non sovrappone addirittura uno scialle, Non è, del resto, fra i casi impossibili a verificarsi quello di un contadino che porti il fazzoletto in capo, annodato sotto il mento alla foggia femminile, e sul fazzoletto o il berretto o il cappello, come nel caratteristico gruppo di vecchi campidanesi, che riproduciamo [dopo] a pag. 530.

Un tempo anzi non era raro, in certe regioni, di imbattersi in chi portava sul capo fazzoletto o berretto e su questo il cappello ad ampie tese. Qualche vecchio maurreddu nel Sulcis, fa ancor oggi altrettanto sfoggio di copricapo.

Altro capo caratteristico, comune a tutti costumi maschili, è il gonnellino (ragas) cortissimo, d’orbace o panno nero, una specie di imbraga a piegoni, che arieggia, per la forma, quello usato in Grecia, in Albania e nel Montenegro. Bresciani lo dichiara miscuglio di foggia etrusca e celtica. Dal gonnellino escono i calzoni di tela bianca, più propriamente ampie mutande, talora aperte all’estremità, talvolta raccolte e strette entro i borzachini, ghette d’orbace nero e, qualche volta, di cuoio, che vanno dallo stivale al polpaccio,

Completano l’abbigliamento maschile, come elemento essenziale, la gabbanella o cappottino, qualche cosa di mezzo fra il soprabito e la giacca, munito di cappuccio per riparare anche la testa, e il corittu, un corpetto di panno, con maniche aperte e adorne, spesso, di bottoni d’argento. La gabbanella è l’indumento più in uso: non troppo lungo per non impacciare nei movimenti e permettere di portarlo comodamente cavalcando, può dirsi che in verte regioni non si smetta mai, né d’estate, né d’inverno, riparando tanto dal freddo quanto dal caldo. Certo è un capo assai pratico di vestiario: essendo fatto, quasi sempre, di orbace, ossia di un tessuto di lana cruda, impermeabile: chi lo porta incappucciato è protetto anche dalla pioggia e dalla neve, dalla testa sin oltre la vita.

Il gabbano è un cappotto assai più lungo, che va oltre le ginocchia, e, talvolta, arriva ai calcagni, spaccato di dietro per potersi indossare anche a cavallo.

La best’e pedde, veste di pelle, specie di farsetto di pelle di capra o di pecora, conciata all’interno, e che si porta, per lo più, col pelo di fuori, aperto davanti e non stretto da cintura, è fra gli indumenti che vanno diventando maggiormente rari.

La mastrucca è la classica pelliccia, formata da un certo numero di pelli lanose di pecora, senza maniche; da essa deriva la denominazione, usata nell’antichità, di sardi pelliti o mastruccati.

Caratteristiche sono le cinture di cuoio, semplici o trapunte o adorne di disegni originali, a colori; strette alla vita, servivano, in tempi più feroci e men leggiadri, per te nere a posto, a portata di mano, il coltellaccio, talvolta una specie di daga addirittura. Potremmo far a meno di parlare del saccu de coberri įl sacco per coprire) se dovessimo considerare l’abbigliamento maschile solo dal punto di vista estetico, giacche si tratta semplicemente di due tagli di stoffa d’orba ce nero, applicati l’uno sull’altro, uniti da un lato.

Ma questo modestissimo capo, che è qualche cosa di mezzo fra lo scialle e il gabbano, e che il Lamarmora dice antichissimo, facendolo risalire agli Iberi, ha non piccola importanza pratica, per il fatto che i pastori, che son quelli che ancora lo usano, se ne servono per tutti gli usi della loro patriarcale esistenza randagia come soprabito, come cappuccio, come stuoia, come coperta da letto, come tovaglia, in inverno ed in estate, sempre e ovunque. I pastori fonnesi, nelle loro continue migrazioni da una regione ad un’altra, hanno ancora sempre, allato, accanto al fido, feroce mastino, quest’altro fido, prezioso compagno, nel quale si avvoltolano, nelle solitudini e nei rigori dei lunghi freddi invernali. La mancanza di questo misero, spesso lacero indumento, significherebbe la morte per essi.

