INDICE
Introduzione
I. Il viaggio e l’arrivo a La Maddalena
II. Caprera e il suo Cincinnato
III. Un giorno a La Maddalena
IV. Un capriccio prima di partire [: La Sardegna e Palau]
Introduzione
Tra gli artisti che onorarono Roma della loro presenza durante l’inverno del 1849 – quell’inverno così prolifico di speranze e vicissitudini politiche – ve ne fu uno la cui straordinaria esecuzione al mandolino suscitò il massimo stupore e gioia. Il suo nome era Vimercati, un vecchio affabile, i cui modi cortesi suscitavano tanta amichevole simpatia quanto la sua bella musica ispirava ammirazione.
Io stessa, iniziata alle difficoltà del mandolino, rimasi, forse più degli altri del suo pubblico, estasiata dai toni meravigliosi che riusciva a far uscire dal suo strumento. Volli conoscerlo e presto divenne uno dei miei visitatori più assidui.
Una sera, mentre ero circondata da una piccola cerchia di amici, il mio amico virtuoso superò se stesso a tal punto che non potei fare a meno di chiedergli cosa poteva averlo indotto a dedicare il suo incomparabile talento ad uno strumento così ingrato?
La sua risposta fu deliziosamente ingenua. “Signora”, disse, “è stato proprio perché tutti gli altri artisti sembravano disprezzare il povero mandolino che me ne feci suo campione, e decisi di salvarlo da quello che per tanto tempo è stato il suo destino, l’accompagnamento delle canzoni volgari della gente comune”.
“Il mio caro lettore, spero, non penserà che io abbia la presunzione di paragonare le deboli capacità della mia penna al genio musicale del maestro di cui ho parlato; ma, nel richiamare l’attenzione del pubblico sull’insignificante isola della Maddalena, una roccia quasi dimenticata fin dai tempi dei romani, mi pare di sentire un mormorio di sorpresa, al quale, facendo mio l’idea dell’amico Vimercati, risponderei “È proprio perché essa è così trascurata e dimenticata, ed è l’unica delle isole del Mediterraneo che non ha trovato un esploratore e un descrittore, che ho deciso di fare delle sue bellezze e attrazioni il mio tema.”
La Corsica, avvolta nel magico velo del suo passato storico, ci è diventata ben nota grazie al recente lavoro di Gregorovius. La Sardegna può vantare le pagine classiche di La Marmora. L’Elba è stata descritta da M. Valery. La Sicilia da Parthei, Mrs. Power e altri. Anche Capraja, Ischia, Procida, Capri, Stromboli e Palmaria hanno avuto i loro pittori e i loro poeti – ma chi ha mai sognato di scrivere su Maddalena, sebbene essa possa anche vantarsi dei suoi ricordi storici? Non era lei la Phintonis dei Greci e dei Latini? I forti in rovina che coronano le sue alture, e le cui mura fatiscenti mescolano le loro tinte grigie con le masse di granito da cui scaturiscono, sono ancora testimoni esistenti della loro importanza come luogo di rifugio, dove la popolazione si rifugiava contro l’invasione di turchi e pirati; e non è il nome “Nelson” una parola familiare “in bocca agli isolani, che sanno tutti che il loro pacifico arcipelago era un tempo il punto d’incontro della flotta dell’eroe britannico, e che lì sventolava la bandiera che era così gloriosamente onorato a Trafalgar dal suo trionfo e dalla sua morte!
Anche in questo momento essa è il luogo di ritiro prescelto da un uomo anziano dal cuore e dalla mente nobili, che fu amico di Byron e Shelley, e che è andato lì in cerca di salute, di un’aria così pura e un’atmosfera così rivitalizzante.
E non è forse sulle coste dell’isola sorella “Caprera”, che il Cincinnato dei nostri tempi si è ritirato dal mondo e dalle sue illusorie speranze, finché non spunterà sul suo paese distratto il giorno in cui il suo popolo potrà essere ritenuto degno di libertà e capace di conseguirla, e sarà distolto dal suo aratro dal messaggero di tale lieta novella? (Questo è stato scritto nel 1858).
Perché La Maddalena, il cui clima e posizione offrono così tanti vantaggi, non ha mai attirato l’attenzione di quei ricchi gentiluomini inglesi i cui bellissimi yacht scivolano “sulle acque liete del mare blu scuro?” Perché il malato languido, il misantropo sazio di tutto, il filosofo che è tutto per sé, non vengono qui per la salute, o per quell’isolamento così congeniale sia alla mente forte che al cuore ferito? Dove può la pallida vittima della malattia trovare altri esempi di salute e longevità? Dove potrà lo sportivo incontrare tanta selvaggina, o il pescatore sperare di esercitare meglio la sua arte, che in questo luogo appartato, dove le montagne sono così pittoresche e le acque azzurre così trasparenti?
Possa la mia presente descrizione di questo isolotto suscitare attrazione verso alcuni viaggiatori, o alcuni invalidi, la cui presenza lì può aiutare a diminuire la povertà dei suoi abitanti, estendere il loro piccolo commercio e rendere più frequenti i loro rapporti con il continente! Se fossi io il mezzo per ottenere per essa dei vantaggi come questi, il mio scopo sarebbe raggiunto e la mia fatica ricompensata.
CAPITOLO I
Il viaggio e l’arrivo a La Maddalena
“E questo tempo terribile, signora, non vi spaventa sul vostro progetto di viaggio?” fu il cordiale saluto del Capitano D. mentre, grondante, bagnato da un forte acquazzone, entrava nel mio salotto, non molto leggero, ma ora, in una tempestosa mattina d’ottobre, quando i fulmini guizzavano e le chiuse del cielo sembravano essersi aperte sulla città di Genova, era così buio che quasi non riconoscevo il mio visitatore. Ero seduta pronta per la partenza, e risposi subito: “Se il mare non è troppo agitato per lei, capitano, non la libererò dal suo impegno.
“Signora,” rispose con un sorriso sarcastico, “paragonereste il vostro coraggio a quello di un vecchio marinaio, che ha affrontato il pericolo per tutta la vita ed è diventato grigio in mezzo alle tempeste?”
“Certamente no. Non avrei mai sognato un simile confronto; ma mi venne in mente che il padre di famiglia avrebbe una buona scusa per evitare rischi inutili.”
“Bisogna ammettere, signora, che difficilmente avremmo potuto essere più sfortunati con il nostro tempo. Il barometro è in calo da ieri e, inoltre, invece di un passaggio sulla veloce St. George,” verremo sbattuti, non so quanto tempo, nel vecchio “Virgilio”, che va contro le onde. Ma dicono: “Ciò che vuole la donna, lo vuole Dio”; e poiché sei deciso ad andare, non ritardiamo.
“Presi sottobraccio il mio compagno, e uscimmo insieme dall’Albergo della Vittoria.
***
L’aspetto di quella parte rumorosa e vivace della città, che si estende dalla piazza dell’Annunciata fino al ponte, era così cambiato durante quel forte temporale, che quasi non la si riconosceva. Lo sguardo non incontrava né le giovani genovesi, che sventolavano con grazia i loro ventagli, né le matrone avvolte nella loro “mezzara” variamente colorata. L’orecchio non veniva trafitto dalle grida acute dei venditori del “Movimento” e dalla moltitudine di altri opuscoli richiesti dal pubblico.
Il temporale aveva mandato tutti ai ripari tranne quella fila di donne che con tanta perseveranza offrivano in vendita le loro castagne fumanti. Lungo il marciapiede rigato, lontano o vicino, non si vedeva altro che una di quelle file di muli che tanto spesso percorrevano le strade di Genova, pesanti, ma a testa alta, e scuotevano i campanelli tintinnanti. Il Portico Nuovo non ci diede che una momentanea copertura dal vento e dai torrenti di pioggia, ma presto raggiungemmo il molo, dove fummo lieti di avvalerci di una delle barche comuni.
Il “Virgilio” stava già scaldando i motori. Sebbene si trovasse a breve distanza, non fu senza difficoltà che ci facemmo strada attraverso la moltitudine di barche che la circondavano. Avevo appena messo piede a bordo e gettato uno sguardo frettoloso intorno a me, che avrei potuto immaginarmi non più in Europa, ma trasportato sulla costa settentrionale dell’Africa, o in qualche golfo dell’arcipelago greco. Non avevo mai assistito ad una confusione parallela, non avevo mai sentito suoni più assordanti.
Scoprii presto che io e il mio compagno eravamo gli unici occupanti delle cabine principali. In quelle di seconda classe non c’erano affatto passeggeri. Nel terzo, ma pochi. Il quarto, invece, brulicava di gente. Questa folla era composta principalmente da povere donne vestite a brandelli, che allattavano i loro bambini, e seguite da vicino da bambini di ogni età, alcuni piangevano, altri si consolavano con frutti verdi. Quantità di scatole e casse, sacchi di castagne e ceste piene di pâtes de gène erano ammucchiate alla rinfusa sul ponte, mentre una massa di vanghe, picconi e attrezzi da falegname completava i suoi molteplici ingombri.
