Sotto la Spagna: dal 1492 al 1720
di Vittorio Angius – a cura di Guido Rombi
Nel 1514 i pirati turchi invasero Siniscola, la saccheggiarono e fecero molti schiavi, portando il terrore nei vicini villaggi di Lothdè e Sarpei.
Nel 1520 (secondo il Vidal) i barbareschi attaccarono la Gallura sorprendendo il villaggio di Caresi nel Fundimonte.
Nel 1527 mentre i francesi erano in guerra contro Carlo V, Renato Ursino sbarcava sui lidi della Gallura un esercito di 4 mila uomini, percorreva tutta la regione devastandola e saccheggiandola, e dopo aver cagionato infiniti danni, varcato il Termo, andò contro Castelsardo.
Nel 1526, al censimento fatto per il parlamento straordinario di Luigi Blasco, la Gallura superiore contava fuochi 1807, quella inferiore 1564.
Nel 1528 dall’Italia giunse in Gallura un’epidemia mortale, che si diffuse poi nel resto dell’isola, causando in molte aree lutti e desertificazione.
Nel 1553 la flotta turca, alleata dei francesi contro Carlo V, dopo aver sottomesso gran parte della Corsica, si volse contro la Sardegna. Dragutte entrò nel porto di Terranova e trovando la città senza difesa e quasi abbandonata, la saccheggiava e incendiava. […]
Nel 1554, poiché i francesi si erano impadroniti di Bonifacio e minacciavano la Sardegna, il Viceré provvide opportunamente alle difese. Così, quando sette galee nemiche andarono nel porto di Fìgari per tentare una incursione, accorse subito a respingerle con successo con le sue genti galluresi Pietro Aymerich, uomo di insigne valore. […]
Nel 1557 la Gallura smise di temere le violenze del famoso bandito Lorenzo Judas nativo del Gèmini che esercitava continue ruberie e frequenti grassazioni, ed anche il Governo cessò di temere per le sue corrispondenze coi francesi. Don Alvaro di Madrigal affidò ad un tal Antonio Stefano Buchicara di Castelsardo che si era dichiarato capace di fermare i banditi, di acciuffarlo. E Judas cadde in trappola e fu giustiziato […]
Nel 1572-73 ci fu gran carestia […]
Verso la fine del XVI secolo, la popolazione della Gallura secondo il Fara era circoscritta solo a Terranova nel Fundimonti; e a Tempio, Aggius, Calangianus, Nuchis, Luras e Bortigiadas nel Gemini; negli altri dipartimenti della parte superiore era solitudine. […]. Cause di tanta desolazione le pestilenze, contro le quali non era alcuna precauzione, le continue aggressioni degli infedeli che non si sapevano né frenare, né sopprimere, sebbene i dominatori spagnoli avessero tutte la forza e i mei necessari, l’audacia dei malviventi, la rapacità dei ladri, la tirannia dei baroni, le vessazioni dei loro vassalli, le inimicizie, le vendette, e le guerre delle grosse fazioni, le carestie, la grande povertà […]
Nel 1639 molti galluresi si dedicavano alla fabbricazione di monete false ma più alla buona dei logudoresi. Il monte d’Aggius, che dicono Fraìle, ha preso questo nome da quella attività clandestina: vi si ascende per una salita difficile e in cima c’è un piccolo piano con alcune caverne ed una sorgente. Se pure fossero stati scoperti non era agevole prendere i responsabili. Si smise solo quando la repressione di Don Matteo Pilo Boyl si fece più forte, per riprendere in seguito falsificando le monete con tutto comodo nelle case.
Nel 1647 le cavallette distrussero seminati, vigne, orti e frutta. Il fieno rimasto sembrava da esse intossicato poiché le bestie che ne mangiavano morivano. Continuò questa sventura per altri due anni, sebbene un po’ in calo. Se nelle altre regioni della Sardegna era grande l’infestazione di questi insetti, lo fu certamente maggiore in Gallura, il cui clima è molto confacente al loro sviluppo.
Nel 1651-52-53-54, quando la peste colpì gran parte della Sardegna e del Gemini, mietendo molte vittime a Cagliari nel 1655, Tempio restò invece immune dai suoi danni.