Costume Orgosolo - di Guido Costa
Contadino di Nuoro, di Sebastiano Guiso
vecchio di Perdasdefogu, di Guido Costa
vecchietti Pirri, di Guido Costa

Il costume femminile

Come abbiamo già detto, il costume femminile è svariatissimo, tanto per fogge che per colori ed accessorii. Raro è fra essi quello che abbia qualche caratteristica essenziale comune con qualche altro. La tavola più tizianesca del mondo esclamava Paolo Mantegazza non basterebbe a tanti quadri di colorito e di fantastiche combinazioni.

E subito aggiungeva che, per quanto siano svariati gli acconciamenti femminili della Sardegna, hanno quasi tutti questi due caratteri eccezionali: molta copertura del capo e una grazia infinita per lasciar indovinare le bellissime bellezze del seno.

La constatazione della tendenza anche del la donna a coprirsi il capo risponde esattamente a verità Bastano i diversi tipi di acconciature femminili del capo che offriamo al lettore a convincerlo di ciò. Questa tendenza raggiunge l’iperbole nelle figure di donne di Sénnori le quali giungono quasi ad un eccesso quando, all’uscita della chiesa, per meglio coprirsi la testa, si alleggeriscono di una porzione degli indumenti un’altra parte del corpo.

Il primo dei cosiddetti caratteri eccezionali rilevato dal Mantegazza e da infiniti altri scrittori messo in evidenza con compiaci mento anche da un religioso, il Padre Madau, il quale nota che il velo usato per l’acconciatura del capo è il seguo dell’onestà e della verecondia delle donne sarde.

Il secondo è pur messo in evidenza con una certa crudezza da un altro religioso, il Gesuita Bresciani, il quale scrive che le donne dell’isola, nell’incredibile varietà delle fogge dei loro vestimenti, in questo solo convengono di aver tutte il seno coperto a ed il Corbetta, spesso eccessivo nei suoi giudizi, parla anch’egli della pretesa nudità del seno delle donne di Sardegna, le quali però, fan pendere dal collo una pezzuola chiamata su parapettu.

Il parapetto

Ora questo parapetto sarebbe dovuto, più che ad altro, alle ingiunzioni dei Padri Missionari di Cagliari. L’ingiunzione dei religiosi avrebbe sorpreso le donne sarde, le quali – è il Padre Bresciani che lo racconta come se parlasse di un trionfo degli scrupoli dei Missionari – rimasero stupefatti di ciò che nessuno aveva mai avvertito, nulla meno vollero ubbidire ai sacerdoti coprendosi il setto con un fazzoletto, quando vanno al mercato delle città cogli erbaggi e colle frutta.

Ora, a parte che l’asserito e non provato scollacciamento dei costumi e il conseguente intervento del parapetto protettore non potevano riguardare, tutt’al più, che pochi costumi, la miglior risposta a queste preoccupazioni noi troviamo nel libro di un geniale artista, e letterato francese, il Vuillier, il quale, nel 1893, scriveva queste parole piene di buon senso, e, soprattutto di sincerità: «Se il vestiario delle donne sarde, è, in generale, di una grande bellezza e di una rara magnificenza, il loro corsetto o busto è eseguito secondo il voto della natura, Ed è a questo corsetto, fatto come deve essere, che il seno delle donne sarde (già così celebre nell’antichità) deve lo sviluppo e le linee armoniche, e, grazie ad esso, non vi sono in Sardegna, cattive nutrici. Ecco dunque un piccolo popolo, ritenuto barbaro, le cui donne confezionano le proprie vesti con maggior rispetto verso l’igiene, di quello che non facevano le nostre decantate sarte parigine, frivole dispensatrici di busti sproporzionati ed impossibili.

