Introduzione

di Francesco De Rosa

AL CORTESE LETTORE

La moderna civiltà – affratellando i popoli restringendoli in una sola famiglia, accumunandone gl’intenti e le aspirazioni, generalizzando gli usi e i costumi, i quali, come i raggi che partono da un faro comune irradiano attorno l’ambiente, così dai grandi centri si divulgano nelle più lontane plaghe terrestri – fa sparire lentamente sì, ma senza interruzione, gli usi e i costumi, le superstizioni e le credenze, le leggende e le fiabe, il modo di pensare e d’operare che formano la caratteristica di ogni nazione, d’ogni casta e, diremo, d’ogni famiglia, e che per quanto contrarie talvolta al buon senso e alla ragione e talora addottati dal solo capriccio, formano per conseguenza la parte in cui un popolo mostrasi differente dagli altri non solo; ma palesa quello o la schiatta da cui ha avuto origine.

Prima della proclamazione del Regno d’Italia, cioè prima che la Sardegna entrasse in rapporti diretti coi popoli d’oltremare, erano tuttora vive nella Gallura le istituzioni civili e religiose riferentesi alla vita privata dei cittadini, quali ad essi erano state tramandate, di generazione in generazione, dai popoli, dai quali trassero la primitiva origine; ma dal 1861, con le frequenti relazioni che ebbero ed hanno tuttavia cogli altri popoli d’Italia, quelle istituzioni vennero alterate, subendo importanti e radicali modificazioni, tali da far loro perdere non solo l’impronta primitiva; ma di confonderle in modo irriconoscibile con quelle dei popoli continentali.

Poiché, non v’è dubbio, i costumi d’una regione sono la parte più importante della sua storia: avvegnacché non si può studiare il ritratto di essa, né il maggiore o minore progresso fatto nelle arti, nelle scienze e nelle lettere attraverso i secoli, se non studiando quale sia stato in ciascuno di essi il suo genio dominante e la sua morale, cioè i sentimenti e le idee che ha tratto dai vizi e dalle virtù proprie, sui quali fondava i punti d’onore, i doveri di società e di convenienza e i suoi mistici rapporti colla divinità; mentre ognuno deve plaudire all’opera umanitaria della civiltà moderna, deve far voti perché il ricordo sia conservato di ciò che formava il patrimonio più sacro d’ogni popolo, la conservazione, cioè, delle avite tradizioni.

Gli Inglesi furono i primi a riconoscere questa necessità, onde con insolito fervore si sono dati a raccogliere quanto aveva rapporto alla vita pubblica e privata dei loro padri, per timore che le crescenti generazioni e i tardi nipoti, allevati e cresciuti in un ambiente nuovo e in un modo di vivere e d’operare tutto diverso, la memoria perdessero degli usi e della vita degli avi. L’esempio degl’Inglesi venne seguito in Italia dal Pitré e dal De-Gubernatis, i quali, facendo appello ai volonterosi di tutta Italia in apposite riviste n’andarono pubblicando le tradizioni popolari.

Pregato da quella colta e gentile signorina, vanto e lustro della sarda terra che tutti conoscono nei suoi geniali e ponderati studi, Grazia Deledda, io pure diedi alla Rivista diretta dal De-Gubernatis il mio modesto contributo, limitandolo al mio paese nativo, Terranova Pausania, sperando che altri più colti e più versati di me in materia folklorica, imprendessero a raccogliere e pubblicare le tradizioni della rimanente Gallura. Fu vana ogni speranza!

Benché alcuni anni sieno trascorsi, e quantunque la Gallura vanti eletti ingegni, in materia versatissimi, i quali egregiamente e in modo da coglierne infinito plauso e fama grandissima, potevano farlo, non v’è stato finora chi abbia voluto accignersi alla patriottica opera. Onde vedendo io con dolore, che, persistendo in codesta biasimevole noncuranza ed apatia, non s’andrebbe a lungo che non vi sarebbe persona, per quanto volenterosa, cui potesse farlo – poiché la morte, menando la sua inesorabile falce, avrebbe tolto di mezzo le fonti da cui si potevano attingere le necessarie e veridiche informazioni – mi sono deciso raccogliere alla bella meglio le memorie dei miei avi, fidente che, per quanto esposti in istile scorretto e disadorno, i miei corregionali vorranno apprezzare, se non l’opera, il mio buon volere.

Se altro merito non avrà il mio lavoro, avrà forse quello di spingere qualcuno, di me assai più valente, a scrivere un’opera della mia più ponderosa ed accurata. Io mi terrò pago d’essere stato colui che nel pubblico edifizio ha posta la prima pietra, lasciando che altri s’abbia intero il vanto di innalzarlo dalle basi, in modo che non solo corrisponda all’estetica, ma a quella d’una solida stabilità. Dal canto mio, in quel poco ch’io ho fatto, mi sono attenuto alla più scrupolosa verità e alla più rigida imparzialità; sì nel riportare gli usi e costumi dei popoli galluresi, sì nell’accennare presso quali popoli erano comuni od ebbero origine.

 

Terranova Pausania, 1 luglio 1899

Francesco De-Rosa

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