PER GENTILE CONCESSIONE DELL’AUTORE E DELL’EDITORE, GALLURA TOUR E’ LIETA DI PRESENTARE LA SEGUENTE ANTEPRIMA DI

IL SENTIERO DEGLI STAZZI

[Tra ARZACHENA, CANNIGIONE, MONTI DI MOLA e COSTA SMERALDA]

testo e foto di

Giuseppe Contini

Sassari, Carlo Delfino, 2024 ⇒

Presentazione di Guido Rombi ai lettori di GalluraTour

L’Autore, che è anche un appassionato e valente fotografo, cammina lungo i sentieri rurali del Comune di Arzachena e medita sul nemmeno tanto vecchio passato della civiltà degli stazzi (quello della sua infanzia e adolescenza), sull’impetuoso cambiamento determinato dal principe Karim Aga Khan con la realizzazione su gran parte di quelle stesse terre della Costa Smeralda (per la quale lavorò come chef stellato), e sul futuro sempre più incerto via via che va perdendosi il lascito della civiltà degli stazzi e quello del Principe e dei suoi fondatori.

E’ la testimonianza non di un intellettuale o studioso, ma di un lavoratore di altra e molto diversa professionalità, legato fortemente alla sua terra: il suo intento non è di riflettere con le lenti del sociologo e dell’antropologo sul dualismo civiltà degli stazzi / Costa Smeralda, ma solo di raccontare il suo personale rapporto con i due mondi. E si coglie che per l’Autore, finché la Costa Smeralda era guidata dal Principe, il mondo degli stazzi seppure dismesso e alienato per una gran quota per realizzare il favoloso progetto turistico mondiale non era percepito come irrimediabilmente perduto o lontano o in antitesi con quella “sua” Costa Smeralda.

Alcuni potrebbero ravvisare una certa contraddizione in questa percezione, forse viziata dalle due diverse età anagrafiche dell’Autore: di un giovane in carriera negli anni della nascita della Costa Smeralda, e di un adulto un po’ anziano oggi, con tutte le differenze emozionali e psicologiche insite nelle due distanti fasi della vita. Ma non è un peccato questo eventuale “vizio”: semmai un tratto pur esso sociologico di cui tener conto. E non è improbabile che in questo “vizio”, in questa percezione nei sentimenti dell’Autore si riconoscano oggi in tanti. E’ anzi il primo buon motivo per cui vale la pena di leggerlo questo libro.

E poi ce n’è un secondo per prenderlo in mano: le tante belle immagini di stazzi e le tante pagine, dense di sentimento e fascino, scritte come riflessioni e confidenze personali che subito “prendono” il lettore, dedicate a quel mondo (che sono la parte più estesa del libro). Quel che viene riportato in questo estratto è solo una piccola parte, di testi e foto. E se già crediamo piacerà quel che qui viene proposto, immaginate il bello che è ancora da leggere e vedere! Complimenti a Giuseppe Contini, Chef di rango e davvero bravo scrittore.

Il sentiero degli stazzi, di Giuseppe Contini

Quando arrivo a uno stazzo con la mia fotocamera e oltrepasso il cancello, il silenzio è totale. Mi fermo ad ascoltare quel silenzio, il fruscio del vento leggero che sale dalla vallata e mi accarezza il viso e la fronte. Il luogo è avvolgente e mi inebria di una sensazione profonda. Riscopro in un attimo la forza di quei luoghi, il magnetismo di questa terra. Mi sento ricaricare di un’energia potente, la percepisco entrare attraverso le narici e accarezzarmi la pelle. Mi fa luccicare gli occhi. L’aria è serena e profumata, un profumo che si crea con le erbe particolari che crescono qui. Tutto in questa mia terra è speciale. Nei ricordi ancora vivi, è come se tornassi giovane a sentire l’abbaiare del cane, i campanacci delle mucche al pascolo, il vociare in lontananza del pastore Zabé Zabé. Ma tutto ciò è solo un ricordo, un’immagine della mia mente. Ora regna la solitudine intorno a me. […]

Stazzo Monti di Mola, di Giuseppe Contini
Stazzo Lu Mulinu, di Giuseppe Contini
Stazzo Lu Postu, di Giuseppe Contini
Stazzo Brainotoggiu, di Giuseppe Contini
Stazzo L'Imbruccatu, di Giuseppe Contini
Stazzo Lu Branu, di Giuseppe Careddu
Stazzo Rèna, di Giuseppe Contini
Stazzo Sant'Elena - Santa Lena, di Giuseppe Contini

La dimora dello stazzo è conosciuta come un tipico insediamento rurale del nord della Sardegna. Generalmente si trova in una posizione dominante, vicino alle coste o nell’entroterra, lontano dalle vie di comunicazione. La posizione elevata in un orizzonte infinito tra mare, terra e cielo è un antico retaggio della posizione di guardia a tutto il podere. Quando possibile, lo stazzo affiancava promontori rocciosi o grotte naturali per ripararsi dai venti di ponente e maestrale, che soffiano forti in inverno e all’inizio della primavera; assieme alla tramontana, sono una costante di questa terra. […]

La casa dello stazzo comunque era il cuore di una proprietà nella quale si animava un sistema socioeconomico del tutto autonomo, simile per alcuni aspetti a quelli medioevali. […]

Stazzo Liccia Suara, di Giuseppe Contini
Stazzo Monti Ruju, di Giuseppe Contini
Stazzo Chjcculédda, di Giuseppe Contini
Stazzo La Petra bianca, di Giuseppe Contini
Stazzo li 'Itriceddi, di Giuseppe Contini
Stazzo La Litarriccia, di Giuseppe Contini

Trovarmi in queste alture che dominano le vallate galluresi è quanto di più emozionante io possa provare, il mio sguardo fugge lontano verso l’orizzonte; l’immensità è totale. Il panorama si apre davanti a me con splendide vallate e maestosi graniti di Gallura che si stagliano in lontananza lungo la linea dell’orizzonte. Accompagnano il mio sguardo figure dai tratti sinuosi e sfuggenti, a volte netti e ben definiti che diventano scuri e tenebrosi al calar della sera. I colori pastello si diluiscono in sfumature, passando dal grigio dei graniti al verde scuro dei ginepri marini, la jacia. Man mano che la luce della sera si affievolisce, diventano di un verde scuro miscelato al blu delle colline, in un orizzonte infinito di colore celeste cenere. Riempiono i miei occhi e la mia anima di emozioni.