Nel parlamento del conte Lemos [1653-1656] la Gallura superiore contava 1374 famiglie, quella inferiore 1941. Tempio cresceva sempre e nel 1664 il suo popolo era indicato come “numerosissimo” in una lettera del Viceré Don Nicolò Ludovisio (12 aprile). […]
Era questo il periodo in cui Giovanni Galluresu di Tempio si distingueva per prodigiose azioni di valore: da solo aveva difeso la torre di Longone dall’assalto dei barbereschi uccidendone più di 50. Il Viceré per riconoscenza lo nominò alcaide della fortezza. Ma non passò molto tempo che la mano che aveva fulminato i nemici si volse contro i compaesani. Il Galluresu, responsabile di molti omicidi, per evitare la pena si ritirò nei boschi chiamando e accogliendo nella sua compagnia molti malviventi e banditi. La sua squadriglia usciva dalla Gallura nel Logudoro, fino a imperversare a Sassari, tanto che i suoi abitanti non osavano recarsi ai loro poderi. Attaccato più volte dalle regie truppe ne usciva sempre vincitore e diveniva ogni giorno più insolente e spietato.
Non valendo la forza si usò l’astuzia. Fu notata una certa sua simpatia per la figlia d’un mugnaio osilese: la casa del molino fu assediata e all’alba, quando egli senz’alcun timore la lasciava per ritrovare i compagni, fu ucciso con molte fucilate. Il suo capo fu troncato e, portato a Sassari, impalato nella forca.
Nel 1668 si estesero alla Gallura i sommovimenti per la morte del marchese di Laconi e per la salvezza del marchese di Cea che aveva voluto vendicarla con la morte del Viceré marchese di Camarassa supposto mandante degli uccisori del Laconi.
Nel 1669 il nuovo Viceré Tuttavilla duca di San Germano avvertì i seguaci del Cea che sarebbero stati puniti come colpevoli di lesa maestà se non si fossero staccati da lui […], e così Cea – che era stato in un primo tempo affiancato da Ludovico Rizzo cavaliere tempiese, coi suoi figli e con tutti i banditi di Gallura ‒, vedendo le truppe di sostegno scemare perché blandite dal viceré, cominciò a peregrinare tra Sassari e i boschi del Montenero e della Gallura. Finché – quando seppe dell’arresto a Cagliari nei primi del maggio 1670 dei suoi principali fautori ‒, perduta ogni speranza, si travestì da marinaio e riparò prima a Bonifacio e quindi a Nizza dove si erano rifugiati gli altri congiurati.
Qui però fu contattato e convinto a tornare con gli altri dal traditore Giacomo Alivesi di Sassari, sicché nel 1671 approdavano a Vignola. L’Alivesi ‒ unitosi presso il Liscia a Don Gavino Delitala a capo d’una squadriglia ‒ andò a trovarli il 28 maggio e tutti insieme si accamparono all’Isola Rossa. Dopo la cena, quando si sdraiarono a riposare, l’Alivesi consumò il suo orribile tradimento: Delitala uccise Don Francesco Cao, Don Francesco Portugues e Don Silvestro Aymerich, e fece prigioniero il Cea col suo servo. Quando sopraggiunsero i superstiti amici galluresi del Cea egli era già sulla via di Sassari verso il patibolo.
Quest’anno 1671, fatale al Cea, fu per la Sardegna un anno di grande carestia e più ancora per la Gallura che patì una gran morìa di bestiame.
Nel 1674 il Viceré de los Veles accompagnato dal reggente e altri ministri, e scortato dalle cavallerie di Cagliari, venne a far visita a Sassari e in Gallura per ripristinare la reputazione e l’autorità del re. Il Viceré, così come il duca di San Germano, vide la convenienza di dare a Tempio gli onori e i privilegi di municipio. Lo stesso intendimento era pure dell’altro Viceré conte di San Stefano.
Nel 1678, nel censimento della popolazione dell’isola, la Gallura superiore contava 2458 famiglie, la inferiore 3477.