Già sopraffatta dal tempo, mi sentivo piuttosto scoraggiata in mezzo a un tale caos di miseri oggetti, il cui aspetto mostrava chiaramente quanto selvaggi e incolti dovessero essere gli abitanti dell’isola che mi accingevo a visitare. Non so se le mie impressioni fossero come quelle degli altri, ma su di me l’aspetto del cielo ha tanta influenza, che un progetto concepito sotto un sole splendente diventa un’assoluta follia se realizzato in mezzo al freddo e alla pioggia. Non potevo fare a meno di pensare al “Semillante“, al “Castor” e ad altre navi, molto superiori alle nostre, che tuttavia erano andate perdute nelle acque che ora dovevamo navigare. La mia disposizione all’ipocondria arrivava al punto di suscitare in me una specie di rimorso al pensiero di trascinare il padre di famiglia in un’impresa che cominciava sotto auspici così sinistri. Tuttavia, “Alea jacta erat.”
La scaletta laterale della nave fu issata, i portelli furono chiusi, le ruote a pale cominciarono a girare, e in pochi minuti il “Virgilio“, stracarico, era in mare aperto.
Cercai di scacciare tutti i miei tristi pensieri, e, in risposta ad una campana che suonò allora, permisi che il mio compagno mi conducesse nella sala dove ci attendeva la colazione, e dove trovammo il capitano della nave e un marinaio sardo ufficiale incaricato della sorveglianza militare della nave. La destinazione dei pacchi su questa linea è “Porto Torres”, il porto di Sassari; e solo una volta al mese toccano La Maddalena, per farvi sbarcare passeggeri, alcuni dei quali diretti alle isole vicine, altri alla costa della Sardegna.
I nostri due compagni di sala espressero molta sorpresa nel sentire che, invece che a Porto Torres, sarei andata all’isoletta della Maddalena. Suscitò la loro curiosità; e sebbene il capitano D. raccontasse molte delle sue avventure in Crimea, non poteva distogliere la loro attenzione dalla stranezza del mio piano. Ma ben presto mi resi conto che non potevo più prendere parte né alla conversazione né al pasto, perché il terribile disordine che nessun rimedio può guarire e contro il quale gli sforzi della scienza sono impotenti, cominciò a cogliermi così violentemente che non c’era altro da fare che un improvviso ritiro dal tavolo. Il forte braccio del Capitano D. fu appena sufficiente a sostenermi sul ponte, ora scosso dalle onde. Coloro che non hanno mai assistito a scene del genere possono farsi ben poca idea dalla descrizione. Il più esigente dei lettori mi scuserebbe volentieri per i dettagli omessi di tutto ciò che ora si presentò ai miei occhi. Lasciatemi quindi calare un velo sulla scena! Durante sedici lunghe ore di lotta impari, il “Virgilio” dovette reggere le forti onde di un mare in tempesta.
Per sedici lunghe ore fui immersa in quello stato deplorevole che ci rende sensibili a tutta la miseria della nostra natura. Alla fine il Capitano D. entrò nella mia cabina con la gradita notizia che la parte peggiore del viaggio era passata e che, avendo raggiunto il Capo di Corsica, saremmo stati riparati dalla sua costa montuosa.
La promessa di un marinaio così esperto si realizzò rapidamente come se avesse pronunciato un incantesimo magico. Tutto divenne calmo, come per incanto; e dopo una notte molto tollerabile, al mattino fui piacevolmente sorpresa da un brillante raggio di sole, che presagiva una bella giornata. Mi vestii in fretta e salii sul ponte. Tutte le mie paure svanirono, ora che le mie sofferenze erano finite, e che inalavo l’aria fresca di quella mattina radiosa, e vedevo la tinta azzurra di un cielo senza nuvole riflessa nell’acqua trasparente sottostante.
Tutti i passeggeri sembravano godere, come me, di questo magnifico spettacolo, e ogni volta si dilatava di piacere alla prospettiva di uno sbarco felice e anticipato. A est il mare si estendeva senza alcun limite visibile, cancellando le ultime deboli linee della costa italiana. A ovest scorgevamo le ripide montagne della Corsica, che si innalzavano in sublime maestosità. I declivi che scendevano verso la riva erano ricoperti da una vegetazione ricca e verdeggiante, in meraviglioso contrasto con le masse di granito che formavano la base dell’immagine, masse le cui cime frastagliate erano parzialmente nascoste da nuvole dalle forme fantastiche.
Fu così che la Corsica si presentò ai miei occhi per la prima volta in tutta la sua grandezza, mostrandomi le sue bellezze e riportando alla mia mente tutti i suoi gloriosi ricordi.
Lo spettacolo era davvero imponente e, grazie ad un buon telescopio, potei cogliere tutti i dettagli pittoreschi della costa, lungo la quale passavamo a una distanza di due o tre miglia. Il terreno era coperto di boschi, e piantagioni di viti e di olivi si susseguivano senza fine, e formavano nell’insieme un panorama mirabile. Ad un certo punto l’attenzione fu catturata da una cappella, dedicata, forse, alla Vergine; in un altro da un castello del Medioevo. Qui qualche pittoresca rovina coronava un’eminenza, e dovunque l’occhio scopriva qualche prospettiva affascinante, e l’immaginazione trasportava oltre la vista; infatti chi può contemplare un paese sconosciuto senza instillarvi un po’ di romanticismo, soprattutto se quel paese è la Corsica?
Le isole, semiperdute tra le onde, mi apparivano come eremiti del mare. Ognuno di loro aveva un aspetto diverso, un carattere distintivo, una sorta di fisionomia che si scolpisce fortemente nella memoria, e che raramente si vede sulla terraferma, dove le pianure sono così simili nella loro uniformità.
Le isole del Mediterraneo, del resto, rivestono un interesse peculiare e del tutto eccezionale. Fin dalla nostra infanzia conosciamo i loro nomi e le loro storie; e ciò che i libri degli studenti non ci hanno insegnato, lo abbiamo in seguito guadagnato dai romanzi descrittivi, e alcuni di noi dai nostri viaggi. I vaporetti commerciali e i battelli carichi di turisti attraversano incessantemente la Francia e la sempre classica terra di Ausonia, dove gli abitanti del nord, stanchi delle nebbie e delle nebbie, vengono a rianimarsi e a liberarsi dei loro umori malinconici.
La Corsica gode di tutti i vantaggi di un governo francese, ma i costumi dei suoi indigeni ricordano la ferocia delle epoche passate, quando ogni uomo si faceva giustizia da solo. È notevole che la natura del suolo e della vegetazione somigli molto alle usanze del paese. Questi sono ostacoli che interferiranno a lungo con il progresso della civiltà. Non dirò che si sappia poco della Corsica, ma piuttosto che essa occupi ben poca attenzione.
Occorre fare molto di più per sollevare il velo misterioso che copre questo Paese e che favorisce il compimento di atti del tutto in contrasto con i tempi. L’Italia che conoscevamo dalle descrizioni di Goethe ci è apparsa più poetica di quella che ora visitiamo e osserviamo di persona, così come i nostri sogni nel sonno e le visioni da svegli ci appaiono più poetiche degli oggetti realmente presentati alla nostra vista. Per questa ragione, suppongo, potrebbe essere che, affaticata dall’aspetto luminoso della riva, la mia mente vagasse nell’interno dell’isola, sotto gli alberi secolari delle foreste vergini, ancora non toccate dall’ascia del boscaiolo, le complessità di che sono serviti da rifugio al bandito dalla ricerca della giustizia e da “vendetta” dai loro acerrimi nemici.
Venerabile Kyrnos! possedere ancora i boschi che furono l’ammirazione dell’antichità! Seneca li conobbe, quando nel suo esilio vagò lungo le vostre coste, e ne assorbì le ispirazioni che dettarono la sua “Consolatio ad Helviam”. Allora già il dio della guerra aveva illuminato le vostre ombre e calpestato i vostri raccolti; quando i Liguri, gli Etruschi, i Cartaginesi, i Romani, invasero successivamente i vostri territori, e combatterono molte sanguinose battaglie per il loro possesso. Qui Belisario diede battaglia ai Vandali. Qui regnarono alternativamente i Goti, i Longobardi, i Franchi, i Saraceni, succeduti dai Pisani e dai Genovesi. Benché spesso oggetto di contese, quest’isola sprofondò successivamente nel riposo e nell’oblio, destinata però a dare i natali all’Aquila Imperiale, i cui fulmini illuminarono il mondo intero.
La mia fantasticheria storica è stata interrotta dal Capitano D., che ha indirizzato la mia attenzione sulla cittadina di Bonifacio, sostenuta da una roccia calcarea, che la rendeva molto distinguibile. La sua costruzione testimonia il talento strategico del marchese toscano Bonifacio, che gli diede il proprio nome nel fondarla dopo il suo trionfale ritorno dall’Africa. Quando la superammo, Nettuno fu con noi più gentile del solito e navigammo lungo un mare di vetro. Una moltitudine di isole, lontane e vicine, grandi e piccole, si mostravano sopra le limpide onde, per le quali il percorso del “Virgilio” somigliava a una navigazione estiva su un lago svizzero, più che a un viaggio d’ottobre attraverso uno dei passaggi più pericolosi del Mar Mediterraneo.
Lasciando alla nostra destra la granitica Isola di Cavallo, raggiungemmo quella del gruppo dei Lavezzi, così tristemente celebrato dalla perdita del “Semillante”. Questa bellissima fregata, carica di munizioni belliche e con a bordo 1.000 soldati e un numeroso equipaggio, naufragò qui durante il suo viaggio in Crimea. Questo scoglio inospitale si erge come un monumento funebre, ad indicare i pericoli che minacciano il marinaio quando entra in questi stretti. Nessun uomo è sopravvissuto al disastro. Alcuni corpi senza vita furono i muti messaggeri che raccontarono la spaventosa catastrofe. Ogni soldato che va in guerra sa che può esserne vittima; ma è triste che abbia trovato una tomba oscura negli abissi, quando pensava di morire della morte dei valorosi in qualche gloriosa lotta sul campo di battaglia.