La macchia mediterranea di lentischio e di cisto, con il profumo del mirto e del ginepro, nella primavera gallurese esplode in una fioritura maestosa. La natura rinasce su queste valli. Le ginestre, nei colori gialli e i verdi pastello, mescolano il loro profumo intenso con la brezza del mare profumata di salmastro. M’inebrio e mi unisco ad essa diventando parte di questa natura. Percepisco sulla mia pelle una sensazione di benessere che mi invade, mi sento immerso in una natura che mi avvolge, mi plasma, mi cristallizza. Avverto la consapevolezza di vivere nei boschi di olivastro selvatico, Lussichéddu, il ronzio delle api, i calabroni e gli uccelli che qui trovano una natura intatta e incontaminata, ricca di fiori e bacche; un tempo queste valli furono bionde di grano.

In un passato ormai lontano, si udivano le voci del pastore radunare il bestiame. Ora regna il silenzio, le vallate sono avvolte e impreziosite dalla natura selvaggia. Il fruscio del vento tra gli anfratti delle pietre, i ginepri secolari e il pino marino che sfiora le rocce le avvolgono, modellandosi con esse alle sferzate del maestrale, schiacciandosi su di esse come una coperta, quasi a nasconderle, rendendole alla vista un unico tappeto di colore verde. Solo le creste granitiche spuntano da questo tappeto, mettendo in mostra le loro fattezze e le forme create dal vento: figure di animali, visi di persone, oggetti indefiniti. Ogni figura si rappresenta come in un palcoscenico di teatro, con forme interpretative che mi suggestionano, incantano, stupiscono, che nutrono lo sguardo e la mente. Le colline discendono fino alla valle sottostante, lambendo calette di acque cristalline verde smeraldo e azzurro acqua marina. I loro colori si intensificano verso un blu oltremare che apre la mente e il cuore. Le spiagge dorate fanno da cornice, e le onde che fluttuano sinuosamente tra gli scogli protesi su questo mare creano un quadro da pittore eccelso.

Credo fermamente che qui Dio abbia posato la Sua mano. Niente al mondo è tanto bello come in questa mia Gallura. Dio ha creato un paradiso in terra. La Sua forza è evidente, la si sente, la si percepisce, la si vede. Non può essere frutto del caso. Questo angolo di mondo lo ha voluto Dio, questo Signore misterioso che tutto governa.

La Sardegna è quasi un continente, come cita nel suo libro lo scrittore Marcello Serra, un’isola incantata, tanto bella e misteriosa, da non percepirne ancora le origini misteriose. Credevo con una convinzione egoistica che questa sensazione la percepissero solo coloro che qui nascono. Invece no, parlando con stranieri che vengono spesso in vacanza o hanno acquistato una casa qui, mi ritrovo a condividere le stesse sensazioni. Sembrerebbe che questo magnetismo non sia l’egoistica convinzione di noi galluresi unici beneficiari di tanta fortuna, ma anche altri sembrano goderne. Ciò mi dà conferma che nasce da qui il mal di Sardegna.

La pace che respiro in questi stazzi abbandonati è soave e rilassante. Il mio pensiero viaggia indietro nel tempo e, insieme all’immaginazione. cerca ciò che la mia vista non può più fissare. Cerco i segni del tempo passato, i segni di un vissuto nostalgico, di qualcosa d’impalpabile che percepisco nell’aria ma che ora non c’è più. La presenza dell’uomo manca ormai da decine di anni e la solitudine regna da tempo in questo luogo. La stalla è vuota, resti di paglia si trovano in una mangiatoia, un’anta cadente di un portone di ginepro ancora immutato nel suo profumo, con le cerniere di ferro arrugginite che non la reggono più, è divelta di fianco poggiandosi al muro, come se volesse continuare ad essere utile, quasi aspettasse il pastore che venga a serrare la porta alla sera dopo aver accudito il bestiame. Una bicicletta arrugginita poggia sul muro, vicino restano un cerchione appeso, un vecchio armadietto con le porte divelte, un rastrello, un secchio smaltato e una botte per il vino con le assi staccale dal cerchio di ferro che le teneva ferme. Tutto ciò mi dà la percezione del tempo trascorso, di un mondo abbandonato e perduto per sempre. […]

Stazzo Zinnìa, di Giuseppe Contini
Stazzo La Suarédda, di Giuseppe Contini
Stazzo l'Avru Biancu, di Giuseppe Contini
Stazzo Lu Paluneddu, di Giuseppe Contini
Stazzo Antuneddu, di Giuseppe Contini
Stazzo Lu Fraileddu, di Giuseppe Contini

L’emozione è tanta nel vedere e fotografare questi stazzi, rappresentano il ricordo di una vita tanto genuina e sincera. Mentre inquadro un armadio a muro, una mensola, una porta, percepisco la presenza di coloro che li hanno abitato, il loro orgoglio, e penso che non siano andati via. La loro forza è rimasta in quel luogo dove hanno vissuto e in quei campi dove hanno lavorato. In queste terre, così selvagge e inospitali, hanno creato economia, dando valore alla loro vita e a quella della loro famiglia, costruendo l’avvenire per i figli.