Negli anni 1680-81 si patì in tutta l’isola una grandissima carestia che causò una grande mortalità di bestie e di uomini per inedia e per malattie. La popolazione sarda fu molto più decimata da questa carestia e dalla conseguente epidemia, che dalla pestilenza dei cinque anni sopra detta.
Nel parlamento nazionale del 1688 il sindaco di Tempio fece istanza perché si accordassero gratuitamente a Tempio gli onori di municipio, dei quali pareva degno, come riconosciuto da molti Viceré. Invece da Madrid si chiese un prezzo enorme e questa concessione sfumò.
Anche il capitolo di Tempio fece le sue domande al Re perché gli onori della cattedrale di San Simplicio, alla periferia di Terranova e da molto tempo abbandonata dai canonici, fossero dal Papa trasferiti nella chiesa maggiore di Tempio, e questa da collegiata fosse ampliata a cattedrale. Il Re promise, ma poi la traslazione non ebbe effetto.
Nel censimento delle famiglie fattosi in queste occasioni per riformare la quotizzazione del donativo, si indicavano a Tempio fuochi 729, a Calangianus 307, ad Aggius 240, a Luras 145, a Bortigiadas 150, a Nuchis 66, a Terranova 72 per un totale di circa 8545 abitanti.
Anche nelle corti del Montellano, celebrate nel 1698, i tempiesi tornavano a supplicare il desiderato privilegio di municipio. C’era allora in Gallura [intesa come superiore e inferiore] un numeroso ordine di cavalieri, settanta dei quali sedevano nei banchi dello stamento militare in Cagliari; un collegio per la istruzione pubblica, nel quale dai religiosi delle scuole pie s’insegnava la grammatica, la retorica, la filosofia e la scolastica, un convento di minori osservanti ecc. Ed il capitolo della collegiata di Tempio premeva sempre per la traslazione del titolo e degli onori della cattedrale civitatense.
Ma vi si opponeva il sindaco di Ampurias il quale ‒ dopo avere supplicato la grazia o il dono d’un diploma di cavalierato e nobiltà col nome in bianco per venderlo al miglior offerente, qualunque egli fosse, col cui ricavato ricompensare la cattedrale ampuriese ‒ contraddicendo i canonici di Tempio volle dimostrare che la traslazione richiesta non era utile né a Dio, né al re, anzi a loro danno. Egli forse fece tra i presenti una bella dimostrazione d’ingegno per le tesi sostenute; ma credo non abbia potuto nascondere che la ragione che lo spronava a parlare era unicamente la superbia e l’interesse della fazione ampuriese.
In questi tempi era continuo il terrore dei barbareschi. […]. E in questo stesso anno del parlamento erano penetrati nell’interno della Gallura per ben otto miglia: le loro scorrerie davano sempre dolore a molte famiglie che perdevano la libertà e la patria o almeno la roba. Essi potevano entrare da molte parti, perché di tante insenature e scali quanti sono in Gallura solo Longone era difeso dalla torre di santa Lucia. Quindi si supplicò che se ne fabbricassero altre, almeno cinque nei luoghi più pericolosi: una in Otiòlu, l’altra in Monte-Figari, la terza in Cala di Volpe, la quarta in Capo Libano, la quinta in Capo dell’Orso.
La popolazione della Gallura contata in occasione di questo parlamento può ritenersi più prossima al vero che nei precedenti censimenti. Il Montellano aveva dato le opportune istruzioni per eseguire bene la numerazione affinché si potesse rendere giustizia a quelli che da gran tempo reclamavano contro la iniqua distribuzione delle quote del donativo. (Gli antichi censitori, annotando i fuochi, distinguevano tra le famiglie che potevano pagare la loro quota e quelle che ne erano dispensate per troppa povertà: e queste erano moltissime, soprattutto quando più scarsa era la circolazione del denaro).
Popolazione della Gallura nel parlamento di Montellano.
