Li rasgiunanti
di Francesco De Rosa
I Galluresi e in modo particolare i pastori, quando insorgono fra loro questioni civili d’indole giuridica, come azioni successorie, rivendicazioni di diritti, divisioni o limitazioni di proprietà, verificazioni di servitù, contestazioni di pascoli o di mezzadria, diritti di locazione, azioni di credito, estensioni d’obbligazioni, esercizio di tutela o di curatela, resa di conti, azioni commerciali, diritti di compra-vendita, rescissione di contratti, ecc., invece d’adire i Tribunali fanno ricorso al giudizio dei probiviri, nominando tre o cinque arbitri (li rasgiunanti)[1] per decidere sulla controversia. Uno di essi viene nominato di comune accordo, e ciascuno delle parti nomina a propria scelta uno o due arbitri, a seconda che questi siano tre o cinque, stabilendo il giorno ed il luogo in cui deve eseguirsi il giudizio arbitrale.
Radunatisi nel luogo prestabilito, gli arbitri chiamano le parti contendenti ad esporre davanti a loro le proprie ragioni.
Udite le parti, si passa, ove occorra, all’audizione dei testi ed a far quelle perizie che dalla natura dei fatti vengono indicate, e se trattasi di questioni territoriali, gli arbitri con le parti ed i testimoni si recano sul terreno controverso per riconoscerne la precisa ubicazione e i punti di delimitazione al fine di giudicare rettamente in merito alla questione.
Udite le ragioni delle parti e la deposizione dei testi, eseguite le perizie, riconosciuto il sito che ha dato luogo alla controversia e fatto quanto reputano necessario per poter dare sulla medesima un giudizio equo ed imparziale, gli arbitri passano alla discussione della causa, parlando alternativamente li rasgiunanti d’entrambe le parti, e ultimo quello nominato di comune accordo.
Ciascuno degli arbitri, ossia (chiamiamoli così) degli oratori, cerca d’accattivarsi la benevolenza, l’attenzione e la fiducia delle parti, degli altri arbitri e degli uditori, magnificando i pregi degli avversari e mostrandosi assai inferiore a loro per ingegno, autorità e facondia, tanto che non avrebbe accettato di far parte dell’arbitrato se non ve lo avessero costretto suo malgrado le preghiere d’amici carissimi, la bontà della causa ed il pensiero di poter contribuire a togliere ogni causa di malumore e di dissidio fra due rispettabili famiglie, o fra i membri d’una stessa famiglia.
Chiede venia se le sue considerazioni di diritto e la conclusione che ne trarrà saranno erronee e non rispondenti allo scopo, imputando ciò non a mal animo né al desiderio di volere più di quanto dice perorando la causa del suo cliente, ma alla pochezza del suo ingegno ed alla poca pratica in simili “arbitramenti”. Prega però che sia, quali siano le sue argomentazioni, ascoltato attentamente e benevolmente compatito. Dice qual è il soggetto intorno a cui si svolgerà il suo ragionamento, studiandosi che il medesimo proceda conciso e ordinato senza uscire di carreggiata, perché l’effetto desiderato riesca pronto ed efficace: dividendo la materia che deve svolgere quando è varia e molteplice in tante parti ben organizzate.
Fa quindi la storia dei fatti che diedero luogo alla controversia, enumerando gli effetti dannosi alle due parti, indicando le cause che si devono rimuovere, gli effetti da paralizzare nell’interesse dei contendenti e delle rispettive famiglie, mostrando allo stesso tempo che tali cause non sorsero, né gli effetti avvennero, per colpa del suo raccomandato: provando la sua asserzione con tutti gli argomenti interni o esterni alla causa stessa, disponendoli e porgendoli in modo che la persuasione vada gradatamente crescendo.
Cerca allo stesso tempo di prevenire gli argomenti degli arbitri avversari e le loro repliche, dimostrandone la fallacia e la poca serietà, contrapponendone, a dir suo, di più validi e più efficaci, riassumendo per sommi capi la materia del suo ragionamento, per terminare nel modo più utile a sostenere le ragioni della parte che difende e la preghiera di voler accettare le sue conclusioni come le più convenienti a definire nel modo più plausibile la controversia.
Una volta finito di parlare gli arbitri delle rispettive parti, l’arbitro comune che funge da presidente invita sia loro sia i testi e gli uditori a ritirarsi, dovendo i primi procedere alla decisione della controversia, o, per meglio dire, alla sentenza. L’arbitro comune propone dei quesiti sulle questioni e raccoglie i voti degli altri su tutti i capi proposti unendovi il suo, infine chiama le parti in causa annunziandogli la decisione arbitrale. Talvolta, quando gli arbitri sono cinque, due di essi, detti eletti (l’alletadori), discutono la causa, e gli altri tre giudicano in merito alle risultanze della medesima.
A molti parrà incredibile che persone per lo più analfabete, confinate in solitari stazzi, quasi interamente segregate dalla società, possano improntare i loro ragionamenti ai più severi precetti della retorica e della dialettica, e a dire il vero neppure io l’avrei facilmente creduto se non avessi assistito a simili “arbitramenti” nei quali udii discorsi che nemmeno i più valenti avvocati: giudizio che per altro non è il mio soltanto, ma di quanti ebbero occasione d’assistervi. Ciò dimostra che la retorica e la dialettica non precedettero né diedero norma ai precetti oratori, ma che dai discorsi oratori poterono aver principio quei precetti.
Soprattutto lodevole in quegli “arbitramenti” è la procedura sommaria e spiccia che vi si adotta, definendo per lo più in un sol giorno controversie e questioni che, ricorrendo ai tribunali, si sarebbero protratti per anni ed anni. E per i loro disturbi gli arbitri non prendono alcun emolumento: la sola spesa che sostengono le parti è il pranzo che viene loro offerto, quando l’arbitramento si fa in qualche stazzo o in campagna.
L’arbitramento era ab antico in uso presso gli Indiani, gli Ateniesi, (Dalloz Repertoire, V, Arbitrage) e gli Spartani (Plutarco, Opuscoli, parte I, [Apoftegma dei Lacedemoni]). Roma ne fa menzione nelle dodici tavole (Gallus. XX, 1) ed era in uso presso i cristiani nei primi secoli della chiesa.
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[1] Nel testo originale scritto “raxonanti”.