Ho vissuto così intensamente quegli anni da averli stampati nella mia memoria. Con tristezza penso di aver perso molto di questa cultura. Percorrendo i sentieri di campagna, gli stazzi ancora vissuti sono ormai pochi. Incontro due anziani che hanno trascorso la loro vita in campagna. Le forze ormai sono venute meno. Accudiscono solamente pochi capi di bestiame. Mi dicono di recarsi in campagna più per passare il tempo che per economia produttiva. Da anni non seminano più grano né orzo, solo un piccolo erbaio per pochi capi di bestiame. Parlando con loro traspare tutta la loro tristezza nel rassegnarsi al declino irreversibile dello stazzo. Loro, che hanno sacrificato la vita per custodirlo e curarlo con fatica, esprimono il proprio rammarico in una frase: “I giovani non hanno voglia di intraprendere un lavoro sacrificato come questo”. Li ciòani no ani gana di fa chista ‘ita, lu trabaddu è pisanti umbé. Un lavoro pesante che impegna tutta la giornata. Ci sarebbe ancora la possibilità di un giusto guadagno, ma i giovani non lo ritengono adeguato. Gli anziani proseguiranno ancora ad accudire i pochi capi di bestiame fino a quando avranno la forza, poi abbandoneranno: Lacàremu lu locu a lu tèmpu chi venarà e comu andarà. “Lasceremo lo stazzo al tempo che verrà. Seguiremo il tempo come andrà”, così come stanno facendo tutti.

Il tempo che passa inesorabile sorprende il mio pensiero vagare tra un passato nostalgico, caldo, avvolgente, e un presente freddo, incerto e indefinito. Accade qualcosa che mai avrei creduto potesse accadere: rimpiangere quel passato, una vita misera ma orgogliosa, in questo presente pieno di sviluppo, con le sue luccicanti stelline e gli striscioni colorati, che si è rivelato quanto di più incerto e terribile si potesse immaginare. Già, lo sviluppo, quella parola magica che viaggia come un fiume in piena, trascinando via la nostra esistenza, ogni valore sociale e culturale, verso un mare dove tutto si miscela e si diluisce, in un’acqua che non fa percepire più il sapore cristallino di un tempo. Un mare torbido e inquinato porta via i nostri valori assoluti – quei valori che mai andrebbero cancellati da ogni popolo che su questa terra percorre la sua vita –, annienta le nostre radici, estirpa la nostra anima. Un solo rammarico rimarrà in me: non aver avuto la possibilità di acquistare uno stazzo, salvaguardandolo per il futuro. Il mio vuole essere un invito dal profondo del cuore: salvate gli stazzi, la loro cultura e il loro valore sociale, fate in modo che non scompaiano.

Mi auguro che la rosa canina, così fragile con i suoi rami sottili, con le sue foglie scarne e diradate, rifiorisca nuovamente di nuovi boccioli sul piazzale, lu pastrucciali, dello stazzo, libera da cardi e rovi che l’opprimono e la soffocano. Spero che quel terreno roccioso e arido, ma ricco di sostanze nutritive, la rafforzi ancora e che i suoi quattro petali profumati, di un bel rosso vermiglio, rifioriscano più forti di prima.

In un futuro non troppo lontano, gli stazzi non ci saranno più. Gli echi della Costa Smeralda avranno soffocato il loro ricordo come se non fossero mai esistiti, come se non fossero stati l’essenza della nostra terra, della nostra storia. Gli autori di questo evento economico li ha condannati nell’oblio, ha cancellato la loro esistenza, insieme ai valori sociali e culturali, quei valori che ci hanno formati come figli di questa Gallura unica e preziosa. Lo sviluppo effimero annulla e cancella la nostra storia, la serenità che questi luoghi ci hanno donato. […]

Stazzo di Mannéna, di Giuseppe Contini
Stazzo Caldosu, di Giuseppe Contini
Stazzo Lu Spronu, di Giuseppe Contini
Stazzo Lu Monti, di Giuseppe Contini
Stazzo Barrastoni, di Giuseppe Contini
Stazzo Petra Bianca, di Giuseppe Contini

Nel mio girovagare per le campagne alla ricerca dell’essenza della mia terra, ho conosciuto un ragazzo, vista la sua giovane età, ma uomo di fatto e di coraggio. Esile nel corpo ma forte nell’animo, come un Davide della mitologia. Con la barba appena accennata, lo sguardo deciso negli occhi scuri e profondi con fierezza ha intrapreso un’avventura che con il cuore auguro vada lontano. Un guerriero, ripeto, che, come Davide contro Golia, affronta una sfida epocale.

Mentre altri vendono gli stazzi, lui acquista un podere abbandonato di 40 ettari comprendente due ruderi. L’obiettivo che si è posto e che persevera e quello di far rivivere lo stazzo, facendo in modo che non finisca come gli altri stazzi, trasformati in ville per ricchi. Lui vuole riproporre la storia dello stazzo gallurese, che sia portatore di una micro economia e produca benessere.

Quel luogo magico, stazzu la liccia suara “quercia da sughero”, dove il cielo si staglia all’orizzonte verso le montagne bianche della Corsica, è il suo regno. Tra rocce millenarie, foreste di lecci e macchia mediterranea, Valerio trascorre la sua giornata in quel paradiso.

