Dalla Presentazione di Guido Rombi
In questo paragrafo si spiega perché la Gallura, soprattutto per motivi economici, sia stata una regione fino a quel momento poco popolosa (interessanti sono le stime della popolazione dall’antichità all’800 e soprattutto l’analisi dell’andamento demografico in connessione con le condizioni storiche, economiche e sociali, la natalità e la mortalità).
La Gallura è una regione montuosa intersecata da numerose colline e valli, ed è costituita da un terreno granitico poco fertile. Essa può esser divisa in due zone: la montana o meridionale e la marina o settentrionale. La montana si presta poco ad una coltivazione rimunerativa di cereali ed è abbondante di pascoli alpestri e vi cresce bene la vite; la marina invece è più fertile e consente varie culture rimunerative. Nel complesso però la Gallura non consente abbondanza di prodotti ed è poco favorevole ad una popolazione molto densa. Su una superficie totale di circa duecento ettari ne ha quattordicimila addirittura improduttive, oltre centomila utilizzabili solo a pascoli ed oltre duemila e cinquecento coperte da boschi.
Io non so se al tempo dei Romani la Gallura coltivasse tanti campi e producesse tanto frumento da bastare ai bisogni locali, ma so che da secoli essa è stata sempre per le granaglie tributaria dell’Anglona. E quando si attribuisce alla Gallura, al tempo romano, una popolazione assai numerosa, io credo che si cada nell’esagerazione. Plinio, è vero, enumera i Balari ed i Corsi fra le popolazioni più note e più dense, ma questa densità bisogna intenderla cum grano salis e metterla in rapporto alle condizioni di vita di quelle popolazioni, ed alla produttività della regione[1].
Gli storici sardi sono portati in genere ad esagerare la popolazione della Sardegna, al tempo dei romani, traviati dall’idea che la Sardegna costituiva il granaio di Roma. Non abbiamo diritto di infirmare le affermazioni di Tito Livio, che ci dicono che qualche volta i granai di Roma non bastarono a ricevere il grano, che veniva dalla Sardegna; ma d’altra parte non bisogna dimenticare che Roma si forniva di grano anche dalla Sicilia e dall’Africa.
Ad ogni modo anche a voler ammettere che l’agricoltura fosse estesa a tutte le regioni dell’Isola non potremmo mai arrivare a certe cifre esagerate (oltre 2 milioni) che alcuni scrittori mettono avanti. Accettando i calcoli del Levasseur, che danno alla civiltà agricola primitiva un massimo di densità di 40 per kmq[2], tutt’al più la popolazione sarda sotto i romani avrebbe potuto giungere ad un milione circa[3]. Ma la Sardegna era in gran parte abitata da popoli, i quali chiedevano alla pastorizia i mezzi di sostentamento. La popolazione di un paese è in rapporto alla quantità dei prodotti che esso può dare, e questa quantità dipende dal modo di sfruttamento del suolo: quindi la densità di un popolo è in rapporto alla fase economica cui è giunto. Ora l’economia pastorale non consente una popolazione molto densa, cosicché per alimentare poche famiglie è necessario disporre di grandi estensioni di pascoli. Sempre secondo il Levasseur, l’economia pastorale non può consentire una densità di popolazione superiore ai tre per km.q. Anche ritenendo questa cifra troppo esigua per una pastorizia alquanto progredita e stabile, si deve sempre convenire che la popolazione della Sardegna romana non poteva che accostarsi al milione. Ed in questo convengono anche i calcoli del Beloch, che attribuiscono alla Sardegna ed alla Corsica insieme al tempo di Augusto una popolazione di un milione, compresi liberi e schiavi.
E naturalmente anche la popolazione della Gallura non può essere stata molto densa. I Balari ed i Corsi, che costituivano il grosso della popolazione gallurese, erano ancora dei popoli pastori che si cibavano di latte, carne e formaggio.
Nella mancanza di documenti che ci dicano il numero degli abitanti di Gallura sotto Roma, mi piace di tentare un calcolo, tanto per avere una cifra approssimativa della popolazione gallurese in questo tempo. Negli anni di Roma 575-76 il console Tiberio Sempronio Gracco in due successive battaglie contro Balari, Iliesi e Corsi insieme collegati, uccise 27.000 nemici e fece un gran numero di prigionieri, per cui ebbe il trionfo. Ponendo che Balari ed Iliesi si trovassero nella lega in proporzioni uguali; e che i Corsi vi entrassero per una quarta parte, tra Balari e Corsi sarebbero periti e fatti prigionieri non meno di 20.000 persone. E poiché, come abbiamo visto, il grosso della popolazione gallurese era formato dai Corsi, così, calcolando in Gallura la proporzione tra Balari e Corsi come 1:3, avremo che oltre diecimila galluresi sarebbero rimasti nella guerra di T. S. Gracco, tra morti e prigionieri. Considerando ora che tutti gli individui atti alle armi in un paese primitivo costituiscano il quarto della popolazione totale, avremo che la popolazione gallurese dei Balari e dei Corsi non poteva essere inferiore ai 40.000 abitanti. Ma la popolazione di Gallura comprendeva anche Olbia e tutta la plaga marittima, che era divenuta una conquista pacifica di Roma. Perciò, tutto considerato, la popolazione complessiva della Gallura nel sesto secolo di Roma doveva aggirarsi intorno ai 50.000 abitanti.
