Istruzione pubblica

di Silla Lissia

Dalla Presentazione di Guido Rombi

L’ottavo capitolo, ISTRUZIONE PUBBLICA, indaga l’evoluzione della scolarizzazione in Gallura dalla metà dell’Ottocento ai primi del Novecento, mettendone in evidenza il grave stato d’arretratezza attraverso l’analisi sia dei suoi aspetti più “interni” (numero delle scuole, numero e frequenza degli alunni e dei licenziati tra il 1885 e il 1900, loro ripartizione nel territorio, percentuale dei laureati, rapporto numerico e percentuale alunni/insegnanti/popolazione, costi ecc.), sia di quelli “esterni” (isolamento delle frazioni, accentramento delle scuole, povertà della popolazione, malnutrizione degli scolari, scarsità delle risorse dei patronati scolastici), fino a denunciare gli errori della classe politica, soprattutto di quella tempiese. Il principale era l’ostinazione ad investire nel Ginnasio a scapito dell’istruzione primaria e dell’istituzione di scuole secondarie professionali, chiamando per giunta a concorrere al mantenimento del Ginnasio anche gli ottomila abitanti delle campagne (i frazionisti) che disponevano di appena tre scuole miste elementari.

Per Lissia, il Ginnasio non era la scuola idonea a modernizzare la società gallurese. Esso abilitava a diventare funzionari pubblici, ma non a fornire le competenze necessarie ai bisogni del territorio e della regione, e non a sviluppare il senso dell’iniziativa individuale (pressappoco la stessa critica rivolta oggi — ma più condivisibile al tempo — e che ha determinato una certa crisi dell’istituto). Per lui era perniciosa la mentalità, che si andava diffondendo sempre più in molte famiglie (quelle del medio e alto ceto borghese, che influenzavano poi fortemente le scelte della classe politica), di avere come massima aspirazione per i figli la vita impiegatizia; di farne, cioè, impiegati statali che andavano «tranquillamente e sicuramente a ritirare il suo stipendio alla fine di ogni mese»[23]. Una mentalità, questa, che comprimeva le velleità d’indipendenza dei giovani e insieme la loro aspirazione ad avviare iniziative che uscissero dai confini tradizionali, cosicché, chi non vi si conformava, veniva «maltrattato e vilipeso»[24], considerato un giovane vizioso, un poltrone, che cercava le novità perché non aveva voglia di studiare.

Fino al consolidamento del governo di Spagna non esisteva in Sardegna neppure l’ombra di pubblico insegnamento.

Nella mancanza di libri e nella mancanza di scuole l’istruzione era limitata a quei pochi privilegiati, che privatamente o fuori del regno potevano e volevano istruirsi; la grande maggioranza della popolazione viveva nella più assoluta ignoranza. Il clero, la cui condizione avrebbe dovuto imporgli il dovere di istruire i fedeli a saper leggere almeno i libri sacri, od era esso stesso ignorante o non se ne occupava affatto intento come era più a procrear figli che a leggere libri (Arquer). Gli stessi sovrani non solo si occupavano di diffondere fra i sudditi l’istruzione, ma impedivano anche che gli isolani andassero a cercarla nelle vicine università italiane.

È solo verso il secolo XVI che comincia a sorgere qualche scuola pubblica. Il comune di Sassari fa aprire una scuola di grammatica latina; stipendia due religiosi perché insegnino pubblicamente teologia, sacra scrittura e logica; un medico perché insegni anatomia, e fa costruire un orto botanico per l’insegnamento della farmacia. Non molto dopo i padri gesuiti fondano a Sassari delle scuole di filosofia, teologia scolastica, lettere amene e sacra scrittura, ed altrettanto fanno a Cagliari, dove fondano una scuola di teologia, tre di filosofia ed una di lingua ebraica[1].

A queste prime larve di pubblico insegnamento si aggiungono più tardi i seminari per i chierici: ne devono essere fornite tutte le diocesi, ma solo poche li hanno.

Andavano intanto rendendosi celebri nel mondo cattolico le scuole pie fondate dal Calasanzio, e ben presto Cagliari e Sassari videro sorgere nel loro seno una di queste scuole.

Alla fine del secolo XVII le condizioni del pubblico insegnamento in Sardegna erano pertanto queste: solo Cagliari e Sassari hanno delle scuole pubbliche, le altre città e villaggi continuano a vivere nella più squallida ignoranza degli uomini e delle cose, fatta eccezione per quelle poche diocesi che hanno il seminario per i chierici.

La Gallura in questo tempo era priva di qualunque istituto di istruzione e viveva in mezzo ad una ignoranza profonda come l’ombra dei suoi boschi. É tradizione che verso quest’epoca si riunissero in Tempio i magnati del paese per provvedere ai bisogni dell’istruzione, spinti dalla propaganda e dalla fama che avevano acquistata le scuole pie. La tradizione ci dice anche che una parte dei magnati non fosse contenta di veder sorgere nel proprio paese un focolare d’istruzione, che avrebbe potuto creare pericoli ai privilegi di casta ed al dominio feudale[2]. Sennonché la dimostrazione che le scuole, che predicano la rassegnazione e la ubbidienza, non possono far sorgere pericoli per i privilegi di casta, persuase i dissidenti e nel 1665, per convenzione stabilita tra il comune di Tempio e quello di Terranova, sorsero in Tempio le scuole pie.

Per parecchi anni rimasero le sole scuole conosciute in Gallura; ma nel secolo successivo fu istituita a Calangianus una scuola di latinità. E queste due scuole costituirono per lungo volger di tempo l’unico e debole raggio di luce nella notte profonda dell’ignoranza della popolazione gallurese. Debole raggio di luce, perché l’istruzione impartita in queste scuole non era fatta per il popolo lavoratore, il quale continuava a vivere nella privazione di ogni beneficio della scuola.