Il sole che sorge lo trova lì, su un altopiano roccioso di liccia suara, dove rimane sino al tramonto ad accudire il suo gregge. Non sente fatica, non percepisce quel lavoro pesante, ma solo gioia di vivere nel godersi la sua terra. Mi sorride mentre percorriamo il podere e mi racconta la scelta di vita che ha intrapreso, consapevole e orgoglioso del fatto che la sua scelta lo arricchisce di valori che, come me, percepisce nell’essenza di questa terra magica.

Lui rappresenta l’avvenire di questa terra di Gallura, il riscatto di una civiltà, di una cultura dimenticata. Piccoli germogli rifioriscono timidamente qua e là, dando speranza che la cultura degli stazzi rinasca.

Ed è così che immagino il futuro dello stazzo: un percorso culturale che faccia conoscere e riscoprire ai visitatori come vivevano qui i pastori 200 anni fa orgogliosi e fieri delle loro terre.

Se ci sedessimo sulla roccia di questo altopiano per contemplare il podere di Valerio, pensando per un istante a come poter vivere in questa natura, non riusciremmo ad immaginarlo. Le difficoltà che questo comporterebbe sono enormi.

Ma proprio questa è la sfida che Valerio ha intrapreso e che sarà il futuro di una nuova microeconomia. Da ex chef di cucina, gli ho suggerito di integrare un’attività ristorativa a km zero, con i prodotti genuini di questa terra incontaminata, ricca e rigogliosa. Ricreando il fascino che sorprende molti turisti, assaporando l’essenzialità di una vita contadina fatta di ciò che la natura ci dona.

Questo è il progresso che immagino possa far restare i giovani mantenendo le nostre terre. Sicuramente non arricchirà, ma farà vivere degnamente chi affronterà questa avventura.

I visitatori che qui vengono a trovarci hanno il desiderio di culture e di antichi valori veri e concreti. Valori ancestrali che emozionino e rasserenino la vita, rendendola semplice, umana e comprensibile. I nostri manni andavano a dormire stanchi dal lavoro, ma non erano stressati.

Stazzo Stilicioni, di Giuseppe Careddu
Stazzo Tineddu, di Giuseppe Careddu
Stazzo Lu Patenti, di Giuseppe Contini
Stazzo Bucchi Toltu, di Giuseppe Contini
Stazzo Lu Malchesi, di Giuseppe Contini
Stazzo Andria Cuisi, di Giuseppe Contini

IL NOSTRO FUTURO COMINCIÒ CON L’ARRIVO DEL PRINCIPE KARIM AGA KHAN

 … Ma in quegli anni arrivò la nostra speranza, il nostro avvenire, un sogno chiamato Karim Aga Khan, giovane Principe Ismaelita in visita nelle nostre coste. Fu folgorato da tanta bellezza, si innamorò di questa terra e della sua splendida natura. Nei suoi intenti c’era un’idea geniale: realizzare un progetto turistico grandioso senza eguali, che avrebbe portato la Gallura e la Sardegna alla ribalta del jet set del turismo internazionale. I giornali dell’epoca ne parlavano ampiamente sulle loro pagine, così come le radio. Sembrava tutto un sogno, e lo vivevamo come tale. Presso l’Istituto Alberghiero ci insegnarono tutto in modo accurato. Vi lavoravano come insegnanti i migliori professionisti del settore alberghiero. Terminato il mio primo anno di scuola, mi fu proposto un contratto per essere assunto alla pizzeria “Il Pomodoro”, allora il più prestigioso ristorante di Porto Cervo, dove ora si trova il ristorante “Il Pescatore” proprio sul molo. Vi lavoravano professionisti molto bravi. Per me, ragazzino di 14 anni, fu una notizia stupenda di cui ero felicissimo. Mio padre mi accompagnò al mio primo giorno di lavoro con la sua seicento multipla color verde pisello e tettino nero.

Arrivammo al molo e parcheggiammo davanti alla pizzeria “Il Pomodoro” Ricordo che ci venne incontro il pizzaiolo Adamo Cabula, sempre sorridente e di buon umore. Disse a mio padre: “Signor Contini me ne incarico io di vostro figlio”, mio padre gli diede i miei documenti e il foglio d’abilitazione al lavoro. A 14 anni, capirai, ma eravamo ragazzi forti e robusti, cresciuti bene, una visita medica che constatava la mia sana e robusta costituzione e il gioco era fatto: abile al lavoro. Adamo mi accompagnò in cucina, presentandomi allo chef Altana e agli altri cuochi con un sorriso amichevole. Gli disse di trattarmi bene, essendo di Arzachena e quindi suo paesano. Presi quella raccomandazione come una protezione, non conoscevo l’ambiente. Ma con il tempo li conobbi, si rivelarono tutti molto bravi. Adamo era speciale: il suo sorriso era stampato sul viso come una maschera, non lo vidi mai imbronciato. Faceva la pizza più buona della Costa Smeralda, come diceva anche Tonino il napoletano (u Napulitane), come lo chiamavamo scherzosamente. Tonino suonava la chitarra sul molo, seduto sul muretto davanti al ristorante. Era bravissimo e creava un’atmosfera romantica e unica. Ci allietava le serate mentre lavoravamo.