Benché gli elementi di questo calcolo non siano né molto attendibili né sufficienti, perché non sappiamo il numero preciso dei prigionieri e nemmeno degli scampati con la fuga, né l’esatta proporzione degli eserciti alleati, tuttavia la cifra così calcolata non deve essere molto lontana dal vero. Perché tenendo conto dei calcoli del Beloch e ricordando le rispettive superficie della Corsica e della Sardegna (1:3) e della Gallura rispetto all’isola intera (1:12) si avrebbe per la Sardegna una popolazione di circa 700.000 abitanti e per la Gallura di oltre 50.000.
É certo ad ogni modo che la Gallura costituiva una delle regioni più importanti allora per la sua vicinanza a Roma e per la sicurezza degli approdi.
Tutto il commercio di Roma doveva compiersi attraverso la Gallura. Olbia, per il suo porto capace di dar asilo a più flotte insieme, era lo scalo naturale dei vascelli che partivano da Ostia; e Tibula, eccellente posizione militare e commerciale, era il porto più acconcio per il commercio con la Corsica e per quello che si faceva attraverso la Corsica. Aveva quindi in quest’epoca due città aventi rem pubblicam, Olbia e Tibula, e numerosi vici: Viniola, Longone, Elephantaria, Turubole minore, Coclearia, Cares tutti sul mare e Gemellas, Erucium, mediterranei. Gemellas veramente costituì da principio una semplice stazione romana, messa ai piedi del Limbara per tenere a bada Balari e Corsi; ma più tardi, cessato lo stato di guerra e concluso il patto di reciproca non belligeranza tra romani e popoli montani, Gemellas deve essersi trasformata in un popoloso villaggio.
I paesi sopranominati rappresentavano villaggi romani, ma dei villaggi dei Corsi e dei Balari propriamente non sappiamo nulla; e forse Antonino non ne tenne conto nel suo itinerario perché non cadevano su nessuna delle numerose strade che attraversavano la regione.
Una rete ammirabile di strade romane attraversava infatti in tutti i sensi la Gallura. Le strade mettevano capo ai due porti di mare, Tibula ed Olbia, le quali erano congiunte fra loro mediante due tronchi, uno litoraneo e l’altro mediterraneo.
Delle strade, due erano le principali e partendo da Tibula giungevano a Cagliari, una lungo il litorale settentrionale ed orientale passando per Turubole minore, Elephantaria, Longone, Olbia, Coclearia, e l’altra attraversando la Gallura montana a Gemellas.
Un’altra strada principale allacciava Tibula a Turris Libissonis lungo il litorale occidentale passando per Viniola. Un altro tronco metteva in diretta comunicazione Viniola con Erucium[4]. Questa condizione di viabilità suppone un commercio abbastanza sviluppato ed una popolazione abbastanza numerosa, perché, se è vero che in primo tempo queste strade furono aperte per ragioni militari, in seguito devono aver servito unicamente a facilitare le comunicazioni commerciali dell’isola con Roma, cosicché la Gallura romana doveva essere una regione abbastanza florida.
Col decadere della potenza romana, decadeva anche la floridezza della Sardegna, la quale, oppressa da un cumulo enorme di tasse, di requisizioni e di prestazioni tanto da obbligare i padri a vendere i propri figli per pagare le imposte[5], abbandonava l’agricoltura per tornare alla pastorizia, il latifondo succedeva alla piccola coltura e la popolazione diminuiva. A rendere più grave la situazione venne, sulla fine del secolo quinto, la conquista dei Vandali, i quali ridussero al minimum la popolazione indigena con le persecuzioni, gli esili e la schiavitù.
Dopo la cacciata dei Vandali, sotto l’impero bizantino e specialmente sotto Giustiniano, la popolazione della Sardegna aumentò considerevolmente. Ma essa tornò a diminuire e di molto tra il IX e l’XI secolo a causa delle continue aggressioni dei Mori. E benché le poche notizie che abbiamo diano quasi sempre la vittoria ai Sardi, tuttavia le perdite dovettero essere molto gravi. L’abbandono poi dei luoghi più fertili sul mare per fuggire il pericolo moro, ed il conseguente abbandono della coltivazione dei campi migliori, stremarono addirittura la popolazione sarda. La quale poté rifarsi solo quando, sconfitti i mori definitivamente grazie all’aiuto delle due repubbliche di Pisa e di Genova, l’isola riprese con maggiore slancio e con maggiore tranquillità la coltivazione della terra ed al commercio.
