Presentazione
di Guido Rombi
Tradizioni popolari di Gallura. Usi e costumi, dell’olbiese (al tempo terranovese) Francesco De Rosa, pubblicato nel 1899 dalla Tipografia Tortu di Tempio-La Maddalena, è il primo libro della rassegna e collana web «Le Tradizioni popolari e il Folclore della Gallura», a mia cura. Tale requisito di “primo” conferisce all’opera già di per sé un riconoscimento e un merito speciale: infatti è il primo libro organico e strutturato, di insieme, sulle tradizioni popolari della Gallura.
Si tratta di un pregevole lavoro, anche se scritto più col tono e lo stile di un dotto cultore che di un tipico studioso del genere. Le scienze demologiche o folcloriche erano appena agli inizi, e si avvalevano dell’apporto appassionato di intellettuali locali con le loro più diverse formazioni. De Rosa fu con Grazia Deledda e Giuseppe Calvia, Francesco Corona, Pietro Nurra, Andrea Pirodda, tra i primi e più attivi corrispondenti dalla Sardegna della «Rivista delle tradizioni popolari» fondata nel 1893 da Angelo De Gubernatis e dell’«Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», trimestrale, in stampa dal 1882. Fu proprio Grazia Deledda, di lui molto più giovane, ma già nota nel campo degli studi folklorici e letterari, a stimolare l’Autore allo studio delle tradizioni galluresi (si veda la sua introduzione), facendolo diventare corrispondente della «Rivista».
Come scrive Andrea Mulas nella introduzione alla ristampa per i tipi della Ilisso nel 2003 (successiva a quella della Forni di Bologna che ne ha pubblicato ben quattro: 1975, 1979, 1987, 2002) la sua indagine non ha però l’occhio e la lente di indagine della nuorese premio Nobel nel 1926: mentre lei è attenta a “Bestemmie e imprecazioni”, “Giuramenti”, “Proverbi e detti popolari nuoresi”, “Nomi e nomignoli”, “Scongiuri”, “Preghiere e voti”, «con passione attenta e partecipe»[1] e con un’indole e sensibilità da ricercatrice sul campo, in De Rosa la cifra è piuttosto quella dello storico erudito e affascinato dalle tradizioni che fa sintesi di quanto già si conosce, solo di tanto in tanto inverandola di personali testimonianze, che sono alla fine quelle più preziose del lavoro.
Il suo interesse delle tradizioni galluresi, stando strettamente al libro, appare più da storico che da etno-antropologo, dominato dal costante confronto e rapporto con quelle dei popoli antichi, una comparazione talmente forte e costante, anzi quasi pressante per De Rosa, da averlo portato non solo a dedicare un paragrafo apposito («Altre usanze tradizionali»), ma continui e spesso ampissimi rimandi per tutto il libro, in cui l’Autore dà dimostrazione della sua ampia cultura classica, tanto che potremmo dire sia questa comparazione tra tradizioni popolari della Gallura e le tradizioni popolari classiche la peculiarità più saliente del libro.
Eppure, a leggere le sue lettere inviate ad Angelo de Gubernatis, meritoriamente raccolte e trascritte da Agostino Amucano in una accurata biografia che molti nuovi spunti fornisce proprio in relazione al libro in questione (Francesco De Rosa. Frammenti di un’opera inedita, il quaderno X. E le lettere ad Angelo De Gubernatis, La Maddalena, Paolo Sorba, 2012), in principio non sembra fosse questo il taglio su cui De Rosa stava orientando i suoi studi delle tradizioni popolari.