È solo verso il principio del secolo passato che si pensa di fare arrivare l’istruzione al popolo con l’istituzione delle scuole elementari, rese obbligatorie da un decreto di Carlo Felice.

Ma ancora una volta i maggiorenti di Gallura non seppero celare il loro sacro orrore per l’istruzione pubblica, e la volontà regale dovette frangersi contro l’ostinata resistenza dei potenti.

E così passarono molti anni prima che qualche scuola elementare sorgesse focolare d’istruzione per il popolo gallurese. I consigli comunali composti di gente ignorante ed analfabeta e dominati dai nobili, non si preoccuparono affatto dell’obbligo dell’istruzione elementare ed anzi cancellarono dai bilanci le spese impostate per questo scopo. Tra il 1824-25 furono istituite infatti una scuola elementare a Tempio, una a Calangianus, una a Luras, a Bortigiadas, ad Aggius, a Terranova, a La Maddalena; ma a poco a poco quasi tutte queste scuole furono alla chetichella chiuse sotto il magro pretesto che mancavano gli abili precettori e che in bilancio mancavano i fondi! Tanto che verso il 1840 non si contano in Gallura che quattro scuole con 250 alunni.

Ma il bisogno dell’istruzione popolare si faceva sempre più sentire, insieme alla necessità di chiamare il popolo ad una vita più civile e più morale; e così le autorità sinistramente impressionate dal numero dei delitti e delle uccisioni che si consumavano in Gallura per uno stolto sentimento di vendetta, presero la decisione più facile di far giungere l’istruzione elementare anche alla gente di campagna.

Questa era divisa allora in 188 cussorge con 1560 stazzi e tutte le cussorge erano raggruppate in otto cappellanie, ad ognuna delle quali presiedeva un vice-parroco. Ma i vice-parroci non dimoravano nelle loro cappellanie se non una parte dell’anno senz’altra preoccupazione che quella di mantenere la superstizione e di far danaro.

Epperò 1856 fu ad opera dell’intendente Orrù e del vicario Muzzetto provveduto che i vice-parroci avessero dimora fissa nelle loro cappellanie e che vi aprissero una scuola per l’educazione dei cussorgiali. Il provvedimento era buono: ed avrebbe infatti dato ottimi risultati se fosse stato applicato con quella fede di apostolato che dovrebbe caratterizzare il sacerdote. Ma le scuole o non furono aperte o furono presto chiuse, per cui il popolo di campagna continuò a vivere nella più completa ignoranza. Nei paesi intanto, e specialmente a Tempio, le scuole elementari si andarono moltiplicando. La legge del 1859 sulla pubblica istruzione imponeva a tutti i comuni l’obbligo di mantenere almeno una scuola di grado inferiore per i maschi ed una per le femmine. E nell’anno scolastico 1862-63 si contano in Gallura una scuola per ogni 960 abitanti e 32 alunni per ogni mille abitanti. Queste cifre oggi sono quasi raddoppiate ed abbiamo una scuola per ogni 540 abitanti e 61 alunni per ogni mille abitanti.

La Gallura spende per l’istruzione elementare L. 1,65 per abitante e 26,85 per ogni alunno. Come si vede, ogni alunno viene a costare un po’ troppo in proporzione alla spesa totale per abitante; ma questo costo potrebbe essere di molto ribassato se i consigli comunali volessero spendere un poco di più per aumentare il numero dei maestri nelle frazioni fornite di scuola e per impiantare nuove scuole in quelle che ne sono prive.

Perché la causa che mantiene in Gallura così elevato il costo di ogni alunno è precisamente la mancanza di scuole nelle campagne in modo che oltre la metà della popolazione gallurese non può mandare i propri figli alla scuola. Il costo dell’alunno è infatti in proporzione inversa del numero dei frequentatori della scuola: a parità di spesa, maggiore è il numero degli alunni e minore la spesa per ognuno di essi. E quei paesi, che, come La Maddalena, S. Teresa e Luras, hanno una popolazione più accentrata e quindi le scuole più alla portata dei fanciulli, hanno una frequenza maggiore e naturalmente una spesa per alunno minore.

La Gallura ha una spesa per alunno superiore a quella media della Sardegna, che è di 24,75 e superiore di molto a quelle delle provincie più istruite d’Italia, come la Lombardia ed il Piemonte. Mentre infatti ogni maestro insegna in media a 41 alunni in Italia e a 42 nella stessa Sardegna, in Gallura ogni maestro insegna appena a 24 alunni. E ciò sempre per la ragione che oltre metà della popolazione non può godere del beneficio della scuola.

Ma la tenuità della spesa per abitante e l’elevatezza del costo di ogni alunno rivelano in Gallura una grave ingiustizia che i Consigli comunali compiono a danno delle popolazioni di campagna. Queste infatti concorrono nella spesa per la pubblica istruzione senza poterne usufruire, perché le scuole si trovano tutte accentrate nei paesi. Né vale il dire che la causa di questa ingiustizia distributiva non dipende da malvolere dei Consigli comunali, ma semmai da una immodificabile situazione topografica.

La distribuzione geografica della popolazione se rende più gravoso e più difficile il compito dell’istruzione, non giustifica affatto il monopolio esercitato dai paesi a danno delle campagne. Poiché anche le popolazioni di campagna concorrono ed in maggiore proporzione al pagamento delle tasse comunali ed hanno anche maggiore bisogno di istruzione per neutralizzare gli effetti perniciosi dell’isolamento, sarebbe dovere di equità e di moralità che i Consigli comunali fornissero di scuole tutte le frazioni di campagna. Ed a questo dovrebbe spingere anche un elevato interesse sociale, perché è la mancanza di istruzione e di educazione che mantiene così forte il sentimento della vendetta e così grande il numero degli omicidi nella gente di campagna.