La Gallura, sotto il protettorato di Pisa e nel suo giudicato indipendente, tornò quindi all’agricoltura e a ripopolare quelle campagne che aveva abbandonate di fronte alle aggressioni dei Saraceni. Le navi di Pisa e di Genova ricercavano volentieri i formaggi, le lane ed i grani della Gallura e la popolazione raddoppiava d’attività per sopperire ai bisogni del commercio. E nonostante le guerre intestine, che travagliavano i giudicati fra di loro e le guerre tra Pisa e Genova, che facilmente e frequentemente trovavano il loro teatro nella Sardegna e nella Gallura, la popolazione cresceva ad una densità che non aveva mai avuto prima e che non avrà mai più dopo.
Dall’inventario di consegna del giudicato di Gallura al re d’Aragona [il Componiment de Sardenya, del 1358] si rileva che in quest’epoca la Gallura era divisa in otto curatorie ed aveva una cinquantina di villaggi:
DIPARTIMENTO DELLA GALLURA GALLURA SUPERIORE[6]
Curatoria di Civita: Terranova, Villa Verri, Puzzolu, Caressu, Telti, Villamaggiore, Talaniana, Larassana.
Curatoria di Unale: Arzaghena, Aristana. Albagnana, Villa Castro, Ortomurato, Corruaro.
Curatoria Montangia: Assuni, Alvargius, La Paliga, Melassuni, Agnoragni, Villa Logusanto.
Curatoria di Canahini: Agiana, Villa Canaran, Villa Canahini.
Curatoria di Balariana: Villa Batore, S. Stefano, Uranno, Nuragi, Vignamaggiore, Telargiu.
Curatoria di Gemini: Villa Templi, Aggius, Villa Latinaro, Guortiglassa, Nughes, Lauras, Campo di vigne, Calanianus.
Curatoria di Taras: Villa Agugari, Lappia, Guardoso, Malacaras, Villadanno, Villa Nuragui.
Curatoria di Orfili: Orfili superiore, Orfili inferiore, Offude.
In questo lungo elenco di nomi nessuno dei nomi dei villaggi romani compare, se si fa eccezione di Caressu che ricorda evidentemente l’antica Cares e di Gemini che ricorda il nome di Gemellas. Olbia ha già preso il nome di Terranova, dopo aver lasciato quello di Fausania e di Civitas.
L’Angius fa salire la popolazione di quest’epoca ad oltre centomila abitanti. Ma questa cifra mi pare troppo lontana dalla verità, perché i villaggi, di cui abbiamo dato i nomi, non possono essere stati molto popolosi. Il più grosso di essi, Terranova, pagava di feudo 79 lire sarde e ve n’erano di quelli che pagavano appena 0,10[7]. Per cui, anche considerate tutte le più larghe esenzioni dal diritto di feudo, questi villaggi dovevano essere abitati in media da qualche centinaio di famiglie.
Ad ogni modo si può affermare che sotto i giudicati la Gallura era popolata come non era nemmeno al tempo dei romani, senza contare che mancavano quelle marine deserte che notò qualche secolo più tardi il Fara.
Caduti i giudicati e compiutasi la conquista aragonese, la popolazione decadde precipitosamente.
Tutto si addensò su questa povera terra sarda in questo triste periodo di tempo: guerre e pestilenze, l’ira degli uomini e della natura. La pestilenza del 1376 distrugge una gran parte dei villaggi: Arzaghena, Ortomurato, Corruaro, Aristana, Alvargias, Melassuni, Stagiana, Canahini, Canaran, Batore, Nuragi, Vignamaggiore, Lappia, Villa-Danno, Vignola, Monticareddu, Agughedu)[8].
I Barbareschi ed il mal governo di Aragona fecero il resto, ed alla fine del secolo XVI il Fara ricorda una Gallura deserta nella sua maggior parte ed abitata solo nella curatoria mediterranea di Gemini che possedeva sette paesi: Nuchis, Luras, Calangianus, Tempio, Bortigiadas, Aggius, Terranova[9].
Ma bisogna ad onor del vero confessare che anche gli abitanti della Gallura concorsero in qualche modo all’opera di spopolamento della regione: Don Pietro d’Aragona aveva ordinato a certo Francesco Dauratis di erigere un borgo invece di una fortezza in un luogo detto Cesara; Francesco Dauratis vi stabilì infatti una colonia, ma gli abitanti di Gemini, che sfruttavano i pascoli di quelle terre dove sorgeva il borgo, distrussero la colonia uccidendo e mettendo in fuga i coloni.
Più gravi danni però apportò l’opera del governo aragonese.
Il re di Aragona si era messo in testa di conquistare Bonifacio nella vicina Corsica, che dipendeva dalla repubblica di Genova. A tale scopo cominciò col lusingare tutti i Corsi, che avevano stabile stanza e praticavano in Gallura[10] per ragioni di commercio, affinché facessero ribellare i Bonifacini. Riuscite vane le lusinghe, ricorse alle minacce ed alle intimidazioni e nel 1460 emise un bando col quale si ordinava la confisca di tutti i beni dei Corsi di Gallura e si promise un terzo di detti beni a chi avesse denunziato un Corso. E non riuscendo neanche con le persecuzioni a far ribellare i Corsi di Bonifacio, Ferdinando il Cattolico ordinò con altro bando l’espulsione di tutti i Corsi dalla Gallura.