Gallura superiore:
TERRE | FUOCHI | UOMINI | DONNE | Totale |
Tempio | 910 | 1776 | 2091 | 3867 |
Calangianus | 349 | 502 | 579 | 1081 |
Aggius | 286 | 475 | 528 | 1003 |
Luras | 204 | 456 | 308 | 564 |
Bortigiadas | 187 | 244 | 325 | 569 |
Nuchis | 117 | 131 | 153 | 284 |
Terranova | 149 | 174 | 205 | 379 |
Totali | 2202 | 3758 | 3189 | 7747 |
Tra gli altri prepotenti che, assecondati nelle loro imprese da uomini scellerati, si erano resi terribili, sono giunte a noi le gesta di quelli della famiglia Misorro, ricchissima e padrona di territori immensi da Pulchiana sino al mare, con un’immensa clientela di pastori sparsi in quelle regioni che vi pascolavano le greggi e gli armenti.
Uno di essi (Don Giacomo Misorro) aveva sempre ai suoi comandi una schiera di bravi, che al suo cenno si macchiavano dei più orrendi delitti dentro e fuori la Gallura, nella campagna come negli abitati.
Un monumento religioso nella vicinanza di Tempio oggi perpetua la memoria d’una fra le molte stragi che si eseguirono nei frequenti scontri con gente di contraria fazione. Infatti, là dove ora sorge la chiesa del Purgatorio, gli scherani di Don Giacomo tesero un agguato notturno ad una fazione nemica. Diciotto furono uccisi, due si dettero alla fuga: inseguiti, uno cadde subito, l’altro fatto prigioniero e chiuso in una stanza della casa di Don Giacomo.
Costui, uomo spietato, l’indomani mattina andò a godersi lo spettacolo della strage dei suoi nemici e fu visto, fumando, toccare sprezzantemente col piede i miseri cadaveri, insultarli e compiacersi delle ferite mortali che i suoi gli avevano inferto. Otto giorni dopo, scosso dalle parole di un vecchio parente che lo aveva dissuaso dal rimettere in libertà il prigioniero per un grosso riscatto (“il nemico che lusinghi ti ucciderà”), andò da lui e gli scaricò una pistola nel petto. Infine, sopraffatto dal rimorso per i tanti delitti, andò a Roma a implorare perdono, poi per espiare i peccati costruì una chiesuola nel luogo della strage dedicandola alle anime del Purgatorio.
E il governo spagnolo che faceva per frenare l’audacia di uomini così scellerati? Il poco o niente che faceva anche contro i barbareschi che infestavano tutti i litorali dell’isola portandosi via prigioniere le popolazioni sotto il cielo della Libia.
É circa in questi tempi che scoppiò a Tempio una guerra furiosa tra i nobili ed alcune famiglie plebee. La scintilla fu l’audacia d’un cavalierino che voleva accostarsi ad una bellissima giovinetta della famiglia Balistreri. Costei, che aveva caro il suo onore, tentò con buone ragioni di allontanarlo e minacciò di dolersene col padre. Ma le minacce come le parole miti non bastarono e l’innamorato continuò a molestarla. Non solo: non ebbe alcun ritegno ad entrare a casa sua in presenza del padre.
Il Balistreri scontento di tale visita, prima lo ammonì con buone parole a rinunciare, rappresentandogli la disparità del grado ed altro ancora, poi – vistosi non ascoltato – gli urlò di uscire, infine, dinanzi alla reiterate risposte arroganti del giovane, accecato dall’ira, lo uccise sul colpo.
I nobili, che a quel tempo si credevano nella società come sultani tra schiavi, fecero causa comune e congiurarono contro l’omicida.
Ma questi prese le sue armi e andò a rifugiarsi sulla punta più alta del Limbara che tuttora è chiamata di Balistreri: egli ‒ sapendo come tutti i nobili lo volessero morto ‒ preoccupato per la figlia e i suoi parenti, sfogò la sua collera in continue vendette contro i nemici, andando spesso finanche a cercarli. Ma il colpo più memorabile che inferse ai nobili fu quando essi armati di tutto punto mossero da Tempio “in grande e superba schiera con molti scherani”, per assalirlo sulla sua altissima cima.