Il profitto che la popolazione ritrae dalle scuole è abbastanza meschino per lo scarso concorso degli alunni. Su 2960 obbligati nell’anno 1900-901 appena 1950 si sono inscritti alla scuola e di questi arrivarono agli esami appena 1200. Più dei tre quinti degli obbligati non frequentano la scuola. È questa proporzione si rende anche più grave quando si consideri l’esiguo numero di quelli che frequentano la scuola fino al proscioglimento.

Varie sono le ragioni che si oppongono alla frequenza della scuola. Principalissima la ragione topografica. Ad eccezione di qualche paese, come La Maddalena, che ha tutta la popolazione accentrata, quasi tutti i comuni della Gallura hanno la metà della popolazione sparsa nelle campagne. Le scuole sono per lo più stabilite nei paesi, per cui la frequenza della scuola è materialmente impedita a metà dei fanciulli. Solo Tempio ha finora istituita qualche scuola mista nelle frazioni di Luogosanto, Arzaghena e Palau. Ad ovviare a questa situazione sarebbe necessario istituire in tutte le frazioni, che non sono poche, almeno una scuola mista. Allora anche quei fanciulli non obbligati dalla legge alla frequenza della scuola, potrebbero frequentarla con grande vantaggio della società.

Altra ragione che allontana dalla scuola i nostri fanciulli è la miseria. Una parte delle nostre famiglie operaie e contadine, pressata dal bisogno assillante del pane quotidiano, invece di mandare i figli alla scuola li manda al lavoro. É un pregiudizio credere che i fanciulli col loro precoce lavoro possano realmente portare un aiuto alla famiglia, perché i fanciulli in tanto possono aiutare in quanto il lavoro degli adulti viene sostituito dal lavoro dei fanciulli. E poiché i fanciulli sono pagati meno degli adulti, così il preteso aiuto dei figli si risolve in un reale aumento di miseria pei padri. Ma la gente povera non bada a queste leggi di ripercussione economica, epperò crede di alleggerire il peso del sostentamento della famiglia mandando i propri figli al lavoro anzi che alla scuola. Un’altra parte poi non li manda per non aggravare l’insufficiente bilancio domestico con le spese necessarie alla frequenza della scuola.

Il problema della scuola popolare certamente non sarà risoluto se non il giorno in cui sarà risoluto il problema sociale; tuttavia anche oggi si potrebbe in parte risolvere grazie all’opera illuminata e moderna dei Consigli comunali.

I patronati scolastici, che hanno il compito di facilitare la frequenza della scuola ai fanciulli poveri fornendoli di indumenti e di libri, non possono che in minima parte ovviare all’ostacolo della miseria. I patronati non hanno entrata fissa ed i danari necessari debbono chiederli alla carità privata.

Ora la storia dimostra l’insufficienza e l’impotenza della carità a risolvere alcuno dei problemi sociali più urgenti. E la beneficenza applicata alla soluzione del problema dell’istruzione del povero è destinata a fallire allo scopo. Essa non è un rimedio decisivo alla miseria che allontana i fanciulli dalla scuola e non costituisce se non una parziale e difficile riparazione, la quale ha bisogno di molta costanza e di molta perseveranza nei donatori per poter dare un minimum di effetto utile. Ma la vita quotidiana dimostra che la carità dei signori si stanca presto e che è soggetta a tutti i cambiamenti ed a tutti i capricci delle umane passioni. E ciò è tanto vero che lo stesso Ravà nella relazione al ministero della pubblica istruzione, parlando dei patronati scolastici, sente il bisogno di raccomandare alle classi bisognose la pazienza e la sottomissione timorata perché «l’aiuto delle autorità e degli abbienti verrà ad essere tanto più largo e spontaneo quanto meno le classi povere vi pretenderanno come a cosa loro dovuta»[3].

Epperò nella insufficienza della carità, è necessario che pensino i consigli comunali a riparare alla miseria delle classi povere con istituire la refezione scolastica municipale gratuita per tutti i fanciulli poveri. Ché dato e non concesso che i patronati scolastici potessero avere vita attiva e continuativa, essi non potrebbero mai risolvere il problema della fame.

Se gli indumenti forniti dai patronati, se i libri e la carta forniti gratis potranno ovviare alla mancanza del corredo scolastico ed ai rigori della stagione e della decenza, non potranno mai vincere il pregiudizio delle famiglie povere con dare il cibo allo stomaco digiuno. Non ci vuole molta scienza per capire che il fanciullo che è obbligato a rimanere diverse ore nella scuola a stomaco digiuno non può trarre alcun profitto dalle lezioni del maestro. Lo spirito del fanciullo digiunante è turbato, la sua facoltà intellettiva è affievolita, la sua attenzione distratta. Egli diventa disattento, irrequieto, turbolento ed è causa anche di distrazione e di turbamento a tutta la scolaresca. Il problema quindi della refezione scolastica gratuita si sottrae all’azione dei patronati. Ne consegue che prima che una legge di Stato molto lontana, completando quella sull’istruzione del 1877, renda obbligatoria a tutti i comuni la refezione scolastica, devono istituirla fin d’ora i consigli comunali, se vogliono che la legge dell’obbligatorietà dell’istruzione non sia una lustra, se vogliono che l’istruzione arrivi anche ai più bisognosi.

Il governo nel rendere obbligatoria l’istruzione primaria muoveva da un elevato principio morale politico ed economico: per il contributo cioè che l’istruzione può portare alla moralità nella prevenzione dei delitti, alla tranquillità e sicurezza dello Stato, alla ricchezza della nazione. Ora chi ha maggiormente bisogno dell’istruzione sotto tutti questi punti di vista è precisamente la parte più povera della cittadinanza, quella cioè alla quale è vietata l’istruzione dalla miseria. Di qui la necessità che i singoli comuni, ai quali il governo centrale impone l’obbligo del mantenimento delle scuole primarie, pensino a rendere effettiva l’obbligatorietà dell’istruzione per il bene della nazione.