E già nel 1422 il re Alfonso aveva fatto demolire il castello di Longone, che portò con sé l’abbandono del borgo sottostante dato che i suoi abitanti non arrischiarono di rimanervi indifesi per paura dei pirati barbareschi; e nel 1481 Ferdinando il Cattolico aveva già espulso dall’isola tutti i Genovesi ed i Pisani concedendo loro solamente il tempo necessario per vendere le proprietà: e finalmente nel 1492 furono, con decreto dello stesso monarca, espulsi gli Ebrei.
Né dovettero essere poche le famiglie che, per tali decreti insipienti, lasciarono la Gallura. Fu infatti il periodo più disgraziato per l’isola intera quello che decorre dalla conquista aragonese alla convalidazione del governo di Spagna.
A causa del feudalismo largamente diffuso e delle pretese che i signori feudali accampavano, l’agricoltura decadde ed i campi furono abbandonati al pascolo brado di numerose mandrie vaganti. La prepotenza dei feudatari e degli ufficiali del governo non permetteva lo sviluppo dell’agricoltura e del commercio, perché i signori non solo si limitavano a spillare danaro ai coloni con imposizioni non dovute e con raggiri, ma impedivano altresì ai vassalli di vendere ed esportare le loro derrate, di cui essi si facevano acquisitori, imponendo quel prezzo che loro meglio conveniva. Ed invano i decreti del lontano monarca richiamavano gli ufficiali del governo, venuti in Sardegna a rifarsi delle sostanze altrove sciupate, al proprio dovere: invano ricordavano ai feudatari od ai loro intendenti i loro limitati diritti o imponevano di cessare dalle vessazioni verso i vassalli; invano le deliberazioni degli stamenti incoraggiavano l’agricoltura con premi e con facilitazioni d’acquisto di proprietà.
Questi decreti rimanevano lettera morta, e la volontà dei feudatari finiva coll’avere ragione sempre. Mancava così l’interesse allo sfruttamento della terra ed al commercio delle derrate e l’agricoltura decadeva, il commercio languiva e la popolazione immiseriva e scemava. Quella popolazione, così numerosa al tempo del giudicato, era ridotta nel 1526 appena a 1807 fuochi, a meno cioè di diecimila abitanti. È vero che la popolazione reale sarà stata superiore a quella censita per fuochi, ma ad ogni modo si aveva una popolazione scarsissima, meno di quanto ne ha oggi il solo comune di Tempio.
Sotto il governo di Spagna, cessato lo stato di guerra continuo, la popolazione riprese a crescere, ma entro limiti molto ristretti. Lo stato d’isolamento commerciale provocato dalle leggi doganali, le rivalità ed i previlegi ad arte suscitati fra le città, che impedivano la produzione ed il commercio, erano in tali condizioni che non potevano permettere un incremento rapido di popolazione. Così nel censimento del 1688 si ha una popolazione di 10.585 abitanti, in quello del 1698 di 12.713 ed in quello del 1728 di 13.793[11]; in quarant’anni la popolazione aumenta di 3244 abitanti con una media annuale di appena 81! Nel decennio 1688-97 l’aumento per ogni mille abitanti fu di circa 21 e tra il 1698 ed il 1728 di solo 3! La ragione di così fatta diminuzione in quest’ultimo periodo si deve ricercare nella peste del 1720 e nella guerra provocata dalla successione al trono di Spagna.
La Gallura prese parte principale a questa guerra, perché essa fu il centro di quella fazione che parteggiava per Carlo d’Austria. Molte famiglie, nei due periodi di rappresaglie succeduti alla guerra, dovettero lasciare il paese natio per trovare nell’esilio una dimora più sicura. Il governo d’Austria, dopo avere fatto sperare molto alla popolazione gallurese con il condono per cinque anni delle imposte, infierì poi con le vessazioni e coi monopoli e ridusse a tal punto la situazione del paese, che il poeta poteva lamentare:
Pa noi no v’ha middori
Sempri semu in locu strintu
O regnia Filippa Quintu
O Carrulu Imperadori[12]
E le condizioni del paese si fecero ancora più grame, quando per poco il Cardinale Alberoni riuscì a restituire la Sardegna alla Spagna.
Passata l’isola sotto il governo del Piemonte, l’incremento della popolazione riprende ancora lentamente; e nel 1751 la Gallura conta 16.063 abitanti e nel 1782 18.948. Tra l’uno e l’altro censimento la popolazione della Gallura si accrebbe dell’isola della Maddalena, che, abitata da alcune famiglie liguri e corse, costituiva una specie di paese libero ed a sé fino a che il Conte Bogino la fece occupare ed annettere al regno di Sardegna.
Un censimento ecclesiastico del 1780 rileva la popolazione gallurese in 21.589 anime[13] e se nel 1782 se ne contano solo 18.948, ciò si deve, a parte gli errori di censimento, alla carestia del 1780 che provocò una grande mortalità.