L’isola di Santa Maria, che poco dopo apparve, fu il primo oggetto che interruppe queste banali riflessioni. Un vecchio faro presidia l’arenile piatto e sabbioso, riconoscibile per la sua sfumatura giallastra, che lo distingue dalle ripide coste di Razzoli e Budelli.
Lasciati alle spalle i Barrettini, da dove si intravede appena la punta settentrionale della Maddalena, benché in parte nascosta dall’Isola di Spargi, che sembra sbarrare il passaggio, entrammo in una baia dalla quale non si vedeva alcuno sbocco. Avevamo costeggiato per mezz’ora l’antica Phintonis [Tavolara], le cui scogliere perpendicolari si ergevano arditamente davanti a noi, quando il “Virgilio” virò verso est, e traversò il piccolo braccio di mare che separa l’isola dalla Sardegna.
Ci ritrovammo quindi in una sorta di conca, circondata da isole. Coronato di forti, Santo Stefano giaceva alla nostra destra; davanti a noi Caprera, alle spalle le lontane montagne della Sardegna, e alla nostra sinistra la sorridente costa della Maddalena, la città con lo stesso nome che appare in vista dalle strade e forma un piccolo anfiteatro dalla riva. Le ruote del “Virgilio” girarono con sempre meno velocità, poi si fermarono del tutto, e noi eravamo a destinazione.
Quando il lettore verrà a sapere che l’unica comunicazione tra l’isola e la terraferma avviene tramite un viaggio mensile, non si sorprenderà che il nostro arrivo fosse un evento importante agli occhi degli abitanti e che la riva fosse ricoperta di folla di persone. Se la partenza da Genova è stata una scena tumultuosa, il nostro arrivo qui l’ha ampiamente superata. Il pensiero di essere scampati a tutti i pericoli del mare, e il piacere di rimettere piede sulla terraferma, in mezzo ai parenti e agli amici, diffondevano tra i passeggeri una gioia universale. Quanto agli isolani, non rispettarono gli ordini del capitano e, nonostante la dura opposizione dell’equipaggio, si riversarono a centinaia oltre le paratie sulla coperta; alcuni cercavano amici, altri beni che aspettavano da tempo, e alcuni chiedevano notizie politiche e litigavano per i giornali.
Il mio compagno non aveva previsto questo tumulto e il ritardo che ci avrebbe causato nello sbarco. Per evitare la folla mi ritirai nella parte a poppa della nave. Mentre osservavo il porticciolo e il peschereccio lì all’ancora, il capitano D. mi si avvicinò con aria compiaciuta e, indicando una barca, esclamò: “Guardate signora, c’è Garibaldi! Tra poco sarà a bordo”. Con quanta gioia stringerò ancora la mano di quell’uomo coraggioso!”
Nonostante la moltitudine di barche che andavano e venivano dalla riva con passeggeri, potevo facilmente distinguere il Generale, in piedi, con una mano che reggeva una corda. Si bilanciava con perfetta facilità sulla prua della sua barca leggera, gestita da un marinaio e da un bellissimo giovane.
L’aspetto di quell’uomo così conosciuto in America e in Europa non mi era estraneo. Lo avevo visto nel tempo in cui gli occhi di tutta Italia erano fissi su di lui. In quei giorni di ansia e di speranza – quando venne a Roma per difenderla dal giogo che la minacciava – la sua apparizione mi riempì allora di entusiasmo. Ora, mi commoveva nel profondo della mia anima! poiché dal 1849 mi ero informata di tutti i particolari della sua vita e comprendevo il vero valore di un simile uomo; e posso davvero dire che il suo volto nobile e serio portava in sé la prova della sua storia sempre grande e avventurosa, e talvolta anche tragica. Lo contemplavo dunque, non con l’entusiasmo fanatico che ne idealizza l’oggetto, ma con la consapevolezza dei suoi reali meriti, e la certezza che fosse un eroe la cui abnegazione e magnanimità eguagliavano il suo coraggio; e tutta la mia attenzione si concentrò sulla sua figura, dal momento in cui me lo additò fino a quando salì sul ponte, tra la folla che lo circondava.
Sebbene avessi chiesto al capitano D. di non nominarmi al generale finché non fosse passata un po’ di confusione, passò appena un quarto d’ora che venne a dire che Garibaldi desiderava essere presentato a me. Entrammo nella cabina delle signore e lì, tra rumore e trambusto, scambiai le mie prime parole con l’illustre guerriero. Mi ispirò subito un tale sentimento di fiducia che mi sembrò di incontrare un vecchio amico; e ciò derivò, senza dubbio, dalla cordialità della sua accoglienza e dalla simpatia che un carattere fine e sincero sicuramente susciterà.
Ben presto gli spiegai lo scopo del mio viaggio, nel quale lui solo poteva aiutarmi; ma sentendo da lui che i documenti che volevo non erano più in suo possesso, mi sentii molto scoraggiata. Tuttavia non potevo pentirmi di aver intrapreso la mia impresa, poiché essa aveva realizzato uno dei desideri più ardenti del mio cuore. Avevo conosciuto personalmente l’uomo il cui grande carattere aveva occupato i miei pensieri per molti anni, e fu con vero piacere che ascoltai la sua opinione sullo stato attuale dell’Italia e sulla situazione critica dell’Inghilterra riguardo all’ammutinamento indiano. Rimasi piacevolmente sorpresa dall’ammirazione che espresse per il mio Paese, tanto più che non è comune trovare un popolo oppresso che formi un giudizio imparziale su una nazione grande e libera.
L’eloquenza di Garibaldi si faceva sempre più animata man mano che la conversazione procedeva, e sempre più accattivante mentre parlava del passato e del futuro dell’Italia. Il fuoco del patriottismo ardeva nel suo volto vivace ma serio; il suo volto aperto e i suoi lineamenti classici, in un insieme espressivo, rivelavano la bontà e la forza del suo carattere. Non si poteva non percepire quale doveva essere l’effetto di questa potente individualità sulle masse. Un leader del genere elettrizza le sue truppe, comunicando loro, con l’esempio, l’eroismo che sente lui stesso!
“Ma dove pensate di prendere dimora, signora?” disse il Generale, quando il Capitano D. venne a dirci che ora era possibile scendere a terra.
“Il mio amico mi dice che c’è una locanda per forestieri,” risposi rivolgendomi al capitano D. “Certamente, signora, troveremo due stanze da Ruffo.”
“Signora,” la interruppe il generale, “è assolutamente impossibile per voi andare in un posto del genere. Permettetemi di pregarvi di venire a casa mia. Mi dispiace di non potervi ricevere come meritate, ma tutto quello che posso fare è al suo servizio, e glielo offro cordialmente. Permettetemi di condurla alla mia barca, e prima del tramonto saremo a casa mia a Caprera.
Il tono con cui Garibaldi pronunciò queste parole era così persuasivo, che mi fu difficile rispondere con un rifiuto. Lo feci, tuttavia, essendo decisa a visitare La Maddalena, e molto riluttante a disturbarlo. Promettendo dunque di consacrare l’indomani ad una sua visita, mi indicò il suo ritiro, situato sulla punta di Caprera, dove la riva, a levante, sembrava chiudersi nel lago trasparente sul quale ci trovavamo ora all’ancora. A poca distanza dalla spiaggia, in una deliziosa solitudine, scoprii una casa bianca, addossata ad un muro di roccia granitica.
Suonarono ormai le tre ed era già ora di partire; ma, prima di lasciare la nave, avanzò verso di me col giovane di cui si è già accennato: “Anche tu devi conoscere mio figlio Menotti. Alcuni gli rimproverano di avere l’aria e la forma robusta di un marinaio. Per quanto mi riguarda, conosco troppo bene il valore della buona salute per non incoraggiarlo in tutti gli esercizi virili che rafforzano il corpo, anche a costo, forse, di un po’ di quell’estrema eleganza di cui il mondo tanto si diletta!”
Risposi: “Mi sembra, generale, che tu abbia raggiunto perfettamente il tuo scopo, e che tuo figlio sia dotato di quella forza che non esclude la grazia”, e tesi la mano al giovane Ercole, il cui aspetto franco e nobile aveva già attirato la mia ammirazione. Una volta in barca, qualche colpo di vigoroso remo di Menotti ci portò alla spiaggia, dove ci salutammo con la promessa di essere l’indomani presto alla “Punta della Moneta”, l’estremità sud-orientale di La Maddalena, dove un uno stretto braccio di mare la separa da Caprera.
“E che ne sarà di noi, ora che abbiamo rifiutato, un po’ sconsideratamente, l’ospitalità che ci è stata così liberamente offerta?” fu l’esclamazione ironica del mio accompagnatore, mentre seguiva il facchino che trasportava i nostri bagagli per le vie del misero paesino.
“Presto conosceremo il nostro destino”, dissi, mentre la nostra guida svoltava in una casa sulla destra. “Un ingresso molto promettente,” brontolò il mio compagno, guardando su per una scala diritta e quasi ripida come una scala a pioli. Alcuni bambini seminudi ci sbarravano il passo. “Wow! che odore di aglio! abbastanza da far indietreggiare l’intero esercito inglese!” esclamò il Capitano D., aprendo la porta di una stanza dove incontrammo un certo numero di donne.