Andare a lavorare in quel ristorante per me fu fantastico. I clienti più facoltosi prenotavano da noi e le serate in piazzetta erano tante. “Il Pomodoro”, avendo una posizione strategica perfetta, era molto ambito. Cenare a bordo mare godendosi i cantanti che si esibivano in piazzetta era il massimo per quel tempo. Ricordo Teddy Reno, Rita Pavone, il mitico Tony Renis e poi Mike Bongiorno, Johnny Dorelli e tanti altri artisti famosi. La felicità e la serenità che trasmetteva il Principe ci portava ad amarlo. Gli volevamo bene per la sua simpatia e per il suo dolce sorriso. Non vedevamo in lui il padrone, niente affatto, lo si ammirava quasi come un buon amico. Sapevamo che avrebbe donato un futuro prosperoso a quest’angolo di Sardegna, portando benessere a tutti noi e alla nostra Gallura. Lo chiamavamo “Il nostro amato Principe”, tutti ci invidiavano. Non si parlava d’altro che di lui. Ebbi il piacere di vederlo molte volte a cena al ristorante “Pizzeria il Pomodoro”. La sua sobrietà e raffinatezza erano uniche, e sorrideva sempre. Anni dopo, cresciuto come professionista, ebbi l’onore di preparare un buffet gastronomico per Sua Altezza Karim Aga Khan, in collaborazione con il suo chef personale. L’evento si tenne presso il Cervo Tennis Club, nel 1980 dove rappresentavo la cucina come giovane chef. L’anno successivo lo rividi presso l’Hotel Cervo, in occasione di una serata di gala. La sua eleganza e il suo carisma erano di una raffinatezza unica. Ogni volta che pronunciava una parola, il suo viso si illuminava di un sorriso. Non ho mai più visto, nel corso della mia vita, un sorriso che emanava tanta serenità. Non lo dimenticherò mai.

Lui ci avrebbe donato un regalo enorme per il nostro futuro: un’economia prospera. Grandi progetti edilizi e di urbanizzazione venivano realizzati dopo un’attenta analisi del territorio e rispettando la natura, i nostri graniti e la nostra macchia mediterranea. Tutto era studiato accuratamente, i muri seguivano le rocce esistenti e ogni livello del terreno veniva sfruttato come forma architettonica.

Lavoravo tantissimo alla pizzeria “Il Pomodoro”, e alla fine della serata uscivo dalla cucina esausto. Mi sedevo sul bordo del forno che dava sul retro dell’uscita della cucina, poggiando la schiena alla sua parete. Era caldissimo, ma ero così stanco che non ci badavo. Alla fine del mese venivo ripagato per tanto lavoro.

Una mattina, poco prima di pranzo, verso le 11:00 se non ricordo male, Adamo mi chiamò: “Dai, vieni con me. Andiamo a ritirare la busta”. “Davvero? – chiesi sorpreso – Anche la mia?”. “Certo”, rispose ettàndu! Fui felicissimo di sentire queste parole. Ci incamminammo verso il pontile di legno, tutti in ordine e in fila. Seguii Adamo per ritirare la mia prima busta paga. A quel tempo 25.000 lire erano una cifra enorme per un ragazzino di 14 anni. Era il 1968, capirete che non potevo crederci. Davvero si poteva pensare a un avvenire. La stagione durava a lungo, da marzo a ottobre. Era d’obbligo mettersi in fila, poiché ci dirigevamo verso il molo piccolo, sotto la scala che scendeva dalla piazzetta, dove prima c’era il “Ristorante Su Marineri”. Proprio in quel piccolo spazio, al centro, sedeva il signor Bianchi. Adamo diceva: Tuttu biancu, cioè “Tutto bianco” in quanto anche la folta chioma di capelli erano bianchi. Lui era seduto su una sedia, con un piccolo tavolino in legno davanti a sé. Per me era un grande direttore. Ci avvicinavamo composti e in solenne silenzio. Solo Adamo, sempre allegro, faceva battute che facevano sorridere tutti. Mi consegnò la mia busta paga, la firmai, tentai di aprirla per vedere il contenuto, ma il signor Bianchi mi sgridò: “Controlla dopo, ci sono altri dietro di te. Muoviti!”.

All’apertura della busta, contai 25.000 lire. Erano tantissime. La gioia mi sprizzava da tutti i pori. Ero contento e mi sentivo realizzato. A 14 anni, avere un posto di lavoro e uno stipendio così importante era davvero incredibile. La sera, dopo il servizio di 12 ore filate, uscivo stanco ma felice a passeggiare sul molo accanto. Era pieno di splendidi panfili dove i clienti si godevano il fresco, seduti con bicchieroni di long drink, lo li guardavo, ma non potevo sostare davanti ad ammirare quelle enormi barche illuminate da mille luci e ornate da bandierine, poiché i marinai, solerti, mi invitavano a stare lontano. Sembrava strano quel comportamento, io non capivo. Stavo solo ammirando quelle enormi navi con meraviglia. Non c’era nulla di male, pensavo tra me e me: capii, crescendo, che tra me e loro c’era una enorme differenza sociale. Proseguivo la passeggiata sul molo, e più avanti c’era il “Café du Port”, il bar più bello di Porto Cervo. Mentre passeggiavo, udivo la musica provenire dal “Night S’inferru”, la prima discoteca della Costa Smeralda insieme alla “Contra” e a “Pedros”. Numerosi personaggi famosi, tra cui attori e attrici, frequentavano quelle discoteche. Ma dovevi starne lontano, non potevi passare sotto i portici davanti al Night, altrimenti rischiavi il licenziamento. Entrarci non era importante per me, poiché ero solo un ragazzino e non avevo la disponibilità economica necessaria per accedervi. Mi accontentavo di guardare quel nuovo mondo che si affacciava sulla Costa Smeralda, anche solo attraverso la vetrina. Ero ugualmente felice, tutto sembrava fantastico per me, e il sogno si stava realizzando. Mi sentivo partecipe di quell’evento. […]