Quando il governo piemontese s’accorse dai censimenti della grande scarsità di popolazione e del lieve aumento annuale, cercò di favorirne l’incremento sia incoraggiando lo sviluppo dell’agricoltura e del commercio e sia concedendo nuovi feudi sulle terre spopolate a condizione di portarvi dal di fuori i vassalli e sia promuovendo direttamente la colonizzazione esterna. Ma tutti i tentativi di colonizzazione fallirono, se si fa eccezione di Carloforte, e dovevano fallire di fronte ai numerosi privilegi feudali ed agli usi pubblici gravanti su tutti i terreni. Ad ogni modo la Gallura non entrava mai nei propositi di colonizzazione sia per la sua situazione sia per la natura del suolo.
Né la popolazione trovava condizioni favorevoli al suo accrescimento nello stato generale del nuovo governo piemontese. La costituzione politica era sempre la medesima, medesima la costituzione economica, identiche le leggi doganali e uguali i privilegi e gli abusi.
Date le difficoltà della vita e gli impedimenti sociali, specialmente quelli delle corporazioni, per cui l’individuo tardava a diventare uomo, i matrimoni si facevano scarsamente ed a tarda età per cui divenivano anche poco fecondi. Epperò contro questi ostacoli, inamovibili in una società feudale, si infrangevano tutti i provvedimenti superficiali del governo diretti ad accrescere la popolazione.
Nonostante le dotazioni concesse alle ragazze povere per passare più facilmente a marito, i matrimoni continuavano ad essere scarsi, perché la formazione di una famiglia non trovava il solo ostacolo nella mancanza di un correduccio femminile. Ma il governo piemontese, passato l’entusiasmo della recente conquista, si ridusse all’applicazione della legge sulla falsariga del governo spagnolo. Anzi l’azione del governo piemontese divenne positivamente contraria all’incremento della popolazione, quando sopravvennero i torbidi di Francia. Esso prese occasione da questo movimento innovatore esterno per abbandonarsi alla reazione più cieca e violenta, nonostante le prove di assoluta fedeltà avute dal popolo sardo.
Una crisi generale imperversò su tutta l’isola e tutto andava a soqquadro: giustizia e finanze agricoltura e commercio. Le carestie affliggevano le popolazioni, mancava addirittura il pane per mancata coltivazione delle terre e per insufficienza dei raccolti, e la fame mieteva vittime in abbondanza. Sono tristamente famose le carestie del 1811, 1812 e 1816, quest’ultima accompagnata per giunta dalla peste. Per di più in Gallura infierivano le fazioni omicide e le turbolenze per la coscrizione militare, e la popolazione scese a 17.783 anime.
La fondazione di S. Teresa, avvenuta nel 1808, non portò alcun aumento nella popolazione gallurese, perché delle trentatré famiglie colle quali sorse il paese e delle 400 persone che contava nel 1810, la grandissima maggioranza era costituita da pastori delle cussorge vicine, solo pochissimi essendo i coloni non galluresi.
Di censimenti non ne furono più fatti fino al 1846. L’Angius però fa ascendere la popolazione gallurese del 1838 a 27.000 anime[14]. Ma l’Angius era troppo largo nei suoi calcoli e questa cifra mi pare troppo esagerata. Infatti nel censimento del 1846 la popolazione arriva a 23.854 persone; ed anche tenuto conto degli errori e delle frodi fatte al censimento ufficiale, perché molti individui non venivano denunziati per paura di un aggravamento di imposte, non so trovare le ragioni che spieghino una così rilevante diminuzione, che non si ebbe nemmeno nel peggiore periodo di fame e di peste del 1816.
Dopo la costituzione del regno d’Italia sono stati fatti quattro censimenti dai quali si ricava che la popolazione continuò a crescere, ma molto lentamente.
Tutti i provvedimenti di ordine economico e di ordine civile presi dal governo italiano non hanno suscitato quell’incremento dell’agricoltura, dell’industria e del commercio, che avrebbe dovuto determinare l’incremento della popolazione. L’abolizione del pascolo comune e la ripartizione delle terre comunali e ademprivili hanno lasciato immutati i sistemi di coltura e di allevamento perché non coerentemente stimolati dall’istruzione, da un credito non sufficiente ai bisogni dei numerosi nuovi proprietari, dalle comunicazioni interne e col continente scarse e dispendiose. I molti progetti di colonizzazione concepiti da Cavour in poi non hanno mai avuto la fortuna di uscire dallo stato di progetti e le speranze, fatte concepire dal concordato con la società delle ferrovie, fallirono miseramente.
La popolazione di Gallura è di 24.764 anime nel 1861, di 25.708 nel 1871, di 28.444 nel 1881 e di 41.119 nel 1901. L’aumento è di 3,7 per mille abitanti tra il 1861-71, di 10,4 tra il 1871-81 e di 22 nel 1881-901.
