III.2 – Malattie dei bambini
di Maria Azara
Ho già accennato sopra, parlando dei neonati, alle misure preventive che si prendono contro le malattie conseguenti al malocchio.
Basterà qui accennare il metodo per eliminare il malocchio che sia stato debitamente accertato. Si ricorre all’èa di l’òccj (acqua degli occhi) e a punì li mani (imposizione delle mani fatta dalla fattucchiera). Altri mettono sulla testa del bambino la scodella che è servita per l’operazione dello scongiuro e, con gli ingredienti dello scongiuro, cioè con l’acqua, con l’olio e col sale, si asperge l’ammalato un poco da per tutto.
Molte fattucchiere non mancano di fare ingerire ai bambini i loro intingoli, altre sputano sul capo dell’ammalato dopo aver recitato speciali preghiere, altre ancora, invece, danno a bere l’acqua contenente la raschiatura delle campane o un pezzo di cero pasquale un po’ d’olio santo o anche due granellini d’incenso.
Quando lu colpu di l’òccj è grave (è présu, è sfattu) allora si richiede l’opera di tre persone, normalmente donne pratiche in materia, che devono operare prima da sole e poi insieme.
Anche quando il bambino è un poco cresciuto, è buona regola, per chi vi crede, non omettere lo scongiuro quando ammira un robusto maschietto o una graziosa femminuccia.
Sputare addosso al bambino (67), e possibilmente toccarlo in pari tempo, è uso quasi generale, in simile circostanza, in tutta la Gallura.
(67). Quest’uso non è particolare della Sardegna. Infatti il DE GUBERNATIS (Storia comparata degli usi natalizi in Italia e presso gli altri popoli indo-europei. Milano, 1878) dice che in Grecia bisogna avere una precauzione quando si accarezza un bambino, Dopo aver detto: “che bel fanciullo!” bisogna sputare leggermente su lui tre volte e con l’estremità delle labbra. Non si può fare a meno di questa precauzione per tema che esso non sia preso dal cattivo occhio, cioè stregato.
Questa superstizione dei greci moderni era anche quella degli antichi. Nell’antichità, come oggi, lo sputo aveva la proprietà di allontanare il cattivo occhio.
Le formule di augurio o di spergiuro sono numerosissime e ne ho ricordato sopra parecchie (68).
(68) A Palau è frequentissimo l’uso della parola puzzinósu (puzzolente) che è diretta allo spirito maligno e che si pronuncia accentuando fortemente e staccando la dizione della prima sillaba, in modo che si dà l’impressione di sputare (puz) contemporaneamente si fa lo scongiuro.
Sputare in viso ai bambini avviene pur di frequente quando essi singhiozzano, o piangono, o si spaventano, perché si crede che cessi subito la causa che ha determinato lo spavento, il pianto o il singhiozzo.
Avviene, però, che malgrado ogni precauzione i bambini della Gallura si ammalino o abbiano frequenti disturbi come avviene a quelli di tutto il mondo.
Provveduto, come ho sopra accennato, all’esclusione del malocchio, entrano in funzione i rimedi che la tradizione popolare considera, se non proprio infallibili, sovranamente indicati per la cura.
Questi rimedi sono moltissimi. Talvolta sono fondati sulle qualità medicamentose di determinate sostanze, che anche a Roma si trovano presso i così detti semplicisti, specie di curiosi farmacisti i quali vendono soltanto erbe o estratti di erbe, di corteccia di piante, di foglie ecc. o pomate composte con gli stessi ingredienti.
Qualche volta il rimedio è assolutamente antigienico, ma è messo in opera con tanta fiducia che forse per questo la Provvidenza impedisce che produca i danni che potrebbero derivarne.
Mi limiterò qui a citare le più frequenti malattie con i relativi rimedi.
Bisogna, anzitutto, fare la diagnosi del male, e non sempre è facile. Quando non si riesce a precisare in quale punto senta dolore il bambino che piange e che non può o non riesce ancora a farsi ben capire, si usa, nella zona di Olbia e anche negli stazzi del tempiese, denudare il piccino e fargli scorrere sul corpo un torlo d’uovo. Nel punto in cui il tuorlo si rompe (69) sta il male, e là si applicano i rimedi suggeriti dalla medicina popolare secondo il genere di indisposizione che, dato il punto, si pensa il bambino possa avere.
(69). Il VALLA F., (Medicine e credenze popolari sarde, «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», 1895, vol. XIV, pag. 40), dice che nel punto in cui si rompe l’uovo si fascia bene il fanciullo lasciando il tuorlo al proprio posto e aggiungendovi un po’ di cenere, di stoppa o lana e facendo con le dita leggere fregagioni.