Dei due patronati scolastici esistenti in Gallura, quello di La Maddalena non ha potuto entrare in funzione perché il comune gli ha negato il sussidio e quello di Tempio è insufficiente ai bisogni per l’esiguità delle entrate nonostante gli sforzi del suo presidente. Quello di Tempio infatti conta appena 83 soci annuali e 12 benemeriti che gli danno un’entrata di appena 200 lire! E senza il soccorso del comune. della provincia e del governo la sua entrata sarebbe addirittura ridicola.

Si vede quindi che questi istituti di beneficenza possono contar poco sulla carità privata e devono invece contare molto su quella ufficiale del comune e del governo. Il comune ed il governo costituiscono sempre i due oblatori più munifici per i patronati scolastici; e tanto varrebbe anzi meglio varrebbe che, aumentando la somma, si rendesse obbligatoria e comunale un’istituzione di soccorso per gli alunni poveri. Sarebbe perciò più utile ed anche più onesto sopprimere l’ipocrisia della beneficenza privata ed accollare ai comuni le spese necessarie per la refezione scolastica.

Da un’inchiesta sommaria, fatta nel mese di aprile di quest’anno nelle scuole elementari maschili di Tempio, mi risulta che su 291 alunni, 5 vanno a scuola senza aver fatto colazione, 43 hanno fatto colazione con caffè nero, 54 con pane solo 5 con caffè e latte senza pane, è 184 con caffè e latte e pane. Di essi avevano cenato la sera prima 25 a pane solo, 112 a pane e formaggio, 54 a pasta asciutta, 80 a brodo e carne. A pranzo poi 72 mangiarono pane e formaggio, 30 a pane solo, 123 a carne e minestra, 62 a maccheroni. Cioè a dire che il 16,5 % dei bambini vanno a scuola addirittura digiuni ed il 18,5 % con un’alimentazione insufficiente di pane solo.

È a notare per la verità della statistica e per il suo valore reale che la gran parte degli alunni per un senso di vergogna e di paura non ha detto il vero e che essa è stata fatta verso la fine d’aprile, in un tempo cioè in cui è più facile trovar lavoro. Ma se i fanciulli avessero detto tutti la verità, e l’inchiesta fosse stata fatta in uno dei mesi invernali, i risultati sarebbero stati anche più sconfortanti. Del resto, dopo lo studio fatto sull’alimentazione, non è a meravigliarsi che le condizioni vere della nutrizione degli scolari siano al disotto di quelle apparse dalla nostra statistica. Ad ogni modo i risultati di essa sono tali da far pensare seriamente sulla sorte e sul profitto di tanti alunni.

E come potrebbe il patronato scolastico di Tempio provvedere alla refezione degli alunni poveri con quel magro bilancio? Ed ecco la necessità che l’amministrazione comunale avochi a sé e risolva questo urgentissimo problema della refezione scolastica nei mesi invernali.

Se un troppo grande numero di fanciulli non frequenta la scuola, il benefizio lontano di quelli che la frequentano è anche molto piccolo. Ché giunti all’età adulta questi giovani hanno dimenticato tutto quello che avevano appreso nei primi anni. I figli dei poveri, appena finito il corso elementare, non vedono più libri: oppressi dalle cure quotidiane della lotta per la vita e per il non uso diventano analfabeti o quasi. Ciò si ricava dal rilevante numero di analfabeti che appare nelle leve e nei matrimoni. Questo grave danno è in gran parte determinato dalla mancanza di Scuole serali e complementari, che, rinfrescando le nozioni apprese nei primi anni della scuola, mantengano vivo il desiderio dell’istruzione. I municipi di Gallura non si occupano invece dell’apertura di scuole serali e tanto meno di quelle complementari.

Il municipio di Tempio ad esempio, può spendere parecchie migliaia di lire per mantenere un ginnasio che serve solo a poche famiglie di benestanti, ma si guarda bene dall’aprire una scuola serale e tanto meno complementare.

Ho parlato del ginnasio di Tempio e mi ci fermo a dimostrare che il suo mantenimento è un danno ed una ingiustizia, perché ognuno possa vedere la esattezza del mio giudizio.

É strano infatti che quando ad oltre metà della popolazione tempiese mancano le scuole elementari inferiori, il consiglio comunale spenda 14000 lire all’anno per dare un’istruzione secondaria ai figli dei paesani! È ingiusto infatti che mentre ottomila abitanti delle campagne hanno appena tre scuole miste elementari, il Consiglio comunale di Tempio si permetta di far spendere 14 mila lire per mantenere il ginnasio a seimila cittadini, ed alla spesa faccia concorrere anche gli ottomila frazionisti!

Ma procediamo. Costituitasi ad unità, l’Italia ebbe bisogno di un numeroso ed abile personale per occupare le cariche dei numerosi uffici pubblici, di cui andava coprendosi la nazione; e la scuola fu tutta indirizzata alla preparazione di tali funzionari. E l’Italia, piena delle auguste tradizioni, non seppe trovar miglior scuola di quella classica per preparare i suoi funzionari, ed impose l’obbligo di almeno la licenza ginnasiale per poter concorrere ai più umili impieghi. Una numerosa rete di ginnasi e di licei copri l’Italia e versò annualmente sul mercato degli impieghi una valanga di concorrenti.

E Tempio credette di aver toccato il cielo col dito quando nel 1885 il suo antico ginnasio comunale fu dichiarato pareggiato o meglio regio ma a spese del comune. Sennonché arrivava tardi ed otteneva il ginnasio precisamente quando la scuola classica cessava di compiere in Italia una funzione utile al paese. Finché infatti l’interesse della nazione di avere istruiti funzionari si accordava con l’interesse individuale di procacciarsi una buona posizione, la scuola classica italiana compi almeno una funzione utile; ma rottosi l’accordo e saturandosi la nazione di candidati aspiranti agli impieghi, la scuola assunse una funzione negativa non solo, ma dannosa. La nazione non ha oggi più bisogno di tanti funzionari, ma piuttosto sente il bisogno di svecchiarsi e di svecchiare la scuola rendendola più consona ai nuovi bisogni della civiltà moderna.