Dopo il 1871 la percentuale d’accrescimento della popolazione è stata abbastanza alta e più alta assai diventa negli ultimi vent’anni. Ma l’aumento di quest’ultimo periodo più che ad un accrescimento naturale della popolazione, collegato a migliorate condizioni economiche, è dovuto al grande movimento d’immigrazione determinato dai lavori militari nell’estuario dell’isola della Maddalena. La popolazione di questo paese prima dei lavori, nel censimento del 1881 era di appena 1895 anime, e nell’ultimo censimento sale invece a 8033, inoltre la natalità si mantiene presso a poco allo stesso punto da oltre quarant’anni e la mortalità è di poco diminuita.
La storia della popolazione gallurese ci dimostra che ogni qualvolta la popolazione cresce si allarga verso il mare, e quando diminuisce si ritira sui monti. Durante la conquista cartaginese e romana i popoli indigeni, fuggendo la schiavitù, si ritirano sui monti; a conquista compiuta e pacificazione fatta la popolazione torna ai campi, s’accresce e si estende sulle regioni litoranee. Il maggior numero dei villaggi sotto il governo di Roma lo troviamo lungo le vie litoranee. Per le invasioni dei Mori la popolazione decresce ed abbandona i luoghi più esposti agli assalti nemici, le marine indifese, ritirandosi al riparo dei monti; e questo movimento di ritirata non cessa se non quando è definitivamente scomparso il pericolo moro. Allora sotto i liberi e prosperi giudicati la popolazione cresce nuovamente e nuovamente si estende nelle marine.
Ma il movimento di ritirata ripiglia sotto gli aragonesi di fronte alle incursioni dei pirati barbareschi, e la popolazione raggiunge il suo massimo decremento. Oggi una parte della popolazione abbandona i paesi dell’interno e si riversa un’altra volta verso le marine e questo movimento è tanto più accentuato quanto maggiore è l’aumento delle popolazioni cittadine.
In quest’alternativa di aumento e di diminuzione molti paesi sono del tutto scomparsi, altri hanno seguito l’altalena generale.
Delle città e dei villaggi romani già non troviamo quasi più traccia nel documento del 1358, se non di Caressu che ricorda l’antica Cares, e di Olbia che è divenuta Terranova. E dei numerosi villaggi, che popolavano la Gallura sotto i giudici, la gran parte era scomparsa con la peste del 1376 ed alla fine del secolo XVI non sopravvivevano che Tempio, Terranova, Calangianus, Aggius, Bortigiadas, Luras e Nuchis. Di questi paesi le vicende poi variano nei secoli.
Olbia sopravvive, come abbiamo detto, in Terranova, la quale al tempo dei giudicati era il paese più importante del distretto ed era la capitale del giudicato, sede del giudice e del vescovo, come fu del questore al tempo di Roma. Con la caduta del giudicato cominciò la sua decadenza, ed alla fine del secolo XV era tanto povera di popolazione che Giulio II le tolse il vescovado, annettendolo ad Ampurias. Sulla rovina di Terranova acquistò sempre più importanza Tempio.
Nel documento del 1358 Tempio è uno dei paesi più piccoli: era alla pari con Nuchis e veniva dopo Bortigiadas e dopo Aggius e pagava 15 lire di feudo; oggi è il paese più popolato ed è il capoluogo del circondario sede della Sottoprefettura, del Tribunale, del Vescovado.
Sempre nel documento del 1358 Bortigiadas figura come un grosso paese che viene dopo Terranova, ma oggi è il paese più spopolato e la cui popolazione diminuisce sempre. In ordine di importanza seguono Aggius, Tempio, Nuchis, Luras, Calangianus. Calangianus era allora il più piccolo paese e pagava tre lire di feudo ed oggi il terzo dopo Tempio e Terranova.
L’importanza di Tempio si afferma recisamente ed ufficialmente nel 1698, nel quale anno conta 3862 persone censite per fuocatico[15], è rappresentato alle corti da settantanove cavalieri, ha già l’istituto delle scuole pie e chiede al parlamento l’onore di essere elevato a città. Quest’onore Tempio aveva già chiesto ed ottenuto fin da dieci anni prima dal parlamento convocato dal San Germano, ma non poté godere del privilegio perché troppo oneroso. Il diploma venne infatti da Madrid col nome in bianco, ma di fronte al prezzo troppo elevato da pagare Tempio rinunciò.
Nel censimento del 1698 Calangianus viene secondo, dopo Tempio, con 2081 abitanti, segue poi Aggius con 1003, Luras con 764, Bortigiadas con 569, Terranova con 379 e Nuchis con 284.
Nel 1780, quasi dopo un secolo, Tempio rimane sempre alla testa con 3021 abitanti, segue Calangianus con 2900, Terranova con 2500, Aggius con 2300, Bortigiadas con 2095. Luras con 1800 e Nuchis con 800.
Intanto era stata annessa alla Gallura l’isola della Maddalena, che era abitata da alcune famiglie liguri e corse, e nel 1808 viene fondata S. Teresa sul posto dell’antico Longone con trentatré famiglie di pastori.