In una lettera ad Angelo de Gubernatis del 23 febbraio 1894 segnalava infatti uno schema di argomenti in lavorazione (e da inviare) che comprendeva accanto a quelli poi oggetto del libro (i banditi, inimicizie e paci, comparaggio di San Giovanni, orti e vendemmie, ponidura, costumanze casalinghe, foggia di vestire, carattere fisico e morale, lingua), anche i seguenti: Giochi fanciulleschi – Giochi giovanili – Penitenze e fiori – Pregiudizi – Proverbi, frasi e modi proverbiali, avvisando peraltro che di Proverbi ecc. ne aveva raccolto «circa tremila» (una cifra impressionante!) ponendo su essi i seguenti problemi: «Vuole che ne faccia la trascrizione letterale, o farvi corrispondere – lo che io credo meglio – il proverbio corrispondente nel senso, non nella lettera, italiano, e farlo seguire possibilmente ancora da un proverbio latino? [ritorna qui il suo vezzo di comparazione con i classici]. Le poesie sarde vuole che siano tradotte in italiano in prosa oppure in poesia?».
E ancora in una lettera del 3 luglio dello stesso anno, diceva della possibile spedizione, di lì a una quindicina di giorni, di un fascicolo in cui aveva «raccolto centosei giochi – i trastulli puerili – le penitenze che seguono ai giochi di sala – gli stornelli – gli indovinelli – le poesie infantili e le canzonette sacre tradizionali», e di un altro assai voluminoso che conteneva «molte novelle».
Curiosamente, e purtroppo, De Rosa, cinque anni dopo non inserì nel volume tutte queste sezioni delle tradizioni a cui aveva intensamente lavorato, e che sarebbero state invece il suo valore aggiunto se non il più grande.
(Che fine ha fatto una simile mole di documenti? È andata dispersa?: in una lettera a De Gubernatis del 31 luglio 1895 scrisse che aveva ricevuto «il materiale folk-loristico» richiesto insistentemente nelle precedenti del 2 e 11 luglio, «non volendo che dopo avere preso tanta fatica vada perduto» dopo la prematura fine delle pubblicazioni della «Rivista» (11 luglio), intendendo pubblicarlo a Sassari «in apposito volume [la Tipografia Tortu di Tempio ancora non era nata], dopo aver esteso tali tradizioni a tutta la Gallura», e che era sua intenzione dar «subito mano al lavoro, per modo che possa finirlo nel periodo delle vacanze» (lettera 2 luglio)[2].
È da dirsi che il rapporto con De Gubernatis negli anni probabilmente scemò, tanto che la prefazione che anni prima sognava da lui scritta fu invece vergata dall’amico Francesco Corona, autore della famosa Guida dell’isola di Sardegna nel 1896, e che – nonostante un possibile ripensamento del piano originario dell’opera – fu comunque ripagato della lusinghiera recensione sull’«Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» – dal 1882 la più longeva e illustre rivista del settore –, per mano addirittura del suo fondatore Giuseppe Pitré: secondo il quale i punti forti del libro (e infatti condividiamo!) erano quelli «della nascita, delle nozze e dei funerali, della vita pubblica e privata, delle vesti, della mezzadria, della ponitura; delle amicizie, delle inimicizie e delle vendette, che hanno i loro lati strani e primitivi»; e delle «costumanze particolari che stanno bene insieme con quelle del Natale, delle feste campestri, del Carnevale, del 1° Maggio, delle vendemmie. Qui è pure una giudiziosa scelta di notizie sopra i giuramenti pastorali, la marca delle bestie, i regali, i cibi tradizionali, che non entrano nel gran campo della tradizione orale. Gli studiosi potranno spigolarvi a larghe mani e ne trarranno messe non trascurabili di pratiche, di cerimonie e costumi. Superstizioni, leggende, novelle, canti, giuochi della Gallura promette in altri volumi della collezione intrapresa il De Rosa. E noi ne affrettiamo fin da ora col desiderio la comparsa» («Archivio per lo studio delle Tradizioni popolari», XIX, 1900, p. 424)[3].
