Sepoltura
di Francesco De Rosa
Quando è l’ora del trasporto della salma giungono uno o più sacerdoti con un lungo codazzo di confratelli. Il loro arrivo viene annunziato dal sacrista che, portando una lunga croce, entra per primo nella casa del defunto. La campana intanto suona a morto, non cessando fino a che i sacerdoti non abbiano fatto ritorno dall’accompagnare il defunto al cimitero. I congiunti, all’apparire del sacrista, si alzano di botto, rinnovando più strazianti che mai le grida, i lamenti e le percosse, piegati sul morto, a cui chiudono gli occhi e danno l’ultimo bacio, componendogli poi le labbra; le quali cose solevano pur fare gli Ebrei e i Greci.
A quella dolorosa scena non c’è alcuno per quanto duro di cuore che possa trattener le lacrime nell’udire quelle urla amorose, quelle voci lamentevoli, quel doloroso accomiatarsi, quel caldo raccomandarsi al defunto, quelle promesse di un eterno ricordo. Strappato a viva forza agli abbracci e ai baci dei suoi, il cadavere viene trasportato in chiesa, posandolo quante volte vuole la famiglia lungo il tragitto, mediante corrispettivo pagamento ai sacerdoti, i quali a ogni posa ricantano il requiem e incensano e ribenedicono la bara.
Nelle visite funebri i pastori entrano col capo coperto, al modo degli Ebrei, gettando un grido, a cui i doloranti rispondono con un lungo ululato. Il padre o il marito del defunto – eccetto a Terranova, dove nessuno dei parenti strettissimi esce da casa – seguono la bara in chiesa, dove assistono alla celebrazione delle esequie e poi al cimitero, dove, calata la bara nella fossa, il padre o il marito getta su quella il primo pugno della terra che deve ricoprirla.