Non erano questi ancora usciti dai loro poderi quando, in un punto dove la strada aveva dei margini piuttosto alti, udirono l’urlo di Balistreri: “Eccomi”! e furono annientati da lui e dai più forti dei suoi parenti. La strada restò coperta di cadaveri sotto la chiesetta di San Leonardo, e Tempio cadde a lungo avvolta da un triste lutto.
Dopo questo fatto i nobili diminuirono un po’ la loro protervia, mentre restava senza autorità il Governo. I delitti continuavano, e quando di questi erano incolpati i più potenti, invano il Viceré li invitava alla capitale; perché essi, se sospettavano che li si volesse inquisire, si rifugiavano nelle proprie campagne e stavano sicuri tra i pastori finché fosse dimenticato il loro reato e la loro disobbedienza annacquata dai tanti altri disordini.
Nel 1708, nella guerra di successione spagnola, guidati da Francesco Pes e Giovanni Valentino, i galluresi si schierarono con l’arciduca Carlo di Austria contro Filippo V di Spagna (quindi re di Sardegna), e stabilirono che il 20 gennaio 1709 l’arciduca sarebbe stato proclamato re nella provincia.
Grazie al tradimento di Stefano Serafino il Viceré tramite il conte Vincenzo Bacallar riuscì però inizialmente a riportare l’ordine. Quando si ebbe la spedizione dell’arciduca contro Cagliari i ribelli filo austriaci furono assediati nel Limbara, ma poi una volta caduta Cagliari per tradimento nelle mani degli austriaci e il resto dell’isola già finito sotto il dominio dell’arciduca, il Bacallar dovette abbandonare la Gallura. Tempio ebbe l’immunità dai tributi per un quinquennio, ed altri privilegi, perché per primo si era rivolto all’Austria e aveva molto patito dagli spagnoli.
Nel 1710 Filippo V tentò di riconquistare la Sardegna. Si voleva prima delle altre espugnare la parte settentrionale giacché le forze erano sufficienti contro la Gallura e Sassari, non contro Cagliari. I conti del Castillo e di Montalbo, Francesco Litala, i fratelli Ruiz e i Sardo dovevano sbarcare con 400 soldati nella città di Terranova sostenitrice del Borbone; il resto delle truppe, che contavano circa 3000 uomini, avrebbe assalito Sassari, Alghero e Castellaragonese sotto gli ordini del marchese Laconi, promosso viceré.
Il conte Castillo scese a Terranova e pose gli accampamenti presso la chiesa di San Simplicio. Francesco Pes lo fronteggiò con una numerosa cavalleria per impedire che potesse andare avanti e salire sul Gemini e riportò buoni successi l’11 e il 15 di giugno. Finalmente giunse in soccorso la flotta inglese che sbarcò mille uomini: il Castillo, assalito da forze ormai molto superiori, fu costretto a capitolare.
L’arciduca Carlo, con diplomi spediti da Barcellona il 27 febbraio 1711, premiava Francesco Pes marchese di Villamarina, mentre il Valentino, che fin dal 1708 (2 giugno) aveva ottenuto il titolo di conte, aggiungeva ad esso il nome della chiesa di San Martino, situata nella regione di Tempio.
Nel 1717, invasa inaspettatamente la Sardegna dagli spagnoli, l’arciduca tentò di contrastarne l’occupazione e l’11 ottobre 446 austriaci del reggimento Walis sbarcavano a Terranova dove non vi erano più di 60 galluresi armati. Assente Giovanni Sardo [Giovanni Battista Sardo, nuovo comandante della provincia di nuovo divenuta spagnola], un prete prese il suo posto di capitano ed andò incontro agli austriaci. I quali, credendosi in mezzo ad amici, pensavano fossero stati mandati per preparare alle armi la provincia sotto il comando del Villamarina e del San Martino e quindi marciare su Alghero. Ma il prete, che religiosamente era per il Borbone, li ingannò e si offrì come scorta nelle sconosciute regioni; poi quando fu giunto nella valle della Scala, si rivoltò contro di essi e li costrinse a porre giù le armi e ad arrendersi. Accorse poi in soccorso Giovanni Battista Sardo che concedeva agli austriaci alcuni condizioni che non furono poi ratificate dal Ledè [marchese di Leide].