De Rosa auspicava che altri dopo di lui potessero seguitare a scrivere delle tradizioni popolari della Gallura, prima che se ne disperdessero la memoria e le testimonianze. Si era nel pieno della Belle Epoque, una certa aria di progresso e di emancipazione (i motori a scoppio e le prime macchine, la pubblicità, il telegrafo e l’elettrificazione già in corso nelle città italiane, lo stile Liberty ecc.) cominciava a propalarsi anche nei paesi e nelle contrade della Gallura, e l’Autore ne avvertiva probabilmente i chiari e forti segnali, e annessi timori, fra cui che le mode cosiddette “civili” delle città che pian piano andavano sopravanzando quelle paesane (uno dei primi caratteri della nazionalizzazione delle masse).
Comunque sia, l’auspicio dell’autore fu raccolto prima di quanto potesse immaginare: l’anno appresso fu pubblicato da un giovane brillante professore milanese, Giovanni Mari, un prezioso libro che andava proprio a incentrarsi sulle parti “espunte” (Per il Folk-lore della Gallura. Ninne nanne, filastrocche, giuochi, indovinelli, proverbi ecc. 1900), seguito quarant’anni dopo, sempre nella stessa direzione, da una brillante studiosa di origini tempiesi, Maria Azara (Tradizioni popolari della Gallura. Dalla culla alla tomba, 1943).
Anche il libro di Silla Lissia (La Gallura. Studi storico-sociali, 1903-1904), può essere visto come un approfondimento – pur fondato su scopi e obiettivi e metodo di indagine molto diversi – per le parti in cui si parla del carattere psichico e morale dei galluresi e dell’economia degli stazzi.
Di tutte le pubblicazioni storiche della Gallura (li potremmo definire i classici), è quella che ha avuto più fortuna e diffusione, essendo stata ristampata, come detto sopra, più volte.
Nuova struttura e revisione del testo
Si è ritenuto di dare un migliore amalgama ai capitoli e paragrafi, organizzandoli e amalgamandoli in modo più coerente e ordinato. La struttura di questa edizione differisce in alcune parti dall’originale.
Si è effettuato un approfondito editing sul testo – nell’ortografia, nella sintassi e nella punteggiatura –, per renderlo più leggibile e godibile. Infatti, se già, ovviamente, la forma e lo stile di un saggio di oltre centoventi anni fa non sono quelli di oggi, il proprio modo di scrivere di De Rosa presenta troppi passaggi prolissi e ridondanti, talvolta anche singolari usi ortografici, anche rispetto ad altri scrittori del tempo, e talvolta – abbandonando il tono asciutto del saggista – finanche “lirici”, così da rendere in più punti ostica e noiosa la lettura.
Le tantissime dissertazioni comparate con le tradizioni classiche di cui sopra si è detto sono state poi appositamente evidenziate con carattere diverso, così da poterle subito individuare quasi come fossero delle note, e su di esse non si è intervenuti con l’editing. Questa disposizione dà ora al testo molta maggiore leggibilità oltre che chiarezza.
Similmente sono state lasciate come nell’originale la prefazione di Francesco Corona e l’introduzione dell’Autore.
Note biografiche
Nato a Terranova Pausania il 15 novembre 1854, noto come mastru Ziccu poiché maestro elementare (ma certo, di fatto, non elementare, in forza della sua vasta cultura) di più generazioni di studenti olbiesi, quando pubblicò il libro aveva quarantacinque anni.
Avrebbe continuato a lungo a dare un notevole apporto alla cultura gallurese e soprattutto della sua città e del suo territorio, in modo particolare con studi e ricerche sull’antichità, spesso indagate sul campo, divenendo referente dei soprintendenti agli scavi e musei archeologici della Sardegna AndreaTaramelli e Doro Levi.ma
Morì il 6 gennaio 1938 nella sua città (che l’anno successivo avrebbe dismesso il nome di Terranova Pausania in favore di Olbia, come da lui sempre auspicato).
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[1] Andrea Mulas, Introduzione a Francesco De Rosa, Tradizioni popolari di Gallura. Usi e costumi, Nuoro, Ilisso, 2003, p. 8.
[2] Agostino Amucano, op. cit., pp. 332-334.
[3] Agostino Amucano, op. cit., p. 52.