La funzione della scuola moderna non è infatti semplicemente quella di dare al giovine le cognizioni generali necessarie per potersi saper governare nel disbrigo di un qualunque impiego dello Stato, ma quella di sviluppare tutte le attitudini di ogni sin golo individuo e di indirizzarle per la via che conduce alle acquisizioni nel tempo e nello spazio più utili all’individuo ed alla società[4]. La scuola pertanto deve essere adattata all’ambiente e deve rispondere ai bisogni della regione.

La Gallura è popolata di gente ignorante, apatica, priva di ogni e qualunque iniziativa: essa è ricca di bestiame, di sugheri, di vigne e di olivastri ed ha bisogno quindi di una scuola che, pur dando le necessarie cognizioni generali, sappia sviluppare il senso dell’iniziativa individuale e dare quella energia e quella competenza speciali necessarie allo sfruttamento delle qualità della regione.

Ora il ginnasio non è una scuola capace di compiere la funzione richiesta dai bisogni e dalle condizioni della Gallura. Gli studi che si fanno in questa scuola deviano la gioventù dalla visione del presente e la orientano verso il passato spento e non rinnovabile, senza darle nessuna cognizione praticamente utile, togliendole anzi il senso pratico con l’inutile lungo infruttuoso studio delle lingue morte e diminuendole o addirittura isterilendole il senso d’osservazione, che è quello che più serve alla vita pratica in ogni direzione di attività[5].

L’istruzione classica fermando e cristallizzando la mente nella contemplazione e nella imitazione di un passato che non tornerà più, mantiene intellettualmente il giovane fuori della vita, fuori del mondo attuale. E quando finiti gli studi, la mente piena del passato e piena l’anima delle grandezze che furono, entra nella vita reale il povero giovine si trova disorientato in un ambiente affatto nuovo. E se non ha la fortuna di adagiarsi in qualche impiego, che gli permetta di continuare nel sogno e gli risparmi ogni spesa di volontà, per adattarsi ai bisogni della vita reale deve rifarsi una nuova educazione, se lo può, altrimenti rimarrà l’eterno spostato, il bohemien impenitente. Così vediamo una quantità di diplomati e di laureati concorrere alla conquista di ogni più umile impiego o fare gli scrivanelli negli uffici di qualche collega più intelligente più fortunato. La mancanza di un’educazione pratica rende questi giovani, pieni di intelligenza e di cognizioni letterarie e storiche, che sanno dirvi magari a memoria il Convivio di Dante e dirvi a quale ora di qual giorno fu ucciso Giulio Cesare, inerti, spostati, inutili a sé ed alla società.

Alla scuola si deve oggi chiedere l’attivazione di quelle facoltà psichiche più adatte all’esercizio della vita moderna, la formazione di quel carattere che non si smarrisce di fronte alle eventualità della vita; ed il contenuto degli studi non è indifferente su questa funzione. Non è indifferente infatti dare la preferenza per esempio agli studi classici o agli studi tecnici, essendo la loro funzione assai diversa sull’orientazione della psiche.

Gli studi classici hanno l’effetto di deprimere lo spirito d’iniziativa, di sviluppare il senso di soggezione al principio d’autorità, di deformare lo spirito dei giovani orientandolo verso l’inerzia e verso l’autoritarismo[6]. Or noi, popolo vecchio e stanco, cristallizzati nella routine dell’abitudine, del così faceva mio nonno, ed educati a non vedere altra méta se non la sinecura di un impiego, abbiamo perciò bisogno di una scuola che sappia suscitare nell’individuo la forza volitiva, che sappia infondere nell’animo nostro un poco di quel l’energia d’iniziativa e d’azione che porta alla vittoria nella concorrenza popoli.

Ma il pensiero della lotta, della vita contrastata non sfiora il cervello dei nostri padri di famiglia, i quali sono felici quando banno potuto collocare un loro figlio in un qualunque impiego al riparo delle bufere della vita, o dare una loro figlia ad uno stipendiato dello Stato. Il loro sogno è la vita dell’impiegato, che va tranquillamente e sicuramente a riscuotere il suo stipendio alla fine di ogni mese. E questo sentimento, che atrofizza ogni spirito d’iniziativa e di indipendenza, essi trasmettono ai propri figli, la cui educazione è volta a questo fine burocratico.

La preoccupazione maggiore di questi padri è di smorzare ogni velleità di indipendenza, ogni senso di individualità, ogni amore al nuovo, ogni iniziativa che esca dai soliti confini tradizionali. Il giovane, che mostri di voler fare da sé, di voler seguire le proprie inclinazioni e di voler uscire dalle viete abitudini, è reputato un vizioso, un poltrone che cerca le novità perché non ha voglia di studiare. Ed il povero giovane, non incoraggiato anzi maltrattato e vilipeso, finisce, pro bono pacis, col comprimere la propria personalità e col trasformarsi nel giovane studioso che sarà domani un automa pagato a tanto il mese od un professionista che si infischia dei progressi della scienza.

E perciò che noi tempiesi chiediamo alla scuola non un’educazione che salvi i nostri figli dall’inerzia volitiva che uccide, non un’educazione che elevando il livello dell’individuo elevi le condizioni sociali del paese, ma chiediamo semplicemente che essa dia ai nostri figli un titolo per entrare nella via degli impieghi o per proseguire gli studi superiori. È l’egoismo individualista impeciato dalla inerzia spirituale quello che fuorvia la mente della popolazione tempiese e non le lascia vedere tutto il danno di un’educazione anacronista.