“Avete due stanze da affittare?” – chiese, lanciando uno sguardo scettico attorno alla camera nella quale eravamo ormai entrati, e dove vedevamo un immenso letto ed un enorme tavolo, attorno al quale erano seduti molti dei passeggeri del “Virgilio“, che si stavano ristorando dagli effetti del mare, mangiando, con ottimo appetito, tutto ciò che veniva loro presentato. Le donne ci spinsero in un stanzino adiacente, dicendo: “Potete alloggiare lì”. “Ma la seconda stanza?” – chiese il Capitano con evidente ansia. “Questi uomini ripartono col piroscafo, e allora potrete prendere il loro posto,” fu la risposta delle donne, parlando tutte insieme.
La nostra condanna era stata pronunciata: potevamo solo rassegnarci. La strada aperta era l’unica alternativa.
I nostri occhi cercavano invano anche i mobili più indispensabili, e sempre dopo ogni sguardo si posavano sul letto gigantesco, coperto di piatti e bicchieri e zuppiere, che quasi si perdevano in mucchi di stivali e scarpe e di miserabili stracci di vestiti, in cui l’amalgama eterogeneo sembrava essere tutto ciò per cui non c’era altro posto.
Né mancavano oggetti vivi. In un angolo una povera cagna allattava la sua cucciolata; in un altro una gallina riparava la sua covata sotto la sua ala, e vicino a loro un bel piccione tubava verso il suo compagno.
Che riposo ci si poteva aspettare da un simile giaciglio, che senza dubbio era anche l’abitazione di altri e più piccoli membri del regno animale?
Rimasi per qualche istante stupita e inorridita, poi mi voltai e seguii il capitano D., il quale disse che, poiché eravamo condannati a un simile destino, avremmo fatto meglio almeno a impiegare le restanti ore di luce del giorno alla ricerca dei nostri connazionali che intendevamo visitare. Desiderando che durante la nostra assenza le stanze venissero messe in ordine, ci procurammo una guida all’abitazione del Capitano R., e presto arrivammo davanti ad una bella casa, situata all’estremità di un promontorio, a circa un tiro di schioppo dalla banchina. Fin dal mio primo arrivo avevo notato questa casa, le linee armoniose della sua architettura, il colore delle sue pareti e soprattutto la sua bella posizione, di fronte al mare e con una splendida vista da ogni lato.
Il forte abbaiare di due grossi segugi avvisò la presenza di estranei, ma lo zelo dei due cerberi fu presto placato da un servitore, che ci invitò ad entrare. Il capitano R. venne alla porta e disse che il suo cane, “Terribile”, non era preparato ad un evento così insolito come dei visitatori, ed era piuttosto disposto a darci un’accoglienza “terribile”. “Il suo padrone, tuttavia, è più amichevole”, risposi, ricambiando la pressione della mano del vecchio gentiluomo e sedendomi al posto dove mi aveva condotto.
Non mi sono mai sentita più consapevole della verità del vecchio detto, che “gli amici dei nostri amici sono nostri amici”, perché, senza presentazioni, o anche scuse sufficienti, mi stavo intromettendo nella vita di un estraneo della cui esistenza, quarantotto ore prima, ero perfettamente all’oscuro, eppure il semplice nominarlo di un amico comune aveva prodotto in un attimo qualcosa di molto simile all’intimità tra noi.
Dalla conversazione del mio degno ospite dedussi che, dopo una brillante carriera nella marina britannica, aveva visitato molti luoghi sul suo yacht finché non fu tentato dallo splendido clima e dalle grandi opportunità di caccia e pesca, di stabilirsi in quest’isola; e qui da molti anni ormai trascorreva una vita, divisa tra i tranquilli piaceri della lettura e le delicate fatiche della sua vigna e del suo giardino. Non si può dire che la solitudine indebolisca e snervi, perché non ho mai visto un vecchio più fresco e coraggioso; e nonostante i suoi settant’anni, la sua figura snella e ferma, il fuoco dei suoi occhi acuti e l’energia di ogni suo movimento, potrebbero suscitare l’invidia di molti uomini molto più giovani.
La vista di un nuovo mucchio di giornali e di lettere che copriva il tavolo mi fece temere che avessimo disturbato il nostro ospite con la nostra visita non autorizzata, e quindi ci preparammo a partire, chiedendogli se pensava che potessimo osare di far visita al signor e alla signora C. “Certamente”, rispose; “e se non hai paura della mia barchetta, è al tuo servizio per portarti alla Punta della Moneta. Ti farà risparmiare tempo, e non avrai molto da perdere.” Con queste parole ci condusse all’approdo sottostante e, accompagnati dal suo barcaiolo Giovanni, salimmo a bordo della barca.
Era la parte più bella della giornata, quella in cui ai raggi del sole che si allontanavano mancava solo un’ora scarsa per indorare le valli con il loro bagliore; benché anche dopo il momento del tramonto avrebbero allietato le cime più alte dei monti, finché, immersi in un mare di porpora, avrebbero abbandonato la terra alle ombre della notte.
Non avevo mai visto un mare più trasparente! mai cielo più splendente, e mai in Grecia o in Italia avevo respirato un’aria più mite! Ma non è nella vegetazione, nei prati lussureggianti, o nelle tinte autunnali dei ricchi boschi, che lo straniero dovrebbe trovare il principale incentivo a visitare questo paese. Ovunque si volga lo sguardo, esso si posa su rocce gigantesche e dalle forme fantastiche, i cui pendii inospitali nemmeno favoriscono la crescita d’erba e danno allo straniero del nord l’idea di un deserto senza conforto. Ma l’occhio del poeta e lo sguardo indagatore del geologo guarderanno queste maestose masse con il più puro piacere, sia che si tratti di cercare in esse le tracce della bellezza, o le prove degli annali della natura scritti da Dio.
Costeggiavamo ormai la sponda meridionale della Maddalena, avendo alla nostra destra l’Isola di Santo Stefano, finché Caprera rivelò alla nostra vista tutte le asperità e le profondità dei suoi bruschi declivi, illuminati dai rosei riflessi del tramonto. In circa un’ora raggiungemmo la Punta della Moneta, all’estremità della quale sorgeva la bianca magione del signor C., costruita in stile moresco, e vi arrivammo, dopo una breve passeggiata lungo una pittoresca terrazza, dove fiorivano cactus e il fico d’india.
Giovanni si fece avanti per annunciarci. La signora C. è una di quelle donne straordinarie che solo l’Inghilterra può creare, e di cui ho trovato esempi nelle regioni più lontane da casa. Avanzò verso di noi fino alla porta della sua romantica abitazione, ci pregò di entrare in una bella stanza dotata anche di terrazzo ed espresse il suo rammarico che suo marito non fosse lì a riceverci. La signora C. poteva avere circa quarantacinque anni, era ancora molto gradevole di aspetto, e i suoi modi evidenziavano la distinzione della sua nascita. Ella risiedeva qui da venticinque anni, e credo che qualche catastrofe l’avesse condannata a questo esilio volontario. Desideravo conoscere il mistero di questo destino, ma tutto ciò che potei sapere fu che di solito accompagnava il marito nelle sue lunghe escursioni a cavallo, nella caccia e persino nelle sue battute di pesca – una passione che entrambi possedevano, fino alla permanenza di diversi giorni in mare aperto. La signora C. sembrò penetrare i miei desideri, ma li assecondò solo fino al punto di dirmi che per nascita era una signora, per scelta una zingara, e per necessità moglie di un contadino. Posso solo dire che il suo comportamento rivelava un perfetto appagamento; e, nonostante il completo isolamento in cui fu posta, senza figli e senza domestici, la sua vita, forse, offre un interesse più reale dell’esistenza di alcune delle nostre regine della moda, che acquistano i loro trionfi a prezzo di tanti frivoli ma imperiosi doveri. Dedita esclusivamente alla cura della casa e della fattoria, si era formata un circolo di attività così vasto che la noia non avrebbe mai potuto raggiungerla. Mi è stato detto che per diciassette anni non aveva mai messo piede nel paese della Maddalena. Un piacevole caminetto, una biblioteca scelta, uno scrittoio ricoperto di libri e di carte, dimostravano che in quella stanza si potevano trascorrere molte serate tranquille.
Chiesi alla signora C. le qualità dei piccoli cavalli sardi, e lei mi assicurò che meritavano la fama che avevano ottenuto. “Il loro prezzo”, disse, “non supera mai i 200 franchi, e il loro mantenimento è di circa 150 franchi all’anno. Richiedono poche cure e sopportano la fatica più grande, che attribuisco alla loro razza e al loro cibo, composto, come quello dell’Arabo, di paglia e d’orzo. Se ti metterai alla finestra, ti mostrerò il mio caricatore in miniatura.”
Uscì in giardino e un solo richiamo della sua voce ben nota servì a far uscire dalla stalla il più grazioso cavallino pezzato di grigio. Alzò gli occhi lucenti, scosse la testa con aria fiera ma docile, e seguì la sua padrona, la quale, avendo un setaccio in mano, attirò l’attenzione di tutti gli altri quadrupedi e di tutti i volatili dell’aia. Due cani uscirono per salutarla, scodinzolando. Alcuni maiali, della specie sarda, uno stormo di piccioni e molti volatili dalle creste rosso vivo, accorsero a raccogliere i chicchi caduti. Un banco di allori, rose e piante esotiche formava la cornice di questo quadro vivente, la cui serena bellezza ricordava i costumi pastorali dell’età dell’oro.
