Inimicizie e paci
di Francesco De Rosa
Oh le inimicizie…! piaga terribile che da molti secoli ha funestato la Gallura, rinomata per il ferreo carattere e lo spirito d’indipendenza dei suoi abitanti, dove la vendetta è generalmente considerata come un naturale retaggio a cui nessuno può esimersi se non vuole avere la taccia di vile e snaturato: piaga terribile che ha insanguinato con tanta frequenza le campagne, le vie, perfino le case domestiche, decimando e spesso facendo scomparire interamente famiglie numerose, spinte a distruggersi a vicenda da un falso amor proprio e dal demone della vendetta.
E non solo quelli delle fazioni contrarie, ma anche gli amici cadevano spesse volte vittime dell’odio efferato dell’una quando si sapeva o si sospettava che avessero parteggiato per gli avversari. Vien difficile contare quanti dovettero abbandonar tutto – i parenti, gli amici, la casa natía, le avite o acquistate ricchezze, andando esuli in continente o nella vicina Corsica o in altri paesi dell’isola – per sottrarsi al piombo micidiale degl’implacabili nemici.
E con le famiglie distrutte ed esiliate scomparivano le ricchezze private; poiché le terre, un tempo così fertili e produttive, si lasciavano incolte, il bestiame, vagando senza guida e senza cura, s’inselvatichiva, e con le famiglie scomparivano e diventavano deserti i villaggi, al punto che di tanti che la Gallura ne contava nei secoli scorsi, ne sono rimasti solo nove sopra una superficie di 215.457 ettari di terreno.
A dare origine ad una inimicizia – che si tramandava da secoli di padre in figlio, rafforzata e continuata dalle nuove vittime dell’una e dell’altra parte che a intervalli si susseguivano, inacerbita dalle prefiche che nei loro canti funebri rinfocolavano gli animi, spingendoli alla vendetta, portata agli eccessi da un falso sentimento di amor proprio, di vanità e d’orgoglio – bastava talvolta uno sgarbo o l’essersi permesso un atto che la moderna civiltà considera per un tratto di squisita cortesia.
A Terranova bastò che un brigadiere desse uno schiaffo a una patrizia (Marianna Putzu) che si rifiutava di porre fine agli abbracci al marito catturato, e a un giovane d’essersi permesso di stringere la mano ad una fanciulla, perché l’uno e l’altro cadessero il giorno seguente colpiti da mano vendicatrice.
Per non dire quanto dessero a pensare al governo, alla magistratura [nel testo «giustizia»] e alle autorità politiche della provincia le frequenti e numerose inimicizie che affliggevano la Gallura, e come riuscissero inutili i loro sforzi per sedarle ed estinguerle per sempre. Pertanto nella loro impotenza ricorrevano spesso ai vescovi, ai parroci, ai cittadini più illustri e agli amici comuni alle fazioni contrarie per tentare la conciliazione, e non di rado dopo infinite pratiche riuscivano a pacificarle.
Più che gli uomini si mostravano restie a concludere le trattative le donne, temprate non meno di quelli ai forti e fieri propositi e, in quanto spesso le più affezionate, anche le più interessate a vendicare l’assassinio dei loro cari estinti.
Quando le due fazioni, dai più stretti parenti ai più lontani, si erano convinte a pacificarsi, si fissava il giorno e il luogo (il quale era di solito una chiesa campestre se timorosi di cadere nelle mani della forza pubblica, o il villaggio se avevano in precedenza ottenuto il salvacondotto oppure i reati di sangue erano caduti in prescrizione) nel quale la pacificazione doveva aver luogo.
Nel giorno stabilito vi accorrevano le due parti: gli uomini armati di tutto punto, come se non avessero appuntamento in un luogo di concordia e di ravvedimento ma per un premeditato assalto, e le donne sulle groppe dei palafreni o pedestri, vestite a gramaglia, gementi e lacrimose, come se non si avviassero in un luogo di rimpianto e di conforto ma a piangere sulla salma di un caro estinto.
Giunti all’incontro gli accorsi si dispongono in due fila o siedono in due distanti parti, silenziosi e foschi come se nelle loro menti non fosse neppure passato un pensiero di pace, sbirciandosi a vicenda come se volessero spiarsi i movimenti o temessero d’essersi lasciati attirare in qualche vile tranello.
Intanto i pacieri che li hanno accompagnati, preceduti o seguiti, si frammettono fra le due fazioni, tutt’occhi e tutt’orecchi per cogliere indizio o parola che possa indicare ripensamento, e, dove sia sopravvenuta qualche contrarietà, cercando di appianarla sollecitamente.
Al tocco della campana che dà il segnale di incontro, entrano le due fazioni: quella che fu per prima offesa, poi l’avversaria, disponendosi in due righe, l’una a destra, l’altra a sinistra dell’altare, ed in ultimo i pacieri, che si affaccendano da entrambe le parti perché tutti si mostrino perseveranti nella presa risoluzione.