In questi ultimi cinquant’anni la popolazione totale si è quasi raddoppiata passando da 23.569 anime nel 1857, a 41.119 nel 1901; ma si è certamente raddoppiata la popolazione vivente agglomerata nei paesi, che è prima di 12.268 e poi 24.450.
CENSIMENTO 31 DICEMBRE 1857 CENSIMENTO 17 FEBBRAIO 1901 | |||||
PAESI | Paese | Campagna | Paese | Campagna | |
Aggius | 529 | 1771 | 820 | 2313 | |
Bortigiadas | 454 | 1266 | 410 | 726 | |
Calangianus | 1203 | 985 | 1872 | 1943 | |
Luras | 1438 | 394 | 2122 | 387 | |
Maddalena | 1798 | 114 | 8033 | – | |
Nuchis | 302 | 675 | 375 | 896 | |
S. Teresa | 806 | 523 | 1418 | 883 | |
Tempio | 4604 | 4943 | 6511 | 8064 | |
Terranova | 1239 | 766 | 2889 | 1459 |
Questo raddoppiamento della popolazione di città non è dovuto ad una cresciuta natalità e ad una diminuita mortalità, non è dovuto cioè ad un accrescimento naturale, ma all’immigrazione di La Maddalena. Infatti l’aumento per ogni mille abitanti è di 7,2 per la popolazione di campagna e di 7,5 per quella di città, esclusa dal calcolo La Maddalena. Tuttavia si nota uno spostamento della popolazione accentrata verso la campagna a Tempio ed a Calangianus; negli altri paesi la popolazione di campagna o diminuisce addirittura come a Bortigiadas ed a Luras o conserva le stesse proporzioni naturali di accrescimento di quella di città.
Non tutti i paesi hanno un accrescimento uniforme: Aggius ha un aumento medio di 8,2 per mille, Bortigiadas decresce, Calangianus ha un aumento di 8,8 per mille, Luras di 7,5, La Maddalena di 18,3, Nuchis di 4,5, S. Teresa di 10, Tempio di 7, Terranova di 13,3. I paesi porti di mare, come La Maddalena, S. Teresa e Terranova, crescono più rapidamente dei paesi dell’interno. Questo fatto oltre indicare uno spostamento della popolazione verso il mare, indica anche la tendenza al riattivarsi della vita commerciale.
Terranova specialmente è destinata a riprendere il posto che per parecchi secoli ha avuto sotto Roma e durante i Giudicati. Dopo una lunga sosta essa accenna a riprendere la corsa ascendente e la sua popolazione, nonostante la malaria, ha una percentuale di aumento rilevante. Essa diviene il centro di immigrazione di diversi paesi e specialmente di Tempio, da cui moltissime famiglie hanno trasportato il loro domicilio a Terranova. E questo aumento e questa immigrazione continuerebbero con maggiore intensità se l’opera illuminata del governo non fosse arrestata da piccole preoccupazioni finanziarie, se rapidamente fossero risanate le circostanti paludi, fatto il porto e stabilito l’approdo giornaliero postale a Terranova.
Ma purtroppo la Sardegna di oggi, in questa questione del porto di Terranova e dell’approdo dei vapori postali, ha dimostrato di essere sempre quella Sardegna Spagnola, la quale era felice di potersi dilaniare internamente a onore e gloria del governo straniero.
E specialmente ha mostrato di sentir poco il proprio interesse la Gallura, la quale, dopo aver fatto una pessima figura nel comizio ordinato a Tempio, ha creduto con questo di aver fatto il massimo sforzo di attività e di protesta, ed esaurita dal lieve sforzo è rientrata nella sua abituale inerzia. Invano il deputato del collegio, onorevole Giacomo Pala, si arrabattava in tutti i modi per riaffacciare al governo la questione del porto di Terranova, e invano chiedeva aiuto ai molti colleghi della camera; ma il paese dormiva, formulava al più qualche voto platonico, cosicché il governo aveva anche ragione di pensare che le impazienze del deputato non fossero quelle del paese rappresentato. Eppure la questione del porto di Terranova è una questione capitale per la Gallura, ed è vergognoso e umiliante sentir dire da galluresi che sarà interesse di Terranova non della Gallura. E questi messeri, che pur in qualche modo guidano l’opinione pubblica, dovrebbero avere almeno il coraggio di dire apertamente le ragioni di questo loro modo di vedere, dovrebbero farsi conoscere al pubblico, in modo da essere apprezzati in tutta la meschinità della loro concezione sociale e commerciale. Ma purtroppo il popolo di Gallura è assente, esso dorme ancora il sonno secolare, e non crede necessario di svegliarsi per agitare una questione così importante. E se si aspetta che il provvedimento venga dall’alto spontaneamente, dopo le brutali parole dette dal ministro in pieno Parlamento, la Gallura e Terranova avranno un bell’aspettare.