In mancanza d’altro, e più spesso contemporaneamente alla medicina, si ricorre a li paràuli fòlti (alle parole forti).
Ecco le principali:
Contro il mal di testa
Una caprulédda da lu mari ’inìa
Una capretta veniva dal mare
e in tarra la linga sóia punìa.
e metteva la lingua in terra.
Cos’è lu ch’ai, caprulédda méa?
Che hai, capretta mia?
Chi sei muggjèndi e traggjèndi
Che sei muggendo e trascinandoti
cu la linga in tarra pultèndi?
con la lingua in terra portando?
Sono quaranta giorni e quaranta notti
Sòcu caranta dì e caranta nòtti.
cu un dulòl di capu fòlti.
con un forte dolor di testa.
Anda a maccéddu,
Vai al macello
pidda cialbèddu
prendi cervello
una itta d’ulìa
un rametto d’oliva
lu dulol di lu capu
il dolor della testa
passatu ti sia.
passato ti sia.
(Favoritami dall’Ing. Mario Lupacciolu) (70-A)
(la nota 70 è stata modificata perché non molto chiara e divisa in due parti)
(70-A) – Così invece in Mari G., Per il folklore della Gallura. Ninne-nanne, filastrocche, giuochi, indovinelli, proverbi, ecc., Bergamo, 1900 (dove nel capitolo «Superstizioni» sono indicate Li dódici paràuli / le dodici parole, e inoltre quasi tutte li paràuli sopra indicate):
Li paralui pa lu dulol di lu capu (le parole per il dolor di capo):
Una caprulédda ’inèndi da lu mari,
Una capretta venendo dal mare,
Muggjèndi, muggjèndi,
Muggendo, muggendo,
Cu la só linga traggjèndi;
Con la sua lingua a trascinoni;
Caprulédda méa,
Capretta mia,
Chi dulol di capu fòlti ch’àggju éu!
Che dolor di capo forte che ho io!
Anda und’e lu mastru, e tocca l’ulía
Vai dove il maestro, e tocca l’oliva
Lu dulol di lu capu passatu ti sia.
Il dolor del capo passato ti sia.
Per fermare il sangue che scende sia da una ferita che dal naso:
Santu Páulu in banca staggj́a
San Paolo stava a tavola
Tre cultéddi d’algèntu tinìa
Tre coltelli d’argento teneva [aveva]
Uno trappáa, l’altu pungj́a,
Uno tagliava, l’altro pungeva
L’altu paráa lu sangu ch’iscía
L’altro parava il sangue che usciva
Sta sangu in vena tóia
Sta sangue nella tua vena
Còmu stési Gesù Cristu, in sedi sóia.
Come stette Gesù Cristo nella sua sede.
(favoritami dall’Ing. Mario Lupacciolu) (70-B)
(70-B) – Così in Mari G., Per il folklore della Gallura. Ninne-nanne, filastrocche, giuochi, indovinelli, proverbi, ecc., Bergamo, 1900, nel capitolo «Superstizioni»
Santa Maria
tre cultéddi aía:
tre coltelli aveva:
unu pal pugnì,
unu per pungere,
l’altu pal taddà,
l’altro per tagliare,
l’altu pal parà
un altro per fermare
lu sangu chi iscìa.
il sangue che usciva.
Contro la «carri fiaccata» (strappamento muscolare):
Santu Maltinu in caccia andáa
Martino andava a caccia
tre pani e tre cani in fattu pultàa
portava dietro tre pani e tre cani
imbicca a Domini Déu.
incontra Domineddio.
Und’andi Maltinu méu?
Dove vai Martino mio?
Sòcu caduto in un fòssu,
Sono caduto in un fosso,
fiaccatu àggju pulpa e òssu.
ho rotto polpa e osso.
– Óciu cun mani piana
– Olio con mano leggera
e aggj la carri sana.
ed abbi la carne sana.
(Favoritami dal parroco Paolo Pintus)
Altre versioni (favoritemi dal canonico Salvatore Pes):
Santu Maltinu a caccia andèsi
San Martino a caccia andò
Tre pani e tre cani iddu pultési
Tre pani e tre cani egli portò
Andèndi tòppa un fòssu
Andando incontra un fosso
Casca e trunca pulpa chen’òssu.
Cade e rompe polpa senz’osso.