Ancora una volta nella nostra barca, che scivolava nel suo corso silenzioso sull’acqua priva di onde, nella notte che aveva a poco a poco confuso ogni oggetto e ogni colore in una cupa uniformità, mi compiacevo di apprezzare la vita di campagna a cui avevo appena assistito, e le sue tracce nella mia mente erano più poetiche e incantevoli persino della realtà.
“Non so”, dissi al mio compagno, “quali siano state le prove a cui è stata sottoposta la signora C., ma accetterei il suo passato, con tutti i suoi dolori, se potessi a tale prezzo acquistare la sua felicità attuale.” “Soprattutto stasera,” rispose il Capitano, che pensava al nostro ritorno alla locanda! “Fermati, Giovanni”, continuò, mentre una barca ci attraversava; “Credo che sia una barca da pesca, e forse potremmo aggiungere qualcosa alla nostra cena piuttosto problematica.”
Un’idea del genere non era affatto da disprezzare; soprattutto perché i pescatori avevano catturato solo tre triglie, e noi ce le assicurammo subito per una piccola moneta, che per fortuna presero in cambio.
Era tardi quando entrammo in paese, e quando arrivammo alla locanda fummo spiacevolmente sorpresi di trovare la grande stanza piena di viaggiatori, e la seconda esattamente come l’avevamo lasciata! Il capitano D. chiese con rabbia perché le stanze non fossero state preparate e riservate per noi. Le sue parole sembravano piuttosto confondere la più anziana delle nostre ospiti, una vecchia matrona, magra come un fuso e avvolta in un mantello marrone. Ci chiese, in tono addolorato, di “scusare le sue povere figlie, che dovevano essere state pazze a prometterci la seconda camera, perché apparteneva ad un ingegnere e alla sua famiglia”! A questo punto l’ira del capitano si fece più violenta, ed i suoi rimproveri, mescolati alle scuse delle figlie e alle proteste della madre, formarono un crescendo, che presto diventò fortissimo, che quasi spaccava il timpano delle nostre orecchie.
“Mandate allora a chiamare Pietro Susini”, disse il capitano D, “e dovrà trovarci un altro alloggio;” e con ciò iniziò a sezionare un pollo duro, che dichiarò essere il capostipite di tutti i polli del luogo, e infine disse alla vecchia di portare del pane, se non c’era altro; al che lei ci mise davanti della pasta cotta, dura come un biscotto, dicendo: “Il nostro pane è finito, e qui non ci sono fornai. Ogni famiglia lo cuoce per sé ogni sabato, e quando non ne ha più, si arrangia come può con le castagne, le patate o il mais”.
“Signora,” disse il mio amico sorridendo, “vi avevo avvertito che avremmo dovuto vivere come Crusoe nella sua isola.” Tuttavia la nostra ospite ci portò delle belle castagne e un fiasco rivestito di paglia di ottimo vino, il primo bicchiere del quale ripristinò l’equanimità del Capitano. Le donne, temendo di perderci, tentarono con tutta la loro eloquenza di persuaderci che una stanza bastava; ma l’arrivo di Pietro Susini pose fine alle loro suppliche. Ci disse che c’erano degli appartamenti nella casa delle sorelle Fazio; ma fino all’ultimo momento abbiamo dovuto quasi lottare per scappare.
Avrei dovuto dirlo prima, che il Capitano aveva una lettera di presentazione al signor Susini, che era una delle autorità del luogo. “Sto per condurvi da delle persone molto rispettabili”, disse, quando entrammo in una casa. Aprì una porta e ci trovammo in un grande appartamento, il cui soffitto era formato da canne intrecciate a disegno. Tre donne ci accolsero con cortesia. Susini ci assicurò che qui avremmo trovato una quiete e un decoro che si riscontrano in poche case dell’isola. Mi introdussero in una piccola camera, che si apriva sul vestibolo. Qui c’era un letto, con una coperta di damasco e tende bianche, un tavolo e un vecchio inginocchiatoio, e il resto dello spazio non era molto più di quanto richiedesse il mio baule.
“C’è un’altra stanza per il Capitano,” disse Susini; “e se vuole qualcos’altro, deve solo chiederlo.” “È proprio vero”, disse una delle sorelle; “tutto quello che abbiamo è a vostra disposizione. La nostra casa è piccola, ma il nostro cuore è grande!”
Giunta l’ora del tè, cominciai a fare i preparativi, e presumevo che queste signore dal cuore generoso mi avrebbero almeno fornito un po’ di acqua calda – ma no! Mi permisero di accendere la mia lampada a spirito e, invece di offrirmi assistenza, si limitarono a guardare con sorpresa, chiedendo poi di assaggiare una bevanda a loro del tutto sconosciuta.
Dopo il tè il Capitano D. si ritirò nella sua cella. Il suono dei suoi stivali mentre se li toglieva, e subito dopo un russare energico, dimostravano che aveva già dimenticato le sue fatiche nel sonno. Le signore mi augurarono la buonanotte e mi lasciarono libero uso della stanza, della quale approfittai per scrivere il mio diario.
La consapevolezza di trovarmi così sola in un luogo sconosciuto, in un’ora di riposo universale, risveglia sempre in me una sensazione particolare. La fantasia è in ascesa e corre con me; e i miei pensieri non essendo trattenuti da alcun ostacolo esterno, superano in rapida successione sia il tempo che lo spazio.
Dopo aver scritto per un po’, mi sono lasciata tentare dalla brillante luce lunare di uscire all’aria aperta e godermi lo splendore di una notte così radiosa. La casa delle sorelle Fazio era situata sul pendio di una collina, e a pochi passi dalla porta ottenevo un’ampia vista, illuminata dai raggi del bel pianeta. Questa penombra, che dona un così grande fascino ai luoghi che amiamo, diffonde un’illusione ancora più grande su un paese sconosciuto, che la nostra immaginazione potrà abbellire a suo piacimento. Il silenzio della natura non veniva interrotto né dal latrato di un cane, né dal grido di una civetta, né dal rumore delle onde del mare. Una calma così profonda regnava sull’isola addormentata, che l’orecchio più sensibile non sarebbe riuscito a distinguere un solo suono da quello della moltitudine che riposava in quell’ora solenne sul suo seno. Si sarebbe potuto pensare che tutta la vita fosse concentrata nel regno vegetale, che ormai riempiva l’aria dei profumi più deliziosi.
Seguii il sentiero che portava al vecchio e abbandonato forte della Guardia Vecchia, finché non scomparve in un caos di sassi e rifiuti. Avevo paura di andare più lontano e mi sedetti su un blocco di granito. La luna adesso era meno brillante e in ogni punto dell’orizzonte apparivano nubi piuttosto minacciose. Il mare, racchiuso da numerosi monti, isole e promontori, dava luogo a bacini di diversa forma ed estensione.
E in tutta questa solitudine, pensavo, c’è tanta sicurezza, tutto un popolo dorme in pace, con le porte aperte, sotto la protezione del Cielo; e io, straniera, vago a mezzanotte ovunque mi porti il capriccio! Allora pensai all’ampia distesa di mare e di terra che mi separava da casa mia. Presa e a poco a poco assorbita da questa impressione di solitudine, la mia mente fu ricondotta di epoca in epoca, fino alla Creazione; e la vista di tutte queste isole e montagne risvegliò in me la visione di quel tempo sconosciuto, quando la guerra degli elementi rovesciò l’ordine della nostra sfera, facendo sorgere isole dal seno degli abissi e formando mari in mezzo ai continenti.
È probabile che la Sardegna fosse un tempo il centro di tutte queste isole, che senza dubbio parteciparono al suo destino. Torniamo solo a ciò che la storia ha raccontato. La Sardegna ha avuto solo una piccola parte politica fin dai tempi di Tiberio Gracco; non perché sia insignificante in sé stessa, ma perché ha avuto la sorte di tanti uomini che, dotati di tutti i doni della Natura, sono stati posti dalle circostanze in modo tale da non poter sviluppare le loro qualità, e sono quindi vittime di quell’ingiustizia che in tutti gli strati della società esercita un inesorabile dispotismo!
Poiché tutto ciò che è nascosto esercita un’attrazione strana e piacevole allo stesso tempo, mi immergevo sempre più nei miei pensieri, e Dio sa quanto lontano sarei potuta arrivare se non mi avesse svegliato il rumore di pietre che rotolavano. Mi voltai rapidamente e vidi l’alta figura di un uomo che, scendendo dalla collina, avanzava verso di me con passo deciso.
“Salute”, dissi allo sconosciuto; il quale, armato di nessuna arma più formidabile di un bastone da passeggio, mi ispirò fiducia piuttosto che paura.
«Salute», rispose (secondo l’uso del paese) la voce di un vecchio, con un accento così comprensivo, che decisi di approfittare dell’incontro per trovare la via più breve per tornare a casa. Appena lo straniero si fu ripreso dalla sorpresa per la mia inaspettata presenza, mi chiese come mai fossi sola in un posto simile a quell’ora.
“Solo”, risposi, “per poter contemplare al chiaro di luna i diversi punti della tua isola! e tu, un uomo anziano, cosa potrebbe averti indotto a lasciare una casa confortevole e fare un’escursione notturna, così faticosa come deve essere in questi sentieri di montagna?”