L’anno successivo fui assunto nel prestigioso “Hotel Cala di Volpe, come apprendista e aiuto cuoco “commis de cuisine”. Non stavo nella pelle per tanta felicità. Quell’hotel a 5 stelle si diceva fosse, in origine, la villa costruita per il Principe Karim, infatti era contenuta nelle dimensioni per essere un hotel, ma restavano evidenti la grande cura e lo stile sofisticato spesi, tanto da sembrare una vera bomboniera. Divenne cosi un hotel esclusivo, uno dei migliori in assoluto. La sua sala da pranzo poteva ospitare solo 40 persone. praticamente come una sala da pranzo in un castello per principesse e lord inglesi che venivano a soggiornare li. Si conoscevano tutti, l’élite della nobiltà inglese passava le vacanze al “Cala di Volpe”. Ed è li che ho imparato l’arte della cucina e la professionalità al massimo livello a cui un cuoco può aspirare. Lo stipendio era molto più alto rispetto all’anno precedente, praticamente raddoppiato: 55.000 lire. Si raccontava che quelle lire fossero davvero pesanti. Mamma mia, sembrava una favola!

Nell’hotel il lavoro era di alto livello, i cuochi provenienti dal continente erano preparatissimi. Una sera prima del servizio, mi chiamò il grande chef Piccinini, “De te vieni qui”, allora ti apostrofavano cosi: “Metti il cappello alto, cambia il grembiule, e vai in sala”. La paura mi staccava i piedi dal pavimento. Il mio compito, nonostante la giovane età, era quello di tranciare la “Canard en croûte davanti ai clienti o tagliare a fettine finissime il Salmon fumé, quest’ultimo davvero prelibato. “Ma chef” obiettai a voce bassissima, “non riuscirò a fare questo lavoro” “Perché?” rispose. “Sei scemo?” “No”, risposi, “Allora vai e muoviti se no ti arriva una pedata”, uscii ma non senza timore. M’accolse in sala il Maître Sergio Volpi, che mi diede coraggio. Mi accompagno al guéridon, dove avrei dovuto porzionare. Le gambe mi tremavano dall’emozione ma poi, osservando attentamente i clienti con lo sguardo basso, mi resi conto che per loro era come se non ci fossi, proprio non mi vedevano. Erano concentrati sulla cena, questo mi tranquillizzò. […]

Tornai all’inizio dell’estate per lavorare nella mia amata Sardegna, presso Hotel Cervo, un hotel molto importante, il centro finanziario dove si svolgevano tutti gli affari legati alla Costa Smeralda. Qui alloggiavano le persone facoltose, attratte dall’acquistare i terreni più belli vicini al mare. Talvolta il Principe organizzava delle grandi feste în piazzetta. Tutti venivano invitati a partecipare. I pastori dell’interno Sardegna arrostivano il rinomato porcetto, piccolo e gustoso lu pulceddu orrustítu. La piazzetta accoglieva tantissima gente, la festa era grande e allegra. Il panfilo del Principe e il veliero “La Croce del Sud” erano attraccati al Molo Vecchio, assieme ad altri splendidi panfili, il cielo era illuminato dai fuochi d’artificio. Era qualcosa di ineguagliabile, uno spettacolo mai visto prima.

Nella programmazione di sviluppo, il nostro amato Principe preparò un mega progetto chiamato Master Plan che prevedeva, tra le innumerevoli realizzazioni ricettive residenziali, nuovi hotel a 5 stelle, un campo da golf per competizioni internazionali sulla piana Razza di Juncu, zona Li Licciaréddi, dove sorgeva lo stazzo di frati Asara, assieme ad un nuovo porto turistico di fronte a quello di Porto Rotondo, dove già sorgeva un porto turistico di Dona dalle Rose.

Con un’impronta collaborativa, si cercò di dare seguito allo sviluppo del Master Plan ideato dal nostro Principe. Un piano ambizioso per sviluppare il turismo in Gallura.

Il progetto prevedeva, con l’interesse crescente per il golf, sport notoriamente praticato da persone facoltose, l’ampliamento di un’offerta turistica orientata ad un periodo dal clima più fresco. Questo avrebbe prolungato il turismo nella bassa stagione. Per questa regione fu considerato un progetto di enorme rilevanza economica. Nuovi grandi hotel di lusso sarebbero dovuti sorgere, creando nuovi posti di lavoro. Il progetto era minuzioso, at tento e ricco di particolari rispettosi dell’ambiente. Il Principe teneva particolarmente al rispetto della natura: costruire dimostrando consapevolezza

la stessa consapevolezza che aveva avuto in precedenza e che veniva riconfermata nel nuovo progetto. Nella sua visione di turismo innovativo vi erano scelte volte a tutelare l’identità culturale della Gallura; prevedeva la realizzazione di un villaggio ed un porticciolo dei pescatori, insieme ad un percorso culturale negli stazzi, voleva mantenere le tradizioni culturali e linguistiche, essenziali per preservare l’identità di una comunità.