Passa Gesù Cristu e li dísi:
Passa Gesù Cristo e gli disse:
– Pésa, Maltinu méu,
– Alzati, Martino mio.
Pésati friscu e sanu
Alzati fresco e sano
Che óciu séu pianu
Come sego leggero.
Santu Maltinu a caccia andèsi,
San Martino a caccia andò
Tre pani e tre cani cu iddu pultési,
Tre pani e tre cani con lui portò
Essèndi in caminu è cascatu in un fòssu
Essendo in cammino è caduto in un fosso
E fiaccatu ha pulpa senz’òssu.
E ha rotto polpa senz’osso
E tòppa a Domine Déu:
E incontra Domine Dio
– Undi sé’ andèndi Maltinu méu?
– Dove stavi andando Martino mio?
Era andèndi in un caminu
Stavo andando per una strada
E cascatu sòcu in un fòssu
E sono caduto in un fosso
E fiaccat’àggju pulpa senz’òssu.
E ho rotto polpa senz’osso
– Anda a chidda piana
– Vai in quella pianura
E pidda un pèzzu d’óciu séu
E prendi un pezzo di sego
Untalu a mani piani
Ungilo con mano leggera
E la carri fiaccàta si tolghia sana.
E la carne rotta ritorni sana
Santu Maltinu era camminèndi
San Martino stava camminando
A casa sóia era turrèndi
A casa sua stava tornando
E pidda di pèttu un mònti siguru
E inciampa in un sasso sicuro
Chi illa nòtti era oscuru
Che nella notte era oscuro
E carri fiaccata si fési
E uno strappo muscolare si fece
Intòppa a Domine Déu
Incontra Domine Dio
E tucchèndilu li dísi:
E toccandolo gli disse
– Undi eri andèndi Maltinu méu?
– Dove stavi andando Martino mio?
Er’andèndi i’ lu caminu
Stavo andando sulla strada
E cascatu sòcu in chistu fòssu
E sono caduto in questo fosso
E fiaccat’àggju pulpa senz’òssu.
E ho rotto polpa senz’osso.
(Il resto è uguale alla precedente)
Li paràuli di la mulditura (morsicatura del cane)
Mulditura, mulditura,
Morsicatura, morsicatura
Pa lu sóli e pa la luna
Per il sole e per la luna
Pa la luna e pa lu sóli
Per la luna e per il sole
Che gjaddu cantadóri
Che gallo cantore
La santa nòtti di Natali
La santa notte di Natale
Chist’è mòssu chi no ti ’ali
Questo è morso che non ti vale
Li paràuli pa lu strobbu (contro le disgrazie)
Santu Bonaintura
San Bonaventura
Gruci pultáa in pèttu
Croce portava in petto
E gruci pultáa in gula
Croce portava in gola
E né liatu e né tèntu
E né legato e né mantenuto
E né tèntu e né liatu
E né mantenuto e né legato
E né da coldi affarratu
E né da corde afferrato
Né da pilotta culatu
Né da palla trapassato
Né da fócu abbampatu
Né da fuoco avvampato
E né da riu priculatu
E né da fiume messo in pericolo.
E né da fiddólu molt’a latu.
Né da figlio colpito al fianco.
Li chjai di Santu Petru
Le chiavi di San Pietro
Né a dananzi e né a daretu
Ne davanti né dietro
Nòstra Signóra cu lu só mantu
Nostra signora col suo manto
Ci lu lámpia innantu
Ce lo getti su
Patri e Filio e Spiritu Santu
Padre e Figlio e Spirito Santo
Accennerò ora brevissimamente ai vari rimedi: medicinali contro le malattie.
Uno dei mali più comuni e più frequenti è il mal di ventre (71).
(71). II FERRARO G., in «Canti popolari in dialetto logudorese». Torino, 1891, pag. 68, ricorda che se si esce di casa prima dell’alba e a digiuno si mandano in gola tre more di rovo, colte nel giorno stesso di S. Giovanni, per tutto l’anno non si avrà male di stomaco o di ventre. Il VALLA F., (op. cit., pag. 46) scrive che un paio di scarpe di pelle di cane fatte portare ad un bambino, a cui non fu mai posta altra calzatura, lo preserva per tutta la vita dai dolori di ventre.