Ragioni topografiche e sociali spiegano questa legge antropogeografica di sviluppo della popolazione gallurese. La maggiore fertilità delle zone marittime attira necessariamente la popolazione, la quale vi rimane fin che tranquillamente e pacificamente può attendere ai lavori dei campi e della pastorizia: ma appena compare il pericolo esterno, che viene dal mare ora sotto forma di conquista ora sotto forma di pirateria, la popolazione lascia le marine scoperte e si ritira sui monti, dove trova più facile difesa sebbene più scarso alimento.
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[1] Interpretato come lo hanno comunemente le edizioni antiche, il passo di Plinio indicherebbe che i Corsi possedevano 18 oppida. Ma dopo la critica severa e giusta del País quel passo deve essere interpretato diversamente, in modo che le 18 oppida non si attribuiscono ai Corsi. La prima edizione del passo era questa: «Celeberrimi in ea populorum Ilienses, Balari, Corsi oppidorom XVIII, Sulcitani, Valentini, Neapolitani, Vitenses, Calaritani civium R. A Norenses, colonia autem una, quae vocatur ad Turrem Libisonis». Dopo la critica del Pais il passo verrebbe modificato aggiungendo una virgola dopo Corsi. (Vedi E. Pais: La formals provinciale della Sardegna.)
[2] Francesco Saverio Nitti, La popolazione ed il sistema sociale, Parigi, L. Roux, 1894.
[3] La Sardegna ha una superficie di 24.075 Kmq., per cui il massimo di popolazione sarebbe stato 963.000.
[4] Alberto Della Marmora, Voyage en Sardaigne ou Description statistique, physique et politique de cette ile, avec des recherches sur ses productions naturelles, et ses antiquité, Bertrand, Paris, Bocca, Turin, 1826 (prima traduzione in italiano di Valentino Martelli, Ed. Fondazione il Nuraghe, Cagliari, 1928); Alberto Della Marmora, Itinéraire de l’ile de Sardaigne, Turin, Bocca, 1860 (prima traduzione, e compendiato con note, di Giovanni Spano, Cagliari, Tip. di A. Alagna, 1868).
[5] Giuseppe Salvioli, Sullo stato e la popolazione d’Italia prima e dopo le invasioni barbariche, «Atti R. Accademia di Scienze, Lettere e Belle Arti di Palermo», 1899, poi Palermo, Tip. F. Barravecchia, 1899 (data in copertina 1900).
[6] Il dipartimento od il Giudicato di Gallura comprendeva la Gallura superiore che corrisponde all’attuale Gallura, e la Gallura inferiore che inglobava il Monte Acuto, il distretto di Nuoro e parte della Barbagia.
[7] Ecco quanto pagava di feudo ogni villaggio: Terranova lire sarde 79, Villa-Verri 7, Puzzolu 6, Caressu 15, Telti 9, Villa 12 maggiore 25, Talaniaus 1, Larassano 2; Arzaghena 22, Aristana 9, Albagnana 10, Villacastro 9, Ortomurato 5, Corruaro 5, Asuni 6, Alvargias 7, Arisgnani 10, La Paliga 2, Melassuni 6; Agnoragni 7. Logusanto 3, Agiana D, Canaran 18, Canahini 32; Villa Batore 6, S. Stefano 4, Uranno 6, Nuragi 10, Vigna Maggiore 9, Telargiu 2, Agius 17, Tempio 15, Latinaro 8, Guorti glassa 32, Nughes 15, Lauras 10, Campo di vigne 12, Calanianus 3; Agogari 20, Lappia 20, Guardoso 6, Malacaras 12, Villadanno 0,10 Nuragul 9,15; Orfili superiore 25 (si veda Vittorio Angius. articolo Gallura cit. nel dizionario del Casalis cit.).
[8] In questo elenco dei paesi distrutti dalla peste compaiono parecchi uomi non notati in quell’altro del 1350.
[9] Fara Chorographia Sardiniae.
[10] [Il Componiment de Sardenya, il più importante documento aragonese sulla Gallura, del 1358, menziona la presenza nel salto di Cassari di “los Corsos e altres homens…tenen aqui bestiàr” – i Corsi e altre persone… tengono qui del bestiame: cfr. Mauro Maxia, I Corsi in Sardegna, Edizioni Della Torre, 2006, p. 143].
[11] Francesco Corridore, Storia documentata della popolazione di Sardegna (1479-1901), Torino, Carlo Clausen, 1902; Vittorio Angius, articolo Gallura cit., nel dizionario del Casalis cit.
[12] “Per noi non c’è miglioramento: noi viviamo sempre nelle strettezze, governi Filippo V di Spagna o l’imperatore Carlo d’Austria”.
[13] F. Corridore, op. cit., documenti.
[14] Vittorio Angius, articolo Gallura, in Goffredo Casalis (a cura), Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino, G. Maspero e G. Marzorati, 1833-1856. (La voce Gallura, frutto anche degli approfonditi viaggi nel territorio dell’autore dal 1835 al 1838, fu pubblicata nel 1840 nel vol. 7: Gabiano-Genova).
[15] [Il focatico, o fuocatico, era un’imposta applicata su ciascun fuoco, o focolare, cioè su ciascuna abitazione di un gruppo familiare].