Quel progetto negli intenti del Principe avrebbe salvaguardato le nostre tradizioni, integrandole in un turismo giovane e dinamico. Ma purtroppo non andò così. […]

vennero mai meno nemmeno in queste occasioni, ma la Costa Smeralda continuò. Il turismo rispondeva bene, ma le stagioni si accorciavano sempre di più, divenendo anno dopo anno sempre più corte. Fu allora che ci accorgemmo che gli imprenditori che nel tempo si erano avvicendati non ritenevano più conveniente allungare la stagione. Si discusse per anni e tanti furono i progetti. Ogni giunta che s’avvicendo ne fece un capo saldo del proprio programma, si cercarono soluzioni, ma nulla successe, e nulla succede di fatto. Per gli imprenditori sono sufficienti i 3/4 mesi pieni per realizzare il fatturato intero, tutto il resto è noia e spiccioli. Con tutta sincerità, credo che quel benessere che noi ora viviamo, il turismo come lo conosciamo in Gallura, lo ha creato il Principe con la sua intelligenza imprenditoriale. Lui è stato il promotore di questo sviluppo turistico, il volano che in seguito si estenderà a tutta l’isola. Dobbiamo tutto a Sua Altezza il Principe Karim Aga Khan. Senza la sua idea imprenditoriale non ci sarebbe stato sviluppo, non avremmo avuto questa nostra economia, ormai con il fiato corto. Il vuoto lasciato si vede e si sente tutto. In questo vuoto, si insinuano imprenditori che, attribuendosi lo sviluppo del turismo in Costa Smeralda, dimenticano che l’immagine emblematica di tutto questo fu e sarà il Principe. In ogni pur piccola creazione in Costa Smeralda rimarrà sempre e comunque la sua immagine.

Il progetto Costa Smeralda, come era stato immaginato e progettato, si spense come una candela di cera che termina il suo stoppino. Lo splendido scafo dello yacht Azzurra, che troneggiava davanti ai Nuovi Cantieri di Porto Cervo, venne rimosso e spostato chissà dove. Spero non in una discarica, era troppo bello e glorioso per finire così.

E ora eccoci qui, all’epilogo finale, senza futuro, senza più una compagnia aerea nostra, perché anche quella è andata via con il Principe. La nostra cara Meridiana non aveva i nostri colori, ma la sentivamo nostra. Non fosse altro perché l’aveva creata il Principe. Ne vorremmo tanto una tutta nostra che ci tolga dall’insularità in cui viviamo. Che abbia i colori, non dico della nostra Sardegna, che sarebbe stupendo, i nostri 4 Mori, ma non l’abbiamo nemmeno italiana: siamo vincolati a compagnie aeree ogni anno diverse, con voli incerti e con bandi di assegnazione della continuità territoriale continuamente assegnati al filo di lana.

Siamo un’isola dimenticata da tutti, nei secoli tutti ci hanno depredato di ogni nostra ricchezza, portando via tutto e non lasciando nulla che avrebbe potuto esserci utile per crescere economicamente. Qui sono venuti in tutti i secoli, hanno sfruttato le risorse esistenti: legname, ferro, carbone e altri minerali, lasciando briciole di industrializzazione e tanto inquinamento. Ne sono esempio mostruoso gli insediamenti industriali presenti in tutta l’isola, che lasciano solo scorie da smaltire e tumori da curare. Il Principe ha fatto si che questa isola sperduta in mezzo al Mediterraneo, abbandonata e rurale, bella ma tremendamente povera e desolata, diventasse quello che è oggi.

Abbiamo dimenticato troppo in fretta tutto quello che abbiamo, tutto quello in cui abbiamo sperato in secoli della nostra storia; tutto ciò che di buono vediamo davanti ai nostri occhi ora lo dobbiamo al Principe.

Non lodo mai i potenti, o per lo meno chi di potere vive e ne fa un’arma vessatoria. Ammiro le persone che dalla vita hanno avuto tanto e ne fanno una virtù, amando condividerlo con gli altri. Ogni gesto di socializzazione è un’apertura alla vita. Questo erano i nostri pastori, questo è stato il Principe Karim Aga Khan verso di noi. I gesti di amicizia che ha manifestato nei nostri confronti sono tangibili e concreti. Non lo abbiamo capito, non siamo stati capaci di ridargli nemmeno un millesimo di quello che lui ci ha donato.

Mentre siamo qui a morire lentamente d’inedia, con un’isola che si priva ogni anno di più dei suoi giovani migliori, senza lavoro, senza nessuna prospettiva futura, viviamo una regressione economica senza eguali rispetto al resto d’Italia. Chiudono tantissime attività per il caro energia e il caro trasporti, che rendono ogni nostro prodotto non concorrenziale. Nel frattempo, nonostante sia ormai accertato il nostro isolamento dal resto dell’Italia, il nostro Governo non risolve il caro biglietti o le continuità territoriali. Ci assegna in comodato d’uso gratuito a società marittime ed aeree, con cari biglietti tali da farci una vacanza di 7 giorni in Grecia, viaggio, vitto e alloggio compresi. I nostri politici, che vengono a trovarci, si esercitano ad annunciare fantomatici piani economici. Le promesse rimangono promesse e noi continuiamo a sognare.

Non riusciamo a venir fuori da un isolamento e un abbandono che ci per seguitano da secoli. Emu la fami a coddarittu, dicevano gli anziani. “Abbiamo fame sino al collo”. Siamo tra le isole più belle del mondo, ma non riusciamo ad emergere e prosperare. Non vorrei pensaste voglia sollevare una questio ne di colore politico. Tutti gialli, rossi, neri, verdi, azzurri e persino a pois, sono accomunati dall’inettitudine e dall’indifferenza. Nessuno ha a cuore la Sardegna, se non in una sola esclamazione: “Isola bellissima”. Per il resto siamo abbandonati a noi stessi. Avevamo a portata di mano la nostra opportunità e l’abbiamo sprecata. Potevamo essere il motore trainante di una rinascita economica senza eguali, che avrebbe coinvolto tutta la Sardegna.

