Morte, pianti, prefiche
di Francesco De Rosa
Quando si vede che lo stato del malato è disperato si fa accorrere il sacerdote che gli amministra i sacramenti e lo esorta a morire senza rimpiangere una vita piena d’affanni e di dolori, senza rivolgere lo sguardo a questa valle di lacrime, alla terra che fu a lui matrigna, e non darsi pensiero dei suoi ai quali penserà la Provvidenza: tanto più che le sue preghiere presentate al trono dell’Altissimo faranno convergere su di loro lo sguardo divino – ufficio questo che si chiama far l’acconoltu (persuasione).
Entrato il malato in agonia il sacerdote, che come medico dell’anima l’assiste negli estremi momenti della vita, gli fa l’ammentu (l’avvertimento, «memento»), ricordandogli i santi protettori suoi e della parrocchia.
Quando poi ha esalato l’ultimo respiro i parenti si gettano sopra il cadavere, abbracciandolo e baciandolo, graffiandosi il viso, strappandosi i capelli, percuotendosi il petto e le cosce e levando altissime e strazianti grida:
proprio come Giacobbe pianse la supposta morte del figlio prediletto, Davide quella d’Assalonne e Briseide e le ancelle di Achille Patroclo. Strappati i ploranti a viva forza dal letto funereo, il cadavere viene, seguendo il costume degli antichi Ebrei, lavato, almeno nella faccia e nelle mani e vestito con abiti di gala, a cui viene soprapposta una bianca tunica di cambrì, di mussola o di tulle, allacciandone lo sparato del collo con un largo nastro di seta: tunica che costumavano indossare i Greci ai loro cadaveri, come si prende del XIX dell’Iliade, dove vediamo il cadavere di Patroclo avvolto da capo a piè d’un sottile lino, su cui venne spiegato un bianco panno, e nel XIX dell’Odissea, in cui si legge che Penelope preparava il lugubre ammanto per riporvi l’estinto Laerte. Lavatigli mani e faccia e ben ravviati i capelli, viene adagiato sopra una lunga panca, coperta da un serico manto, colla testa appoggiata su vari origlieri, uno all’altro sovrapposta e coi piedi rivolti alla porta – come usavano fare gli Egiziani, gli Ebrei, gli Etruschi di Cere, di Tarquinia, di Vulci e di Veio, e come costumavano gli antichi Greci: locché si rileva da un tratto del XIX dell’Iliade, ove Achille invitato da Agamennone a mensa, così fieramente gli risponde:
Non verrà cibo al labbro mio, né beva
S’ulto pria non avrò l’estinto amico,
D’acuto acciaro trafitto egli mi giace
Nella tenda coi piè volti all’uscita
E gli fan cerchio i suoi compagni in pianto
I parenti fanno corona alla cara salma, proprio come fecero i compagni al cadavere di Patroclo – sedendosi in modo che i congiunti più intimi siano in testa alla bara e poi gli altri in ragione del grado parentale, dall’una e dall’altra parte, fino ai piedi del morto. D’un tratto si alzano tutti e chinandosi sul corpo inanimato lo inondano di lacrime, con flebili lamenti e con disperate grida, chiamandolo coi nomi più dolci, come se fosse vivo, rinnovando le percosse e i graffi.
Tanto il dolore li acceca e li rende insensibili ai pugni e alle unghie, da rischiare di farsi male e indurre i pietosi visitatori accorsi a consolarli, come costumavasi presso gli Ebrei, a cercare di placarli non solo con parole affettuose ma anche con la forza, per allontanare dal viso le unghie e i pugni dal petto e dalle cosce.
Fino al primo quarto di questo secolo non mancava mai in questa luttuosa circostanza d’assistervi la prefica (attitadóra), prezzolata per lo più, oppure parente del morto la quale, vestita con abito da lutto (gramaglia) secondo il costume – gonnella e giubbone neri, bianco fazzoletto in testa ed altro simile al collo, pendente a largo triangolo rovesciato sulle spalle, con le cocche lunghe infisse sul davanti nella cintura della gonnella, e una bianca pezzuola in mano per tergere le lacrime – appena metteva piede nella soglia prorompeva in singhiozzi, quindi fra i parenti dava inizio alla trenodia o tribolo, canto funebre che doveva, secondo l’opinione comune, riuscire ad onore e sollievo del defunto, e il non improvvisarlo era ritenuto segno di poco affetto per lui e di grave disonore per la parentela.