“Ahimè! dov’è la mia comoda casa?” – gridò il vecchio con un sospiro. «Guarda, signora mia,» continuò dopo una pausa, scoprendosi il capo e mettendo in mostra i candidi capelli, e volgendo verso di me la sua maestosa figura, «Michele Zicaro può contare novantotto anni, ma non è il peso dell’età, ma del dolore e delle perdite crudeli, che lo abbattono.”
Toccato da compassione per queste parole, chiesi: “Non avete figli, né nipoti, il cui affetto possa lenire i vostri dolori?”
“Ho posseduto tutto, salvo perderlo tutto, e passare nella miseria e nel lutto una deplorevole vecchiaia. La città che ora si estende lungo la riva, un tempo coronava il colle che conserva ancora il nome di Santa Trinità, e dove si possono ancora vedere le vestigia degli antichi edifici. È stata la scena dei miei primi ricordi; è lì che siamo stati trattenuti dalla paura dei Turchi.
Da allora è passato mezzo secolo e più, ma ancora oggi mi sembra di sentire il suono della campana d’argento della chiesa allo spuntare del giorno, che chiamava al lavoro tutti gli abitanti del luogo, perché ognuno si sentiva obbligato a lavorare all’erezione del forte Della Camicia, il nostro unico baluardo per la salvaguardia dei nostri beni e dell’onore delle nostre mogli, figlie e sorelle. Tutti gli abitanti dell’isola, non solo i giovani e gli uomini forti, ma anche i ragazzi e le ragazze, le donne e gli anziani, diedero una mano a quest’opera di difesa, da cui dipendeva la nostra sicurezza. Mi sembra di vedere questo gruppo di lavoratori volontari che si affrettano verso il luogo del loro lavoro. Sì, signora, è stato un periodo di fatica, eccitazione e angoscia.
Si diceva che Michele Zicaro fosse l’uomo più felice della Maddalena; e in effetti lo era davvero, perché i pascoli dell’isola non bastavano alle sue numerose mandrie, che a volte venivano mandate a pascolare nei verdi prati dei Barrettini. Un degno circolo partecipava alla mia felicità, in mezzo a un gruppo di bambini che prosperavano intorno a me.
Santa Vergine! Non perderò mai il ricordo di quel giorno terribile, che mutò in lutto tutte le mie gioie? Era una bella mattina di primavera: tornavamo dalla chiesa, dove la mia figlia maggiore aveva appena ricevuto la benedizione nuziale, e, secondo un’antica usanza qui, scendevamo verso la spiaggia, per concludere la festa con un banchetto di nozze, con tanti ospiti gioiosi. All’improvviso mentre attraversavamo un burrone ci ritrovammo circondati da un’orda di pirati, appena sbarcati. Dopo una vana ed inutile resistenza, perché i nostri nemici erano molto più numerosi di noi ed erano ben armati, fui travolto con tale violenza, che persi i sensi e non ci vedevo più. Dopo un po’ ripresi conoscenza e il mio orecchio fu colpito da suoni di rabbia e angoscia. Capii subito tutto quello che era successo; i miei sfortunati compagni stavano sulla riva in atteggiamento disperato, indicando in lontananza una galea turca, a vele spiegate, carica di donne e di bottino. Erano le nostre mogli e figlie, prigioniere dei loro stupratori.”
“Tutti i tuoi figli! sono stati presi tutti?” chiesi al vecchio, le cui emozioni lo avevano costretto a interrompere la sua recita.
“Mi rimanevano due figli”, rispose con un sospiro, “ma anche loro mi furono presto portati via. Le mie ferite erano appena guarite quando ricevetti la notizia che il maggiore di loro era morto in un naufragio al largo della costa settentrionale di Africa! Quanto al più giovane, anche lui avrebbe fatto il marinaio. Era sordo alle mie preghiere e non si è lasciato prendere dall’avvertimento della sorte di suo fratello! Perseverò nella sua scelta. La flotta britannica apparve nelle nostre acque, e questa circostanza risvegliò la ambizione del ragazzo a tal punto che non poté riposarsi finché non ebbe ottenuto un posto sulla nave dell’ammiraglio. Il momento della sua partenza è sempre davanti ai miei occhi! Penso di ricevere di nuovo l’ultimo addio del mio caro ragazzo, la mia ultima e unica speranza! Era raggiante di gioia, parlava solo di successo e di pronto ritorno! Mi abbracciò teneramente e cercò di consolarmi, ma io ero triste e abbattuto e prevedevo un’altra sventura! Penetrato da questo presentimento, osservavo la scomparsa dell’ultima vela di questa splendida squadriglia, la cui presenza qui aveva riportato la sicurezza sulle nostre coste. La brillante vittoria sulle flotte francese e spagnola ottenuta dalla morte dell’eroe britannico privò il povero Zicaro del suo ultimo figlio! Il mio ragazzo è caduto nella battaglia di Trafalgar!”
“Ha preso parte, quindi, al destino di Nelson.”
“Sì, signora; avete nominato il grande uomo il cui esempio incantò mio figlio; e che uomo era! Mostrò per la prima volta il suo genio ad Aboukir, e, come una meteora, si levò in Oriente, e dopo una rapida carriera egli sprofondò, come il sole, in splendore, in Occidente.”
“Conoscevi personalmente l’Ammiraglio?”
“Non solo lo conoscevo bene, ma lo amavo molto”, rispose il vecchio con aria orgogliosa.
Spesso saliva sulle colline che guardavano il mare e, mentre si godeva l’incantevole prospettiva, mi faceva raccontare gli episodi della mia vita e la storia della nostra piccola isola. La chiesa della Maddalena possiede un ricordo della sua generosità, due bei candelabri e un calice d’argento. Quando si congedò da noi, promise che, se fosse tornato vittorioso dalla battaglia che aveva progettato, avrebbe fatto all’isola un regalo di valore pari a un brigantino ben carico. Ah, signora, le assicuro che non è la perdita di questo ricco dono che mi rammarica, ma la morte prematura di un uomo così grande e del mio povero ragazzo!”.
“Zicaro, in quell’epoca eri nel pieno potere della virilità, e non ti sei risposato?”
“Ah, signora, l’ho fatto; e durante quel secondo matrimonio ho visto una nuova primavera intorno a me, finché quella terribile malattia, che anche tu devi conoscere bene, ha decimato la nostra popolazione, e mi ha privato subito della moglie e dei figli.”
“Davvero! e qui il colera era così violento?” “Ahimè, sì; e non appena sembrò chiaro, tutti i nostri medici ci abbandonarono al nostro destino. I malati e i moribondi furono privati di ogni aiuto, e coloro che scamparono alla malattia dovettero poi sopportare i morsi della fame, perché le autorità della città interdissero l’importazione di ogni cosa. Coloro che non avevano mezzi per fuggire in Sardegna sarebbero morti di carestia, se il Governo non fosse intervenuto e non avesse preso provvedimenti per fornirci i viveri. Tra pochi giorni celebreremo l’anniversario dei morti – giorno consacrato dalla Chiesa alla visita alle tombe, che poi ogni anno inghirlandiamo di fiori freschi. Scendo ora dal cimitero, dove sono stato per prepararlo per questa cerimonia. In quel luogo triste, dove tutta la mia felicità è sepolta, ho passato gran parte della notte assorto nel dolore e nel riepilogo dei miei successivi lutti.”
Questo racconto mi ha gettato in una meditazione piuttosto triste. “E allora”, pensavo, “questo piccolo angolo di terra, poco conosciuto e meno visitato, non è sfuggito alle vicissitudini del destino. Le sue rive, in apparenza così tranquille, sono state teatro di molte sanguinose invasioni. La sua gente è stata vittima di malattie. Hanno sopportato la carestia, e qui, come ovunque, le passioni hanno avuto il sopravvento. Gli echi delle guerre europee si sono riverberati su questi scogli, e la memoria dell’eroe navale d’Inghilterra rivive nei cuori di questi isolani, mescolata a gratitudine per i benefici che aveva loro conferiti. Eppure i loro annali devono ancora essere scritti, e nessun bardo li ha ancora cantati. Tutto ciò che è sfuggito all’oblio vive solo nel cervello eccitato e nel cuore spezzato di un povero novantenne, che presto dovrà morire lui stesso e i suoi ricordi saranno sepolti nella sua tomba.
Tali erano i miei pensieri mentre varcavo di nuovo la soglia della casa e cercavo la mia camera.
Se il mio incontro con Zicaro non fosse bastato a scacciare il sonno, sarebbe bastato il mio ambiente. Una semplice tenda di stoffa separava la mia stanza dal letto delle tre signore, così che ero uditrice obbligata del monologo addormentato di una, del russamento costante della seconda e della tosse asmatica della terza, e tutti questi suoni si mescolavano con il chiocciare degli uccelli che condividevano il loro appartamento. Ma il rumore che più mi turbava era il picchiettio di una pioggia che minacciava di rovinare la nostra escursione dell’indomani a Caprera. L’ascoltavo con una certa ansia, poiché a volte sembrava diminuire e poi aumentare di nuovo, finché non udii distintamente i passi di qualcuno nel vestibolo, che sembrava brancolare nel buio alla ricerca di qualcosa che non riusciva a trovare. All’improvviso ci fu un violento schianto, accompagnato da un grido di allarme, che mi fece sobbalzare.
“Santo cielo!” – gridarono tutte insieme le donne, “che cosa può essere successo?” “Cosa può essere successo?” riecheggiò una voce che riconobbi subito: “venite a vedere e aiutatemi”.