Prima di ogni altra cosa si fanno fare al bambino varie capriole in tutti i sensi (li caprioli, li caprittini) oppure lo si mette con la testa in giù, o anche lo si sospende per un piede e lo si fa dondolare in modo che col movimento oscillatorio si formi una croce. Gli si praticano, quindi, frizioni oppure energici massaggi con grasso di volpe, ovvero con sego caldo o con acqua di riso pure calda finalmente gli si applicano impiastri di seme di lino o di crusca o impacchi di malva. In qualche posto perché le frizioni abbiano migliore risultato, si usa farle con olio nel quale siano stati fritti alcuni centopiedi, e inoltre sì fa ingerire all’ammalato un cucchiaino di olio di mandorla.
La febbre, che accompagna quasi tutte le malattie, è combattuta con chinino sciolto nell’olio e con frizioni d’olio alle ascelle.
Per il mughetto (scia, ruspiu) tanto frequente nei bambini, si usano vari rimedi. Uno è questo: fregare sulla lingua un pezzo di panno rosso intriso nel miele. Un altro: si tagliano, con le forbici, tre ciocche di capelli al bambino e si sfregano sulla lingua del paziente, ma l’operazione, per avere sicura efficacia, deve essere compiuta da persona che abbia conosciuto i propri bisnonni o almeno uno di essi, forse perché l’operatore è più sicuro se appartiene a stirpe longeva. Egli, infatti, mentre fa le frizioni sulla lingua deve pronunciare queste parole Scia, scia cunnisciùtu àggju a bisài mei (ho conosciuto i miei bisavoli) (72).
(72). COSSU Gio. Maria, in «Rivista delle tradizioni popolari italiane», 1894, anno I, pag. 222, ricorda, egli pure, questo metodo di cura con la variante che la persona che ha conosciuto il bisnonno e la bisnonna deve gettare in bocca al bambino un poco della sua saliva.
In alcuni luoghi invece chi ha conosciuto i bisnonni deve soffiare per tre volte in bocca al bambino.
Il raffreddore e il leggero catarro bronchiale si curano con applicazione sul petto di pezzi di carta oleata, di lana e, particolarmente, di pezzi di pelliccia di lepre. Per terra, intorno al letto, si collocano delle pentole di acqua bollente.
Per il mal di gola detto l’òssu (l’osso), oltre la frizione con olio fatto benedire in chiesa nel giorno dedicato alla festa di S. Biagio, si usa far mettere da una donna pratica un dito inzuccherato nella gola dell’ammalato, oppure fargli sfregare la lingua e tutta la cavità orale con panno rosso bagnato nel miele.
Il morbillo e la scarlattina si usa curarli avvolgendo il corpo nudo dell’ammalato in un panno di lana, preferibilmente rosso e dando da bere decotti di erbe purgative e aromatiche.
Una delle malattie più comune dei bambini è quella dei vermi (elmintiasi). A la Maddalena, luogo di mare dove il rimedio è facilmente trovabile, i vermi sono combattuti con infusi di corallina. Nella vicina Santa Teresa Gallura alla corallina per via interna, si aggiunge, per via esterna, una piccola focaccia di farina e miele e si colloca sull’ombelico.
Nei paesi dell’interno si ricorre alla santonina. Nelle campagne di Tempio si ritiene utilissimo mettere una resta d’aglio (una curona d’aciu) intorno al collo del bambino.
Caratteristico è il metodo usato a Luogosanto per diagnosticare che si tratti proprio di vermi. Si prende un poco di filo, si attorciglia più volte facendone una matassina, che viene poi tagliata con le forbici facendo cadere i pezzi di filo attorcigliati su di un piatto pieno d’acqua. Se i pezzi di filo restano immobili non si tratta di vermi, se, invece, per riprendere la primitiva forma fanno qualche movimento serpeggiando, la presenza dei vermi diventa indiscutibile.
Se poi il bambino ha convulsioni, se sono esclusi i vermi e non si comprende da dove provengano, gli si appende al collo una chiave oppure le redini di una briglia (73).
(73). Cfr. anche COSSU Gio. Maria, «Rivista delle tradizioni popolari italiane», cit., pag. 222.
La cura dell’orzaiolo è fatta in vari modi. Si prende una chiave (74) e per tre volte si fa sull’orzaiolo il segno della croce (75) per gli altri mali agli occhi è un grande rimedio lu sabàciu (un chicco di vetro nero bucato) che si mette sotto la cuffia del bambino, forse perché si ritiene che non manchi in questi casi a lu colpu di l’òccj.
(74). La chiave deve essere una chiai masciu (chiave piena).
(75). II Cossu op. cit., dà una diversa versione. Egli dice che si finge per tre volte di cucire le palpebre con seta nera.