Quanto al resto del costume femminile, meglio che da qualsiasi particolare descrizione, del resto impossibile a farsi in un articolo di rivista, data la infinita varietà delle fogge, il lettore ritrarrà una abbastanza genuina impressione dalla riproduzione fotografica di alcuni fra i costumi più caratteristici e meno rassomiglianti fra loro, sebbene manchi, in tale riproduzione, l’elemento più essenziale e tipico, il colore, utilizzato con una inconscia sapienza di artista, nelle trovate più geniali; del costume di Aritzo, in cui il rosso ed il marrone riescono a fondersi coll’azzurro attraverso ad abili adattamenti, costume meraviglioso per le maniche a sbuffi, per il ricco, grembiale e la caratteristica acconciatura del capo; di quello di Sénnori, pur esso tra i più sfarzosi e caratteristici, il cui corsetto è tutto un miracolo di ricchezza e di buon gusto; di quello di Atzara, degno di una regina e portato con regale maestà da una autentica paesana; di quello ancora generalmente usato dalle donne di Desulo, nell’alpestre, romita Barbagia, con la lunga sottana a guaina, alla cui estremità spunta, di prammatica, qualche centimetro di camicia, con la graziosa, microscopica cuffietta infantile e il corsetto di panno scarlatto a guarnizioni azzurre, nei cui ricami serici le tinte più stridenti armonizzano in un insieme di ottimo effetto.

Il lettore non può a meno di rimarcare il distacco notevolissimo da questi costumi a quelli delle donne di Tonara, all’abbigliamento di sposa di Thiesi, dal velo trasparente lievissimo. E noi vorremmo riprodurre, se la tirannia dello spazio non ce lo vietasse, il ricco costume di Osilo, color di fiamma viva, rievocazione palpitante delle donne del X e XI secolo, che ricordava al Lamarmora certe figure muliebri dei pittori di scuola, specialmente dei quadri di Leonardo da Vinci; e l’abbigliamento di gala delle dome di Quartu Sant’Elena, fatto di velluti, di broccati, di sete, di veli costosi, sovraccariche d’ori, alle orecchie, al collo, al petto, ai polsi, alle dita, costume sfarzoso, per quanto di grazia discutibile, in quanto toglie ogni snellezza e flessuosità di forme a chi lo porta e la fa rassomigliare ad un’antica divinità, destinata ad accogliere nell’immobilità e adornarsene, i doni preziosi dei fedeli.

Al cospetto di queste rivelazioni estetiche, un insigne pittore sardo, il Figari, affermava che un po’ di vita nomade, in Sardegna, nelle pianure e sulle montagne, lo aveva convinto che ogni più piccolo villaggio dell’isola può essere una buona Accademia, purché il pittore abbia occhi per imparare, soggiungendo: «nessuna gente sorta dallo stesso ceppo del nostro popola possiede un tesoro così ricco di bellezza; nessuna gente ha saputo sviluppare con tante risorse gli elementi rudimentali di una tradizione meglio di questo che non esito a definire un popolo di artisti anonimi». Non son mancati, ogni tanto, tentativi abbastanza riusciti di momentanee rievocazioni di questo passato e in qualcuna delle primarie città della Sardegna, indossati da paesane autentiche o da dame e fanciulle cittadine gli antichi costumi sono passati circonfusi di ammirazione, trionfanti della goffaggine inestetica delle fogge di vestire che trionfano oggidì, grazie alla moda.

Margherita di Savoia riportava un’impressione incancellabile della cavalcata in costume effettuatasi in suo onore a Sassari nell’aprile del 1899, quando accompagnata dal Re Umberto visitava l’isola.

Quelle centinaia di donne e cavalieri in costume d’altri tempi, che, ben saldi in sella, sfilavano dinanzi ai sovrani della libera Italia, agitando i lunghi berretti frigi e i lembi di serici zendadi multicolori e gittando gioiosamente il loro grido di devozione, non erano soltanto la riconsacrazione di tutta una tradizione immutata di fedeltà, ma davano altresì all’omaggio la forma estetica pin squisita.

Lo stesso magnifico spettacolo si rinnovava quando, a distanza di più anni, Re Vittorio prima e poscia il Principe Ereditario visitavano l’isola di Sardegna.