“Il Capitano è tutto in cantina,” esclamò il più giovane dei tre. “Solo la metà”, rispose il mio vivace amico; “la metà superiore è ancora in aria, mentre quella inferiore è sospesa nel vuoto.”
Durante questo breve colloquio le donne avevano acceso un lume e indossato in fretta alcuni indumenti indispensabili, prima di correre in suo soccorso. Non sarei stata una donna se non avessi ceduto alla mia curiosità e non avessi sbirciato dalla porta socchiusa per accertarmi con i miei occhi cosa fosse successo. Nonostante il vero interesse che provavo per la sua disavventura, non riuscii a trattenermi da una sonora risata quando vidi le tre sorelle, nei costumi più fantastici, fare tutti i loro sforzi per liberare il loro ospite dalla trappola in cui era finito.
“In nome di tutti i santi!”, disse, “tanto valeva vivere al tempo di Don Chisciotte e dei cavalieri erranti, se non si può attraversare la stanza alla ricerca della propria borsa da viaggio senza cadere in un’imboscata! Volendo prendere il mio caffè per prepararlo per la mattina, il pavimento ha ceduto e sono caduto”.
“Solo in cantina!”, interruppero le donne.
“Solo!” rispose lui. “Beh, grazie al cielo, non sono messo peggio di quanto lo sia stato il Santo Padre stesso quando ha visitato il convento di Sant’Agnese”. Con queste parole scomparve nella sua cella.
In seguito scoprii che la sua allusione si riferiva alla storia del Papa e dei suoi dignitari che erano precipitati attraverso il pavimento del refettorio di un convento quando avevano banchettato con i monaci, senza conseguenze più disastrose della caduta del capitano.
Capitolo II
L’Isola di Caprera e il suo Cincinnato
La pioggia era appena cessata. Il cielo cupo, ancora coperto di nuvole, gravava pesantemente all’orizzonte, quando, determinati a sfidare il tempo e attrezzati di conseguenza, lasciammo il nostro alloggio alle otto del mattino.
“Le strade sono troppo in cattivo stato per permettervi di andare via terra alla Punta della Moneta,” disse il nostro cicerone Susini, “e perciò ho ordinato alla barca di maestro Giulio di portarvi direttamente a Caprera, ed egli stesso verrà prendersene carico.”
Il fango denso che ricopriva le poche strade che dovevamo percorrere fino alla riva giustificava pienamente le parole di Susini. Ci siamo quindi avvalsi volentieri del suo progetto, e sulla spiaggia abbiamo visto la barca di Giulio prepararsi per la nostra accoglienza.
Mentre scendevamo dissi a Susini: «Vedo che non ti mancheranno mai materiali per le tue case, poiché le costruisci con lo stesso granito su cui getti le fondamenta; infatti notai che sulla roccia stava sorgendo un nuovo edificio, dal quale i muratori stavano allo stesso tempo estraendo le pietre per le sue mura.
“La maggior parte di queste isole”, rispose, “sono immense cave di granito, ma la qualità e il valore variano molto. Quello di quest’isola è inferiore, ma alcuni di esse ne producono uno ricco di scaglie e con una sfumatura rosata, che può essere paragonato a quello proveniente dall’Egitto. L’isola “Dei Cavalli”, che avete visitato durante il vostro viaggio, è famosa per le sue antiche cave romane, dove sono state trovate, come anche a [Capo] Testa, in Sardegna, alcune colonne modellate allo stato grezzo e altre quasi finite. Sappiamo dalla storia che i Pisani presero dalla penisola di [Capo] Testa le colonne della loro chiesa di San Giovanni, ed è molto probabile che il peristilio del Pantheon provenga dalla stessa fonte”.
L’arrivo di Maestro Giulio interruppe la nostra conversazione. Venne a dirci che la barca era già pronta, e noi prendemmo subito posto, insieme a suo nipote e ai suoi tre figli, tutti con fucili da caccia in mano e cani al fianco, e tutti diretti a Caprera per una giornata di svago. Susini, augurandoci un buon viaggio, promise di incontrarci la sera alla Punta della Moneta.
* * *
“Che barca è quella, che attraversa lo stretto?” chiese il Capitano D.
“Dev’essere del generale,” disse Giulio. “Avete ragione,” rispose il capitano, “perché ci aveva promesso di incontrarci alle nove, ed eccolo lì, senza dubbio, con la consueta puntualità.”
Tuttavia, tra noi e la vela bianca che aveva attirato l’occhio acuto del mio compagno c’era una lunga distanza, e ebbi tempo e svago sufficienti per osservare le forme capricciose delle rocce mentre remavamo accanto a loro. Sulla costa sarda, proprio di fronte alla Maddalena, ce n’era una che mi divertiva particolarmente. Si chiamava “Capo dell’Orso”, perché sulla sua sommità c’era un blocco di pietra che somigliava proprio a un orso seduto sulle anche. Se consideriamo che questo promontorio ha lo stesso nome nella geografia di Tolomeo, dobbiamo concludere che la sua forma era la stessa 2000 anni fa; e poiché deve essere l’azione dell’atmosfera che nel corso di molti secoli ha scolpito queste solide rocce nelle forme che portano, l’origine di queste curiose somiglianze si perde nell’oscura notte dei tempi.
Mentre la vista di un paesaggio così nuovo per me deliziava la mia mente, la barca che avevamo visto in lontananza si era gradualmente avvicinata a noi e ben presto riuscimmo a distinguere il generale seduto al timone. Poco dopo eravamo abbastanza vicini per scambiarci i saluti. “Penso”, disse il capitano D., “che faremo meglio a rimanere nella barca di Giulio, perché il vento è alto ed è sempre difficile cambiare quando c’è molto mare”. “Non ce n’è così tanto da obbligarci a rifiutare la civiltà del Generale”, risposi; e in pochi minuti eravamo saliti dal nostro povero skiff alla bella barca del Generale; e quando gli espressi il mio rammarico per il fatto che dovesse perdere così tanto del suo prezioso tempo, rispose, con ingenua grazia: “Oggi ci sarà solo un operaio in meno a casa mia, e una visita come la vostra è una piacevole scusa per una vacanza. Ora faccio solo la guerra con la pietra, e vedete”, mostrando la mano irruvidita dal lavoro, “se un giorno di riposo non è auspicabile per il povero costruttore!”.
Dopo una breve corsa, la veloce barca entrò in un piccolo porto, formato dalla natura; e attraversando in pochi passi la spiaggia, calpestammo il suolo odoroso e il verde e fitto prato di Caprera.
Ma quanto è diversa dall’isola sorella! Nessuna pittoresca barca da pesca dà vita alle sue acque, nessun angolo piacevole appare lungo le sue rive, nessun forte in rovina corona le sue alture, ma una catena montuosa dopo l’altra innalza le sue aspre masse in forma di anfiteatro davanti all’occhio meravigliato del forestiero! Tutto ciò che la circonda è severo e vasto, come se la Natura l’avesse appositamente progettata per la residenza del Cincinnato dei nostri giorni! Il lentisco e il corbezzolo, il mirto e l’erica, e numerose piante aromatiche, si raggruppano tra le rocce e sul manto erboso su cui, in salite più o meno ripide, si cammina dal mare alla dimora di Garibaldi.
Una breve mezz’ora ci portò al recinto di aiuole che si estende lungo la facciata della casa. Diversi cani corsero ad accogliere il loro padrone con l’espressione violenta della loro gioia, e per essere ricompensati dalle sue carezze.
“Quelle devono essere le rovine della tua prima abitazione,” dissi, indicando una casa di tronchi caduta.
Della mia seconda”, rispose. “La mia prima era una semplice vela, con la quale ho fatto una tenda; ma se me lo permettete, ora vi condurrò nella mia terza, che ho costruito con materiali più durevoli. Come vedete, ha solo un piano, e ho copiato lo stile delle ville sudamericane, coprendolo con un tetto piatto che forma una passeggiata a terrazza.”
Il bell’aspetto di questo modo di costruzione è estremamente gradevole alla vista; e, entrando in casa, scoprii che l’interno corrispondeva nel carattere alla facciata, un elogio che non sempre si può attribuire ai nostri tessuti moderni. Ogni stanza era ampia e ben ventilata. L’armonia delle loro proporzioni dimostra che l’architetto pensava più a realizzare appartamenti che a sottomettersi alle semplici regole della sua arte.
In una stanza che era stata occupata da uno dei due amici che condividevano la vita rurale del Generale, osservai una piccola collezione di bandiere di diverse nazioni; e, dopo aver chiesto il significato di questi ricordi di guerra, sembrava ansioso di evitare una risposta, e subito lasciò la stanza, perché non è uno di quelli che raccontano i propri successi.
Queste bandiere, che ora esaminavo più attentamente, erano i trofei dei suoi trionfi e ricordavano molti episodi brillanti della sua eroica carriera. Fissai lo sguardo sullo stendardo di Montevideo, presentato al suo valoroso difensore dopo la battaglia di Sant’Antonio. Era l’8 luglio 1846 – una giornata memorabile – quella in cui Garibaldi, alla testa di 200 italiani, si trovò circondato da una truppa, composta da 1200 uomini, al comando del generale Gomez. Invece di stare sulla difensiva, cosa che, in circostanze simili, nessun capo avrebbe potuto essere biasimato, attaccò, con il suo pugno di seguaci, questa forza così notevolmente superiore in numero, e dopo un conflitto di cinque ore, Gomez, con la sua fanteria in disordine e la sua cavalleria in confusione abbandonò il campo al suo vincitore!