Soppresse coll’abolizione del regime feudale e con la unificazione del Regno le barriere politiche che dividevano una classe dall’altra, si è naturalmente accresciuto il desiderio di uscire dalla propria classe per salire a quell’altra più elevata. L’artigiano disdegna di fare del proprio figlio un artigiano, il contadino un contadino ed ognuno intimamente aspira a fare del proprio figlio un impiegato.

Prima era la professione di prete che costituiva l’aspirazione più elevata di questa gente, ma oggi che volgono cattivi tempi anche per i preti, l’aspirazione diventa l’impiego. Il proprietario ha naturalmente desideri maggiori ma sempre intonati alla stessa maniera: e se l’artigiano si ferma al piccolo impiego, il proprietario arriva alla laurea ed ai più grossi impieghi. Ed il ginnasio ben rispondeva a questo stato psicologico della popolazione nel fornire all’artigiano ed al contadino piccolo proprietario il mezzo di giungere al possesso di quel titolo che apre la via agli impieghi ed agli abbienti il mezzo di risparmiare qualche soldo nella istruzione dei propri figli.

Sennonché la via degli impieghi è resa oggi difficilissima e la conquista di un posticino non è impresa facile grazie al numero grandissimo dei concorrenti. Il proletariato intellettuale è la novissima piaga che affligge la terza Italia e cresce con rapidità disperante. Con un fabbisogno annuale di 494 laureati in giurisprudenza, ché tanti ne muoiono all’anno in Italia o ne emigrano, le università ne mettono fuori ogni anno 1435: per un fabbisogno di 497 medici ne mettono fuori 899, e per un fabbisogno di circa, 300 ingegneri ne mettono fuori 376 ecc.[7]: è facile immaginare quindi quale numero stragrande di licenziati superiore al bisogno nazionale del funzionarismo, venga fuori ogni anno dalle nostre scuole secondarie classiche. Basta dare uno sguardo in qualunque giornale al numero dei concorrenti al più modesto impiego per capire quale sia la pletora di questi intellettuali diplomati e laureati desiderosi d’impiego. Dai soli ginnasi o licei vengono fuori annualmente circa 11000 licenziati e circa 8000 ne vengono fuori dalle scuole tecniche e dagli istituti[8].

Né giova egoisticamente pensare che ognuno possa fare affidabilità sulle proprie abilità o sulle proprie raccomandazioni per riuscire; perché dal punto di vista sociale la questione non cambia, riesca questo a preferenza di quello od un altro. Ma badiamo un poco a molti dei nostri intelligentissimi giovani che licenziati da un pezzo, aspettano ancora di essere occupati! Con tutto ciò noi continuiamo a mantenere un ginnasio, che, oltre a contribuire ad accrescere il numero di questi proletari intellettuali, oltre ad essere una fabbrica dannosa di spostati. ce lo paghiamo noi coi nostri danari.

Sorge perciò urgente la necessità di pensare a sostituire al ginnasio una scuola che sia più proficua agli individui e socialmente più utile al paese.

Una commissione, nominata dietro nostra proposta dal Consiglio comunale di Tempio per studiare la grave questione, ha concluso col ritenere il ginnasio la scuola più conveniente ai bisogni del paese. E tre ragioni mette innanzi per giustificare la sua conclusione: una d’ordine storico, una d’ordine sociale, ed una d’ordine finanziario. Qui mi occuperò di esaminare la portata delle prime due ragioni, riservandomi di esaminare tecnicamente e specificamente la terza in un progetto che ho in animo di preparare per l’impianto di una scuola complementare e professionale.

Il ginnasio, dice la commissione, è una istituzione antichissima, che ha una gloriosa tradizione. Esso è uno dei più antichi istituti di pubblico insegnamento che sia sorto in Sardegna; ed in esso hanno appreso i primi rudimenti i più illustri uomini che hanno onorato di gloria letteraria e politica la Gallura. Per queste ragioni l’istituto non deve essere toccato. Ma purtroppo questo è il grido di protesta della nostra anima vecchia, che, chiusa nel culto della tradizione e dell’antico, non osa cimentarsi col nuovo. É il rimpianto dei laudatores temporis acti, i quali trovano tutto il buono nel passato e non trovano nulla nel presente che meriti la loro considerazione. È il tradizionalismo, di cui noi siano malati, e per cui vogliamo rispettato e tutto ciò che è annoso; è il tradizionalismo che vuole mantenute quelle abitudini e quelle istituzioni che hanno il merito negativo del tempo. Tempio ha voluto e vuole il ginnasio perché lo aveva fin dal secolo decimosettimo. E non è ammirazione per le glorie dell’istituto, che pochi conoscono; ma è proprio effetto del cieco tradizionalismo per cui ogni città, ogni paese vuole rispettate e conservate quelle istituzioni che, buone o cattive, utili o dannose, ha avuto da tempo immemorabile.

E perché noi latini, eredi sfiaccolati delle cento congregazioni religiose morte fuori ma non dentro di noi, siamo troppo vincolati da tradizioni e superstizioni, per osare alcun che di nuovo[9]. L’antichità e la rispettabilità della istituzione non ci devono dunque far velo nell’apprezzamento della utilità di essa e non ci devono impedire di mutarla quando essa non risponda più ai mutati bisogni del paese.

E veniamo al secondo ordine di ragioni: all’utile morale e sociale che il ginnasio apporta al paese. Quest’utile morale e sociale si riassume tutto «nell’avere il ginnasio facili tato a molti padri di famiglia di Tempio e della Gallura l’arduo compito dell’istruzione dei loro figli, alcuni dei quali già laureati esercitano decorose e lucrose professioni, altri superando difficili esami di concorso hanno ottenuto impieghi ben retribuiti o sono sulla via di ottenerli. La convenienza di mantenere l’istituto del ginnasio apparisce se si considera ancora che, col pareggiamento dell’università della vicina Sassari, i nostri giovani studiosi potranno con maggiore facilità (?) conseguire la licenza liceale e la laurea: titoli oramai richiesti come condizione indispensabile per il concorso agli impieghi più ben retribuiti e per l’esercizio delle più lucrose professioni»[10]. Insomma l’utilità morale e sociale del ginnasio si compendia tutto nel titolo di passaggio che esso può fornire ai figli degli abbienti per proseguire gli studi fino alla laurea.