Intanto il parroco dal pulpito, o il vescovo dal suo scanno, improvvisano un sermone adatto alla fausta circostanza. Tratta in linea generale dell’inimicizia riportando numerosi esempi di come famiglie, popolazioni, governi e nazioni, dalla prosperità e dalla grandezza caddero in basso stato e nella più squallida miseria, scomparendo talora dalla faccia della terra odiandosi, combattendosi, dilaniandosi, distruggendosi a vicenda.
Passa poi a parlare degli orrori dell’attuale inimicizia, enumerando ad uno ad uno i miseri caduti, con la perdita dei quali mancò un valido sostegno alla famiglia, una bella speranza ai parenti, un conforto ai vecchi genitori, e poi le spose rese vedove e teneri e innocenti figli tutti gettati nel presente dolore e nell’affannosa incertezza del domani. Rammenta le persecuzioni patite o per odio di parte o per opera della magistratura [nel testo: «della vindice giustizia»], costringendo coloro che si erano cosparsi di sangue nemico, o che si erano resi colpevoli di altra azione malvagia, a vivere una vita randagia nelle solitudini delle foreste, sulle sommità di erti e inospitali monti, nell’oscurità degli antri, nel folto dei macchioni: spesso senza mangiare e senza abiti adeguati alle stagioni; senza poter concedere riposo al corpo e poter serenamente dormire a causa del continuo timore di venire sorpresi dalla fazione nemica o dalla forza pubblica che si vede o si teme d’aver sempre alle calcagna; lontani dalle mogli e dai figli che a volte vivono nella più grave miseria e nell’ansia continua che possano salvarsi da un assalto dell’Arma o da un agguato nemico; spaventati di ricevere d’ora in ora il triste annunzio dell’uccisione o della cattura dei profughi loro cari.
Narra il fatto che diede origine all’inimicizia scemandone la gravità e deplorando che per una cosa di così poco conto, così facile ad appianarsi se si fosse venuti ad una reciproca spiegazione, magari chiedendo ed accordando un’adeguata riparazione, si sia ricorso a mezzi estremi senza prevederne e misurarne le dolorose conseguenze.
Espone i benefici della pace, la quale sola rende l’animo quieto e incline al bene, la mente tranquilla ed incapace di concepire un pensiero che non sia nobile ed elevato, dimostrando come dalla concordia, dalla reciproca amicizia, dalla mutua cooperazione provenga il benessere materiale e morale delle famiglie, la prosperità e la grandezza delle nazioni.
Dice dell’obbligo che hanno i cristiani di perdonare le offese ad imitazioni del Divino Redentore che perdonò i suoi crocifissori; dei martiri che spirarono in mezzo ai tormenti proferendo parole di perdono per i loro spietati carnefici. E aggiunge che nessuno presuma di poter ottenere, senza perdonare chi l’offese, misericordia dall’eterna giustizia; ché senza perdonare, non solo uno non può accostarsi al tribunale della penitenza, ma neppure entrare in chiesa, poiché all’altare bisogna presentarsi col cuore puro e non già col pensiero della vendetta e coll’anima amareggiata dall’odio, intrisa di sangue, continuamente agitata dal demone della discordia, della distruzione e delle stragi.
Quindi soggiunge abilmente che anch’essi – raccogliendo quella divina ispirazione che li ha condotti ai piedi dell’altare per deporvi ogni pensiero di sangue e dal cuore ogni sinistra e funesta passione – devono perdonarsi reciprocamente i torti ricevuti, dimenticarli e vivere nel più dolce e cordiale accordo fraterno, affermando che questo è il voto più ardente di tutti, dei presenti e degli assenti, dei vicini e dei lontani, dei ministri di Dio e di quelli della giustizia terrena, di tutto un popolo che aspetta con ansia la felice conclusione di un dramma sanguinoso e la pacificazione fra due cospicue famiglie.
Termina esortandoli – in nome di Colui che si offerse in sacrificio per il riscatto dell’umanità, di Colui che potendo con un batter di ciglio vendicarsi, annientando i suoi nemici, volle non solo perdonarli ma proclamarli suoi figli – a darsi il bacio della pace e del perdono: minacciando l’anatema e la maledizione divina contro coloro che volessero persistere nell’odio antico, e tentassero con le parole e coi fatti turbare la pace stabilita.
Grandioso è lo spettacolo d’osservare le sensazioni che si leggono nel volto di quei fieri nemici, dei movimenti e dei gesti che imprimono alle loro membra, delle pose ora altere e minacciose, ora severe e gravi, ora compunte ed umili, mentre all’orecchio giungono indistinte voci d’odio, di rammarico e di perdono.