Costume di Seui
Costume Iglesias - Fratelli Pes di Cagliari
donna di Thiesi in abito da sposa, di Guido Costa
Donna di Tonara in costume da festa, di Guido Costa

Le due rocche dell’abbigliamento tradizionale

Il paese che custodisce e pratica più d’ogni altro la tradizione del costume maschile merita un cenno particolare. Fonni è un Comune ove l’allevamento del bestiame si pratica largamente, se non razionalmente. Non è esagerazione parlare di non meno di un centinaio di migliaia di capi fra pecorini e d’al tre specie. Le pecore non pascolano nel territorio di Fonni che dal maggio a settembre. Appena cominciano i rigori invernali i pastori fonnesi scendono ai campidani e alle spiagge, anche nei dintorni di Cagliari, procedendo a piccole tappe, allontanandosi dalle famiglie, che non rivedono fino alla primavera seguente. Solo compagno del pastore è, per tutto questo periodo di tempo, il grigio cane dal pelo ruvido che, disturbato, palesa istinti feroci. E così il pastore vive quasi ozioso, nell’isolamento, vagante per le campagne deserte, lontano dal consorzio de gli uomini, senza tetto, senza famiglia, con un’idea assai vaga della società e della legge, senza, per settimane intere, scambiare una parola con anima viva, guardando le pecore il più delle volte non sue.

Desulo, il comune della Barbagia ove resiste maggiormente il costume femminile, che portato dalla generalità degli abitanti, è il più elevato della provincia di Cagliari (801 m.); nel cuore dell’isola, ai confini con la provincia di Sassari e precisamente con quel Circondario, oggi Provincia di Nuoro, in cui è compreso Fonni. La deficiente viabilità e gli scarsi mezzi di comunicazione sono stati, per molto tempo, l’ostacolo precipuo alla penetrazione del vestiario comune. Ma Fonni e Desulo si avviano a diventare, purtroppo, riguardo al costume, oasi del deserto. Fra i comuni ove ancora perdura la tradizione del costume caratteristico, portato da tutte le donne, ricordiamo Atzara, Anela, Busachi, Bultei, Benetutti, Bono, Burgos, Ittiri, Ilorai, Gavoi, Tonara, Tissi; a Sénnori il costume femminile è portato la festa; a Oliena uomini e donne to indossano, nella grande maggioranza, quasi quotidianamente.

Per la conservazione del ricordo

Purtroppo questi fulgidi documenti di una bellezza trionfante in un più o meno lontano passato, questi abbigliamenti così interessanti sotto l’aspetto storico, etnografico, artistico e folcloristico, sono condannati a sparire. Anzi alcuni sono già scomparsi per sempre. È si dice la marcia del progresso, la quale tutto investe, invade e travolge, che fa queste vittime, che riluce al la piatta, gretta uniformità tutte le fogge di vestire, anche quelle che erano meraviglie di colori e di foggia, come ha già ridotto alla più piatta, desolante conformità le chiome delle donne di quasi tutto il mondo.

Inchiniamoci pure, se è inevitabile, per quanto con un senso di infinito, nostalgico rimpianto, dinanzi a queste tiranniche forme di progresso. Ma non senza domandarci se non sia il caso di tentare di conservare, come meglio sarà possibile, almeno il ricordo di queste manifestazioni esteriori di un profondo senso d’arte paesana popolare, di queste veraci, vergini tradizioni di bellezza, di grazia, di poesie, che sarebbe colpa lasciar vanire nel grigio del tempo, se non sin bene pensare, fin d’ora, a far qualche cosa più che ad esprimere una scorata nostalgia.

La geniale concezione dei Musei paesani, auspicati dal Colasanti e il fatto dell’esistenza di Musei etnografici che rispondono a quella funzione cui noi accenniamo, ci autorizzano a bene sperare.

Noi non facciamo proposte concrete, ma rinnoviamo, su queste pagine, la domanda che ci siamo fatti più d’una volta: se un Museo in cui si adunassero questi esemplari dei nostri bei costumi [che] sia ancora possibile salvare o si ricostituissero quelli che non son più, dai più antichi agli ultimi sopravvissuti negli elementi essenziali ed accessori; [se] una raccolta in cui si accogliesse tutto quanto possa giovare a loro illustrazione, non avrebbe minor numero di visitatori di quelle altre raccolte pur esse degnissime di rispetto, in cui si custodiscono altri più freddi e meno estetici documenti della nostra vita passata.

Costume S. Antioco - Guido Costa
Sposi di Dorgali in costume, di Guido Costa
Donna di Busachi, di Guido Costa
Costume di Nuoro

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