E la commissione ha fatto bene a non considerare minimamente la qualità dell’istruzione impartita nel ginnasio a tutti quei giovani, che per necessità economica non possono proseguire gli studi, perché altrimenti avrebbe dovuto riconoscere la poca utilità sociale e pratica dell’insegnamento ginnasiale. Io non mi ripeterò qui per dimostrare ancora una volta l’errore psicologico della commissione: mi pare di aver dimostrato abbastanza il pericolo di concorrere ad accrescere vieppiù il numero dei candidati in attesa d’impiego. Piuttosto ora dimostrerò che la pretesa utilità sociale del ginnasio non è l’utilità di tutto il paese, ma l’utilità parziale di alcune poche famiglie di abbienti e che però il mantenimento del ginnasio e una ingiustizia consumata a danno della maggioranza della popolazione tempiese.

La media annuale dei licenziati del nostro ginnasio è di nove circa, e di questi nove due terzi proseguono gli studi liceali, e l’altro terzo costituisce il contingente dei concorrenti ai piccoli impieghi. Sono quindi abbastanza pochi i figli di artigiani e di contadini proprietari che ottengono la licenza ginnasiale. Su 107 licenziati dall’anno scolastico 1885-86 al 1897-98, 58 seguirono i corsi superiori e si laurearono 43; 22 seguirono la via degli impieghi e di essi 15 sono già impiegati stipendiati, la maggior parte come vice-cancellieri; gli altri non hanno ricavato nessuna utilità dal loro titolo. Ma non tutti i licenziati sono giovani di Tempio: forse appena una metà è data da giovani tempiesi. Dimodoché il comune di Tempio deve spendere annualmente 14.000 lire circa per fare risparmiare alcune migliaia di lire a 3 o 4 famiglie del paese.

E qui la commissione potrebbe osservare, come fa altrove per altra ragione, che le 14.000 lire rimangono in paese e che quindi non vengono sottratte alla massa di ricchezza della comunità. Sarebbe troppo pedestre questa osservazione perché valga la pena di discuterla: qui non si tratta di vedere se i danari che il comune spende per il mantenimento del ginnasio vengano consumati fuori od in paese, ma si tratta di sapere se questi danari sono spesi con beneficio di tutta la popolazione e se non potrebbero essere spesi meglio. Ma proseguiamo. La media dei giovani che dal primo corso arrivano alla licenza è appena del 21%, cioè a dire che quasi i quattro quinti dei giovani inscritti al primo corso non possono conseguire la licenza. Né io voglio indagare la ragione per la quale tanti giovani non possono compiere i corsi ginnasiali, essendo evidente che più che la impotenza intellettuale è la impotenza economica che costituisce l’impedimento. Ragione che si rende anche più evidente se consideriamo l’andamento del numero degli inscritti al primo corso ginnasiale.

Ecco l’elenco del numero degli inscritti dal 1885-86 al 1899-900:

Anno scolastico

Iscritti al 1° corso

Iscritti al 5° corso

1885-86

40

3

1886-87

64

5

1887-88

50

11

1888-89

40

9

1889-90

47

10

1890-91

-91

51

1891-92

25

12

1892-93

27

12

1893-94

21

11

1894-95

28

9

1895-96

32

10

1896-97

32

9

Anno scolastico

Iscritti al 1° corso

Iscritti al 5° corso

1897-98

30

10

1898-99

32

5

1899-900

26

15

Questo numero abbastanza grande nei primi anni, dal 1891-92 va sempre facendosi più piccolo per le peggiorate condizioni economiche dei piccoli proprietari delle vigne. E questa diminuzione potrebbe forse anche significare l’effetto della esperienza, la quale ha dimostrato che dopo parecchi anni di studio per aver la licenza ginnasiale, le condizioni del licenziato non erano molto buone né le speranze dell’avvenire molto liete. E questo fatto del discreto concorso di giovani nei primi corsi si spiega anche perché mancano altre scuole alle quali i piccoli possidenti possano mandare i loro figli ad acquistare un poco d’istruzione secondaria.

Ad ogni modo è evidente che la grandissima maggioranza dei fanciulli di Tempio inscritti al ginnasio non arriva a prendere la licenza; e quindi viene a mancare per più quella tenue utilità del diploma nei concorsi agli impieghi, che tanto declama la commissione.

Ma qui torna in campo il carattere dell’istruzione impartita nelle scuole ginnasiali, la quale, come abbiamo visto più sopra, non dà ai giovani un sussidio, una guida utile nella vita pratica. Perché tutti quei fanciulli, che non possono compiere tutti i corsi ginnasiali fino al conseguimento della licenza, rientrano nella vita di famiglia e diventano o artigiani, o contadini o commercianti. Or quale vantaggio, quale utilità arrecano loro gli studi ginnasiali nell’esercizio della vita pratica, dell’artigianato, del commercio, dell’agricoltura?

Evidentemente un vantaggio molto meschino, ché le nozioni di latino e di greco poco servono all’esercizio di un mestiere o dell’agricoltura.

La scienza entra come un accessorio negli studi ginnasiali e tutto il tempo è dedicato allo studio del latino e del greco. Alla regina dell’intelletto e della moderna civiltà, come scrive il Sergi, non si dà negli studi classici quel posto che le compete, perché, per ignoranza o per fatale tradizione divenuta sentimento, non si vede in essa quella che nell’educazione ha la maggiore efficacia, che educa all’osservazione, al buon senso ed alla verità, che dà il senso pratico ed arricchisce la mente di cognizioni utili alla vita.