Quel riscatto che aspettavano da secoli, per poca accortezza, e con un pizzico di presunzione, lo abbiamo ancora una volta ignorato rovinando tutto. I sogni finiscono quando le parole non sono in sintonia con i fatti, come dicevano i manni. I nostri “anziani”. Ora si fanno i conti con quelle scelte non ponderate e di poca lungimiranza attuate negli ultimi sessanta anni. Ci ritroviamo con un’economia ridotta al lumicino, negozi vuoti e commercianti a livelli di sopravvivenza. Poche attività resistono sperando che tutto torni come prima, ma sanno bene che non sarà più così, non tornerà il tempo in cui il cartello all’ingresso del paese pubblicizzava le sue oltre 60 attività nel centro storico di Arzachena. Le stagioni sono sempre più corte, in contrapposizione con gli annunci гоboanti di società ed enti che ad ogni inizio stagione annunciano il pieno delle prenotazioni, con incassi in crescita e un’economia fiorente, da sembrare una nuova fiaba. Ma, nel contempo, si riducono sistematicamente i periodi di stagione lavorativa, le assunzioni sono semprе numerose e concentrate in periodi brevi. Come dicevano i nostri vecchi, alle parole devono seguire azioni adeguate e risultati, A li cilvani deni siglà li fatti sinnò felmani chavani.

Rammento con rammarico i miei 7/8 mesi di stagione, quando il mio paese stava economicamente bene. I giornali nazionali titolavano “Il comune più ricco d’Italia”. La Sardegna pensava, con ottimismo, ad un futuro prospero per i giovani. Ci troviamo, invece, in un territorio che si spopola ogni anno di più. Rimangono gli anziani, i giovani emigrano, perdendo in questo modo le ultime risorse di un’isola sempre più povera.

Ci hanno ormai abituati a vivere nel poco, ci accontentiamo delle briciole. Non riusciamo a costruire una nostra alternativa politica che recepisca i nostri interessi e i nostri bisogni. Un tempo ormai lontano, un Re Spagnolo ci raffigurò con una frase epica Pocos, locos y mal unidos. Pochi è vero, siamo pochi, locos non siamo mai stati stupidi, se mai troppo buoni da accettare angherie di ogni genere, disuniti lo siamo certamente. Quando è il momento di decidere chi ci dovrà rappresentare, non sappiamo scegliere chi potrà fare qualcosa per noi. Siamo assuefatti alla maledizione che nei secoli ci ha perseguitato, un torpore ci annienta e subiamo tutto in silenzio. Questi nostri rappresentanti della Regione non solo non si preoccupano dell’abbandono che l’isola sta subendo dei suoi giovani migliori, ma non si riesce nemmeno a migliorare l’emergenza sociale e la sanità. Sembra che vivano in un altro pianeta. Il caro trasporti comporta il rallentamento del turismo e mina alle radici il futuro economico. C’è forse una spiegazione a tutto ciò? Vorrei capire, magari mi sono perso qualcosa! Stiamo lentamente regredendo giorno dopo giorno. Siamo una regione italiana abbandonata alla deriva.

Mi domando: quale sarà il nostro futuro? Che ne sarà dei giovani di Arzachena e di tutta la Sardegna, dopo aver venduto il nostro territorio cosi bello, sperando in un futuro migliore per figli e nipoti? Ci si ritrova a vendere gli ultimi gioielli di famiglia, come un nobile decaduto che impegna dal rigattiere T’ultimo anello della nonna. Così, triste, vedo il nostro avvenire: svendiamo gli ultimi stazzi, la nostra storia, la nostra cultura, a facoltosi turisti ben lieti di acquistarli, non fosse altro per la serenità e per la natura incontaminata che qui trovano.

I giovani per il loro futuro sperano in un’assunzione pubblica, che sarebbe una manna dal cielo. È pur sempre un posto sicuro e dignitoso, ma non c’è posto per tutti. Allora l’unica alternativa possibile è lasciare la Sardegna. Non si può nemmeno sperare in un dignitoso lavoro da cuoco, barman, segretaria o da cameriere, come fu per quelli della mia generazione. Quel lavoro ci garanti un futuro sereno. Quei posti sono ormai ambiti dai lavoratori di altre nazioni, e quando anche fossero disponibili sono mal retribuiti.

Il sogno chiamato Principe Karim Aga Khan, a cui desidero porgere i miei ringraziamenti, è finito, svanito come svanisce la nebbia al sorgere del sole. Ora rammento con rimpianto la mia prima stagione di lavoro nel 1968, la pizzeria “Il Pomodoro”, la mia prima busta paga, i panfili attraccati sul molo e le canzoni melodiche di Tonino u Napulitanu.

Vorrei dormire profondamente, risvegliarmi al mattino e ritrovare ancora, come 60 anni fa, le strade polverose con i carri a buoi, gli stazzi con la gente che li animava, i balli nelle feste allegre e spensierate. Aspettando il rientro del Nostro Principe. Sperando che questa volta sia una nuova storia, con un lieto fine. […]

Il mio tempo è passato, gli anni sembrano essere volati via. Sono cambiate le usanze, il modo di vivere e di confrontarsi, in meglio o in peggio a seconda di come li si valuti. Ma nel mio cuore, nei miei ricordi, quegli anni non sono cambiati. I valori di un tempo sono rimasti con me. I sogni restano sogni, ma sognare fa parte della vita a qualunque età. Chi non sogna ha finito di vivere. Per questa ragione mi auguro che il Principe riappaia per noi, perché solo di un Principe abbiamo bisogno. Uomini d’affari ne sono passati tanti, troppi, ma. ci hanno lasciato solo le loro miserie umane, di cui il mondo è ormai saturo.

Monti di Mola, di Giuseppe Contini
di Giuseppe Contini
Porto Cervo e La baia di Poltu Mannu nel 1960 e 1968, coll. Giuseppe Contini
Aga Khan ad Arzachena, di Giuseppe Contini
Aga Khan ad Arzachena, di Giuseppe Contini

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