Quando il ministro di Dio parla delle inimicizie i loro occhi lampeggiano d’odio intenso, illividiscono le facce per il mal represso sdegno, fremono le membra, come se muovessero allo sterminio della parte avversa: un brivido corre per le ossa di tutti mal soffrendo l’aspetto del nemico: si odono accenti d’ira, strida rabbiose, gemiti sospiri e pianti dei vecchi, dei giovani, degli uomini, delle donne, perfino dei fanciulli che vedono dirimpetto, a breve distanza, gli uccisori dei loro padri, dei figli, dei mariti, dei cari congiunti, senza poter spianare contro di loro l’arma micidiale, senza poter fulminarli almeno cogli occhi.
Quando però il sacerdote passa a parlare dei benefici della pace, ai sentimenti d’odio e di vendetta, subentrano nei loro cuori sentimenti migliori: sparisce la cupezza dalle loro fronti, che si spianano, rischiarandosi all’idea della pace; si sollevano le corrugate sopracciglia, s’addolcisce l’occhio e la pupilla s’allarga per vedere più distintamente quegli esseri che erano poco prima oggetto d’orrore, ed ora di commiserazione e d’amore, e prorompono in sospiri, grondano lacrime ristoratrici, s’apre il cuore ai dolci sentimenti del perdono e dell’amore. E mentre il sacerdote parla della necessità di pacificarsi, dell’obbligo di perdonarsi, s’impossessa in tutti il desiderio ardente di darsi il bacio della pace e, quando a due a due vengono chiamati per ricevere il perdono dai principali offesi, vi accorrono volenterosi, stringendosi in un tenero abbraccio e baciandosi ripetutamente, mentre pronunziano le rituali parole: Comu ti paldonu éu, cussì ti paldonia Déu (Come ti perdono io, così ti perdoni Dio). E così allo stesso modo anche gli altri si scambiano fra loro il bacio e le parole del perdono.
Quindi tutti si frammischiano insieme fraternizzando, sicché da fuori si direbbe che tra loro non ci sia stata mai alcuna causa di dissidio e di rancore, e che all’opposto siano vissuti nel più cordiale e ammirevole accordo.
Usciti da chiesa vanno a sedere fraternamente a banchetto, in cui prendono posto prima i capi delle fazioni e poi man mano gli altri in ordine di grado parentale, in modo che nello stesso ordine si trovino uno a fianco dell’altro quelli della contraria fazione. Nessuna parola esce dalle loro labbra che alluda lontanamente alle cause ed ai micidiali effetti della reciproca inimicizia; ma, come se si sia interamente cancellata dalla mente la memoria delle cose passate, trattano gli uni cogli altri con quello stesso amore, con quella stessa confidenza che si vede fra le persone educate e strette dai vincoli della più cordiale amicizia.
Frattanto si ridestano gli affetti che la sopravvenuta inimicizia aveva sopito e sbocciano nuovi amori: giovani e fanciulli simpatizzano e manifestano con furtive occhiate e ingenui scherzi il voto ardente del loro cuore; i padri s’impegnano per i figli piccoli che non dovranno fuori delle due famiglie stringere parentela, e molti danno o ricevono parola di comparatico.
Dopo aver mangiato, cantano, ballano, tirano al bersaglio e fanno frequenti spari con quegli stessi fucili che essi credevano di non dover adoperare che per uccidersi l’un l’altro.
In ultimo si accommiatano dalle autorità religiose, militari e civili, e si scambiandosi doni si separano con le più affettuose manifestazioni d’amicizia ritornando ognuno alla propria abitazione. Vi fu un tempo in cui si eseguiva anche la così detta “danza del sangue”, in cui i capi delle fazioni si obbligavano con giuramento d’impedire e di punire le ingiurie che qualcuno tentasse o consumasse a danno della parte avversaria, concedendo agli offesi, qualora non lo facessero, di vendicarsi sopra di loro.
Le paci erano religiosamente osservate tanto che non vi è mai stata ragione di rottura da parte d’alcuno, anche quando vi furono certi che non consentirono né intervennero alle paci: essendo in questo caso tenuti in soggezione dall’autorità degli altri parenti e dal pensiero dell’onta che sarebbe ricaduta su tutto il parentado.
Le ultime paci vennero conchiuse tra la famiglia Pittòrra e quella dei Quaglioni nell’agosto del 1884 nella chiesa di San Simplicio in Terranova: con intervento dei vescovi di Tempio e d’Ozieri, del Prefetto di Sassari e del Maggiore dei RR. Carabinieri.
Gli esempi di inimicizia presso gli antichi popoli sono infiniti e tra di loro correvano spesso trattative di pace, per interposizione di comuni amici, la quale non di rado veniva, col beneplacido di ambe le parti, felicemente conchiusa. È noto che Nestore, Ulisse e Fenice (Omero, Iliade, IX) s’interessarono grandemente per metter pace tra Agamennone e il fiero Achille e che Gionata mise tutto in opera per stabilire la pace tra il padre Saulle e l’amico Davide.