La trenodia continuava mesta e patetica con una struttura mirabile, piena d’amorosi sensi, di robuste immagini, di voli di fantasia; esposta con proprietà di lingua, purezza di eloquio, scelte frasi, eleganza di dettato ed armonia di suoni che affascinava la mente e commuoveva il cuore, invitando tutti al pianto e a lamentare l’irreparabile perdita.
La prefica intesseva meravigliosamente l’elogio del defunto ricordandone le doti personali e quelle più durature dello spirito, la religione, i beni acquistati con la laboriosità e accumulati con parsimonia.
Se era una fanciulla, paragonandola ad una rosa o ad altro gentile fiore (che già rigoglioso sul gambo riempiva con la sua fragranza l’aria attorno d’un dolce profumo, per cui molti nobili e distinti giovani desideravano coglierlo, e già allungava la mano il fortunato a cui era stato dato in sorte, quando un raggio di cocente sole o la falce di un incauto pastorello lo recise, facendolo cadere in grembo alla comune madre, la terra).
Se un giovanotto, ne descriveva l’altero e maestoso portamento, l’abilità nel rapido maneggio dell’archibugio e nella precisione del tiro, il coraggio indomito nell’affrontare gli animali selvaggi, la sua abilità nel domare puledri e torelli, l’agilità nello spiccar salti, fare sgambetti e graziosi nodi nelle danze tradizionali, l’agilità nel correre di molto superiore a quella del daino, del cervo e del muflone, il parlar ora fiero, ora dolce e insinuante, secondo che si rivolgesse a un avversario o a un amico e la brama ardente di molte fanciulle d’averlo per consorte.
Se un marito, ne esaltava la laboriosità, il prudente e misurato spendere, il suo affetto costante per la sposa, il tormentoso e continuo pensiero di procurare il necessario alla famiglia, e d’assicurare un lieto avvenire all’amata prole, la noncuranza di sé stesso, per sacrificarsi tutto ai suoi diletti, il quieto vivere e la rettitudine delle proprie azioni.
Se a morire è la moglie, ne decantava il senno, la fedeltà coniugale, le affettuose cure per la famiglia, l’ordine, la pulizia ammirabile della casa, la saggia previdenza, il desiderio incessante di migliorare le condizioni economiche della famiglia con un parco vivere e col proposito di risparmiare quotidianamente qualche cosa.
Se un pargoletto, ne descriveva le grazie infantili, le dolci moine, i primi detti e le belle speranze che destava nel cuore dei genitori e dei parenti.
Infine, per chiunque fosse il defunto, lamentava le fallite speranze e l’abbandono in cui lasciava i miseri superstiti.
Ma se pietosa e stimabile era l’opera delle prefiche quando aveva per unico scopo il pensiero di voler onorare il defunto, altrettanto biasimevole e pericolosa si rendeva quando scioglievano il loro sommesso canto su una persona morta per violenza umana.
Perché allora, specialmente quando era parente e affezionata all’ucciso, le loro parole venivano colorite dal fiele della vendetta e le loro lacrime erano un potente e copioso veleno che versavano nel cuore dei parenti. Esse rivangavano le cause che diedero origine all’inimicizia, memorie quasi dimenticate, contavano i caduti assassinati e i danni sofferti; esponevano lucidamente l’innocenza e le ragioni a favore dei suoi parenti; esageravano la prepotenza e l’efferatezza dell’uccisore precisando a piacimento i fatti e descrivendo crudamente le ferite del delitto; nominavano espressamente l’uccisore, per quanto lo si sapesse da semplici indizi o si sospettasse, indirizzandogli violente imprecazioni, maledicendo la madre, il giorno che lo vide nascere, chi l’allevò e gli mise per primo l’arma fatale in mano.
Incitavano infine il padre, i figli, i fratelli, i congiunti e gli amici a fare aspra e sanguinosa vendetta, senza accordare riposo all’assassino, costringendo ognuno a giurare in cuor suo che sarebbe stata pronta e terribile.
Come le sarde prefiche il lugubre incominciarono inno i cantori dei lamenti e la desolata Ecuba sullo spento Ettore, Briseide e Achille e le Muse sull’ucciso Patroclo, Davide la morte di Saulle e di Gionata suo amico. Al canto delle prefiche rispondono i parenti dell’ucciso, come al mesto canto (d’Ecuba) rispondevano le donne.
Se l’individuo è morto la sera, nella notte seguente si trattiene in casa il cadavere, presso al quale vegliano gli zii, i cugini e gli amici più affezionati all’estinto; i quali costringono i famigliari più intimi a riposare. L’indomani ognuno è sveglio e torna ad occupare il suo posto presso la bara e a rinnovare i singhiozzi, le strida e i pianti.