Contro la carri fiaccata (strappo muscolare) il rimedio escogitato dalla fantasia popolare è questo: si prende l’albume dell’uovo, lo si sbatte un poco e poi in mezzo ad esso si mette la sufficiente quantità di stoppa per formare una specie di cerotto che poi coprirà la parte dolente. Quando l’albume si dissecca sotto la fasciatura, forma una specie di duro cerotto che immobilizza in quel punto i movimenti muscolari, cosicché si ottiene il vantaggio desiderato (76).
(76). II MARI G., Per il folklore della Gallura. Ninnenanne, filastrocche, giochi, indovinelli, proverbi, ecc. Bergamo 1900, indica altri modi per guarire le malattie. Per esempio a pag. 84 dice: «a Calangianus per fare scomparire le verruche si gira per alcune volte intorno ad un pozzo, gettandovi del sale e dicendo: Còmu sulivrigia chistu sali, cussì sulivrigini li mé ’arruculi (come si liquefà questo sale così si liquefacciano le mie verruche).
A pag. 83 Giovanni Mari indica li paràuli pa lu signuzzu:
Sugnuzzu sugnuzzu
Singhiozzo singhiozzo
Lu córi ti ’èni
Il cuore ti viene
Mandal’a nonna
Mandalo a nonna
Si ti ’o bèni
Si ti vuole bene
I rimedi escogitati per far guarire i bambini che hanno paura del buio o di qualcuno o di qualcosa o di recarsi in determinate stanze o altri luoghi, sono numerosi e vari. Vi è chi usa incaricare il bambino, che teme di entrare in una stanza determinata, di andare a prendere qualche oggetto proprio in quella stanza raccomandandogli di camminare adagio e di non darsi alcun pensiero perché babbo e mamma restano a guardarlo. Il bambino esegue l’incarico tremante, per la prima volta, ma poi, gradatamente, si persuade che non vi è motivo per temere e guarisce dalla paura.
Altri fanno avvicinare il bambino accompagnandolo al luogo o alla cosa temuta, la toccano per primi dimostrandone al bambino l’innocuità e dicendogli: tocca, tocca ancóra tu come babbu finché il bambino si decide, se pur con iniziale esitazione, a toccare e ciò basta, normalmente, per vincere la paura (77).
(77). Qualche volta il bambino è fatto uscire di notte col pretesto di qualche incombenza, seguito dal genitore. Lo si abitua anche a recarsi, sempre di notte, in chiesa e perfino nei cimiteri campestri, vedrà e finirà per non più temere perfino i fuochi fatui. Quando anche questa prova sarà bravamente superata si potrà essere sicuri che quel piccolo cuore è divenuto impavido e non tremerà più quali che siano gli eventi che la vita gli offrirà.
Altri ancora, però, fanno ricorso alla fattucchiera perché tolga il demone della paura da dosso al bambino.
Non sono pochi quelli che, animati dalla fede, consigliano al bambino di farsi il segno della croce, tutte le volte che ha paura persuadendolo che così allontana da sé qualsiasi pericolo, oppure si rivolgono al sacerdote perché benedicendo il bambino, leggendogli il vangelo di S. Giovanni e facendo gli esorcismi allo spirito maligno che lo tormenta, rimetta il piccolo nella grazia di Dio.
Vi è chi salvaguarda il piccino dalla paura appendendogli al collo uno scapolare contenente oggetti benedetti, oppure applicandogli una punga (78).
(78). Circa la punga cfr. sopra la nota 34.
Un tempo e dove c’è si usa ancora al bambino si faceva saltare per tre volte il focolare (fuchili, zidda) sul quale era stato disposto un poco di fuoco in forma di croce; e subito dopo gli si faceva bere un poco di acqua fresca a piccoli sorsi mentre la madre o chi vigilava il bambino nel momento della bevuta diceva qualche frase di preghiera o di scongiuro.
Altro mezzo, almeno pronto e tempestivo, è quello di sputare in viso al bambino, perché l’impressione della non piacevole irrorazione cancelli la precedente impressione della paura.
Infine un rimedio considerato molto proficuo è quello di fare ingoiare al bambino tre grani di erba ruda. Il rimedio diventa infallibile se i tre grani sono ingeriti nella vigilia di S. Giovanni all’ora del vespro e se qualche filo dell’erba medesima è incluso nello scapolare (79).
(79). II VALLA F., op. cit., pag. 44, ricorda che per guarire dallo spavento si cerca di avere un pezzettino degli abiti di colui che cagionò la paura, oppure una ciocca dei suoi capelli: si brucia, e la cenere, messa in un bicchiere d’acqua si dà a bere allo spaventato.