Di qui la necessità che a questi giovani si dia una istruzione capace di utilità pratiche, una istruzione consona all’esercizio dei vari mestieri e delle varie occupazioni cui si dedicheranno in seguito perché scopo della pubblica istruzione deve essere principalmente quello di preparare gli alunni alla vita che devono vivere. Epperò lo spendere una egregia somma per mantenere una scuola la quale torna di vantaggio solamente a quei pochi che possono proseguire gli studi, mentre i tre quarti della popolazione non ne ritraggono utile alcuno, non è equo né giusto. Tanto più quando questa somma potrebbe essere spesa per la istituzione di un’altra scuola che tornasse di vantaggio a tutto il paese.

Ma qui fa capolino anche un’altra questione di interesse regionale. Del ginnasio possono godere solamente gli abitanti di Tempio e non i pastori. Eppure la gente di campagna costituisce la maggioranza della popolazione e concorre in maggiore proporzione anche al pagamento delle imposte comunali senza averne alcun vantaggio. E questa ingiustizia verrebbe tolta quando fosse fondata una scuola complementare e professionale che gioverebbe a tutti.

Il lustro ed il decoro della patria, di cui ci introna le orecchie la commissione, sarebbero assai maggiori se tutta la gioventù tempiese e gallurese fosse rinnovata da una educazione nuova, se fosse ammodernata da una scuola moderna.

Che valgono il lustro ed il decoro del paese rappresentati da tanti laureati, dei quali qualcuno forse riesce ad uscire dalla mediocrità, di fronte all’insufficienza di tanti, della popolazione nell’esercizio della vita pratica? La civiltà presente è tutta industriale, e la ricchezza delle nazioni e dei popoli non è certamente data dal maggiore o minore numero di laureati e impiegati, ma piuttosto dal numero dei cammini che fumano negli opifici e nelle officine.

La ricchezza di un paese non sarà mai data dalle occupazioni improduttive, come sono le professioni libere e gli impieghi: ma dall’abilità e dall’attività degli operai che trasformano in valori di utilità e di comodità la materia grezza della natura. E noi contro l’indirizzo dei tempi e contro il bisogno del paese ci ostiniamo a difendere una istituzione la quale non fa che dare una pennellata di lucida vernice al legno roso dal tarlo. Mentre il paese si esaurisce nell’inerzia, mentre l’economia regionale cade sempre più nel baratro del fallimento, mentre la miseria cresce, noi siamo superbi di poter sciorinare innanzi al mondo, innanzi alle regioni sorelle, il numero dei laureati, dei professionisti e degli impiegati che onorano il paese.

Ma nelle esposizioni industriali e nelle esposizioni agrarie non figurano i nostri prodotti dell’industria e dell’agricoltura perché non ne abbiamo; ma nei registri delle leve e dei matrimoni figurano numerosi gli analfabeti perché più della metà della popolazione manca delle scuole elementari dove possa imparare a leggere e scrivere e apprendere a fare i suoi affari senza l’intermediario dell’avvocato o dello scrivanello. Ma il nostro bestiame muore di fame e di epizoozia per l’incuria e l’incapacità dei nostri allevatori, ma i nostri olivastri cadono vittima della scure vandalica dei pastori, ma i nostri sugheri vanno fuori dell’isola per tornarci magari lavorati e trasformati in più bella veste! Il nostro contadino lavora la terra coi sistemi preadamitici; il nostro pastore manipola il formaggio ancora barbaramente, il nostro vignarolo manipola le uve come al tempo dei romani.

Istituiamo adunque una scuola che sappia scuotere di dosso alle nostre popolazioni quell’inerzia fatale che è madre di miseria, che sappia insegnare al pastore il modo di allevare il bestiame e di manipolare il latte, al contadino il modo di far fruttare di più la terra con minore spesa, all’operaio il modo di perfezionarsi nel suo mestiere, a tutti di volere e di osare. Allora avremo veramente fatto opera di utilità generale e non di classe. Non perdiamo del tempo a baloccarci coi gingilli e colle cianfrusaglie di una retorica che ha fatto ormai il suo tempo: il tempo nostro è quello dell’azione, agiamo dunque.

A completare il quadro dell’istruzione mi resta di ricordare che da qualche anno è stata istituita per conto del municipio una scuola tecnica a La Maddalena. Essa riuscirà certamente di una utilità superiore a quella del ginnasio se la popolazione guarderà ad essa non come ad una scuola che deve fornire un titolo di concorso, ma come ad una scuola che può dare cognizioni molto più utili all’esercizio della vita pratica che non quelle del latino e del greco.

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[1] Siotto Pintor, Storia letteraria di Sardegna, Cagliari, Timon 1843-1844; Pasquale Tola, Notizie storiche della Università degli studi di Sassari, Genova, Tipografia de’ sordo-muti, 1866.

[2] Vittorio Angius, articolo Tempio, in Dizionario geografico storico del Casalis cit. (La voce Tempio, frutto anche degli approfonditi viaggi nel territorio dell’autore dal 1835 al 1838, fu pubblicata nel 1850 nel vol. 20: Serrieres-Torgnon).

[3] Relazione al ministro della Pubblica Istruzione.

[4] V. Vitali, Il progresso educativo.

[5] Giuseppe Sergi, La decadenza delle nazioni latine, Torino, Bocca, 1900.

[6] Camillo Vaccaro, Scuola vecchia e bisogni nuovi, «Rivista popolare», 1902; Raffaele Resta De Robertis, La psicologia della cultura e la pedagogia, «Rivista di filosofa e scienze affini», IV (1902), n. 2.

[7] Carlo Francesco Ferraris. Il proletariato intellettuale. Comunicazione al R. Istituto di Scienze a Venezia, 1903.

[8] Annuario statistico italiano 1900.

[9] Camillo Vaccaro, Scuola vecchia e bisogni nuovi, «Rivista popolare», 1902.

[10] Relazione della Commissione consiliare sul Ginnasio di Tempio.

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