La contemplazione di questa bandiera mi ha fatto venire in mente anche la piccola opera di Alexander Dumas “Monte Video, ou la nouvelle Troye”, in cui rende una giustizia così trascendente al suo impavido difensore, proclamando con entusiasmo la sua superiorità come guerriero e come uomo! I fatti raccontati in quel libro sono, come ammette lo stesso Garibaldi, del tutto veri; ma sembra che gli elogi che gli furono rivolti gli siano apparse eccessivi, tanto da impedirgli di ringraziare l’autore per la sua opera.
Visitata la casa, il Generale ci invitò a rinfrescarci; ma avevamo così poco tempo, ed ero così ansiosa di passeggiare per i suoi terreni, che proposi di iniziare subito questa spedizione. “Almeno,” disse, “permettimi di presentarti prima mia figlia Teresa,” e uscì dalla stanza per cercarla.
Lanciai una rapida occhiata alla sua biblioteca. A mio avviso la biblioteca di un uomo è il miglior indice del carattere di colui che l’ha formata; perché i libri non sono come visitatori indesiderati: non arrivano spontanei e circondano solo coloro che li cercano e li amano. Questa piccola raccolta era composta principalmente da opere solide quanto il loro possessore, che hanno seguito fino alle selvagge coste di Caprera per deliziare i suoi brevi intervalli di svago. Accanto ai migliori trattati sull’arte della guerra e della navigazione, vidi i nomi di Shakespeare, Byron e Young; più avanti c’erano le opere più pregiate di filosofia e scienza naturale, il “Cosmo” del grande pensatore tedesco, l’Etica di Plutarco, i Discorsi di Bossuet e le deliziose Favole di La Fontaine, che nascondono tanto di profondo sotto il travestimento di ingenuità.
L’ingresso della giovane Teresa concluse la mia rassegna letteraria. Salutai con molto interesse questa bella ragazza, nei cui lineamenti regolari riconobbi le tracce del volto di suo padre, mentre la flessibile fermezza dei loro movimenti mi ricordava l’origine brasiliana di sua madre. Mai una carnagione castano-dorato si è armonizzata così bene con i capelli chiari. Era forse la dolcezza dei suoi occhi color castano scuro, o l’espressione di una fisionomia che ora tradiva la petulanza di una bambina, ora la timidezza di una giovane fanciulla, a conferire un così grande fascino a tutta la sua persona? In onore della nostra visita, aveva assunto un aspetto da “toilette extraordinaire”, ma avrei preferito vederla nel suo solito costume, con la fionda che usa così abilmente gettata sulla spalla. Curioso che questo antico strumento di guerra e di caccia conservi ancora la sua posizione in questo regno, e che la forma della “Fionda” sarda sia così identica a quella che Davide usò nel suo combattimento con Golia!
Cominciammo ora il nostro giro dei giardini, che fu un’impresa di alcune ore, il cui piacere superò la fatica; poiché il rilievo di questa vasta tenuta, appena messo a coltivazione, e le giudiziose spiegazioni della nostra guida, così eminente in tutto ciò che fa, sono state tanto interessanti quanto istruttive.
Fu nel mese di maggio del 1855 che Garibaldi sbarcò per la prima volta a Caprera, che allora si sarebbe potuta descrivere come un ammasso di granito, rivestito qua e là da una sottile crosta di terra, in parte così ricoperta di pietre sciolte che produceva poco più che qualche rovo e una scarsa scorta di piante aromatiche; ora, dopo appena due anni e mezzo (quando ero lì) si possono vedere una bella casa e un giardino, e un ampio spazio coltivato, interamente circondato da un “muro a secco”, un modo di costruire molto utilizzato in Toscana e in altri piccoli Stati italiani, con questa differenza però che mentre tutto ciò che avevo visto prima non erano che pietre grezze poste l’una sull’altra, il muro attorno a questo dominio, sebbene ugualmente senza malta, era costruito con blocchi che erano stati squadrati e levigati dall’utensile. Garibaldi mi disse che gran parte di questo lavoro lo aveva fatto con le sue mani, ma che altri impieghi necessari lo obbligavano a rinunciarvi.
Questo recinto comprende nei suoi limiti un vivaio di cipressi e castagni, fichi e altri alberi da frutto, e un giardino di ortaggi, viti e perfino canne da zucchero. Tutto fiorisce sotto questo cielo magnifico e questo sole fecondante. Qua e là sono distribuite pozze d’acqua, alimentate da sorgenti naturali, che mantengono una sufficiente umidità che, unita al calore del sole, accelera lo sviluppo della vegetazione.
Diverse fornaci stavano bruciando in carbone le radici degli arbusti che erano stati ripuliti dal terreno. Ma mentre ogni pendio appena arato, dove fino a poco tempo prima il cespuglio e la pietra avevano regnato sovrani, prometteva un ricco raccolto, il latrato di un cane e ogni sparo echeggiante, ora debole, ora più forte, avvertivano i poveri uccelli sui rami carichi di bacche che non potevano più godersi la vita in sicurezza.
Se la valutazione di questo giovane e promettente possedimento ci diede tanta gratificazione, la conversazione avvenuta durante la cena non ci diede meno piacere. Si parlava soprattutto in italiano, ma di tanto in tanto il Generale si esprimeva in francese, con quella rara perfezione così difficile da raggiungere. La sua voce sonora, piena di potenza e dolcezza, richiamava alla mente le qualità dominanti del suo carattere; e se il suo linguaggio eloquente non era condito con spirito, era sempre pieno di conoscenza ed entusiasmo, come raramente si incontra in un uomo d’azione.
Quando qualche anno fa lessi il Diario della Campagna d’Italia (“Hoffstetter’s Tagebuch aus Italien”) di Hoffstetter, un’opera che offre un quadro fedele degli avvenimenti del 1849, e contiene anche molti particolari interessanti della vita pubblica e privata di Garibaldi, ero lontano dal pensare anche solo alla possibilità di ricevere l’ospitalità di quest’uomo eminente, le cui gesta suscitarono allora tutta la mia simpatia.
La nostra conversazione si spostò naturalmente sul passato. Conoscendo i disastrosi eventi che causarono la morte di sua moglie, non osai pronunciare il suo nome, ma il Generale stesso mi ci portò.
Sembrava gli piacesse che tutte le occasioni in cui l’Amazzone brasiliana aveva dimostrato il suo coraggio e la sua prontezza di spirito fossero particolarmente impresse nella mia memoria, e con la stessa animazione che spesso illuminava il suo volto quando il suo amato Paese era il suo tema, così ora parlava con gli occhi pieni di lacrime e la voce tremante dell’eroina di Imbiturba, Morroda Barra, Caquari e Lages. Ma non fu solo delle sue qualità eroiche che parlò. Raccontò con orgoglioso riconoscenza le virtù femminili della mai dimenticata Anita. I suoi sacrifici come moglie e madre, l’eccellenza del suo cuore e l’affabilità dei suoi modi, non sapeva come elogiarli a sufficienza, e allo stesso tempo la additava a sua figlia come modello ed esempio.
Nell’anno 1849 fui testimone dell’entusiasmo che suscitò quando si affrettò a riscattare la Città Eterna da un giogo vergognoso; e se quell’esplosione concitata, quei tonanti “evvivas” trovarono allora un’eco nel mio cuore, la venerazione che ora sento per il Liberatore deve essere naturalmente doppiamente intensa e vera. Nessun elegante mantello americano ora gli pende sulle spalle. Nessuna piuma di struzzo sventola fiera dal suo elmo. Nessun moro vestito in modo pittoresco segue il suo destriero. Nessun compagno devoto obbedisce al suo cenno! In sobri e umili abiti civili, con solo due fedeli amici con cui condividere il tempo libero della sua isola rocciosa, la coltivazione di un terreno incolto è l’oggetto della sua attività, l’educazione di due cari bambini la sua ricreazione!
Ma non è la disperata disperazione, non è la meschina irritazione che lo ha posto in esilio volontario e in apparente oblio. Lo stesso eroismo, la stessa speranza, lo stesso amore per la patria riempiono ancora il suo cuore, e anni luminosi si apriranno sulla sua vita futura! Ma proprio perché lo spingono i motivi più puri, le intenzioni più onorevoli sono il suo incitamento, preferisce aspettare con pazienza e abnegazione, piuttosto che prostituire le sue capacità per soddisfare una brama di fama o un ambizioso amor proprio.
Dopo cena, mentre ci preparavamo a uscire di nuovo di casa, il tempo appariva incerto; si era levata una brezza fresca che ora raccoglieva in masse le nubi, ora di nuovo le disperdeva; lasciando passare un raggio di sole attraverso le loro aperture, per illuminare il quadro davanti a noi. Diversi piccoli cavalli si nutrivano tranquillamente, dando vita al prato verde; le capre si raggruppavano sulle vette più acute e si stagliavano in rilievo contro il cielo, rimanendo in perfetta immobilità finché Teresa non le sorprese con un sasso che sibilò nell’aria dalla sua fionda, ed esse saltarono giù, corsero sul terreno pianeggiante, e scomparvero.
Desiderando avere una visione dell’intero panorama dell’isola, intrapresi, sotto la guida dei due amici di Garibaldi, la salita del Tejalone; ma dopo esser saliti per più di un’ora, incontrammo alcuni blocchi di pietra, quasi inaccessibili, e boschetti di rovi assolutamente impervi. La vetta, che credevo così facilmente raggiungibile, ora appariva più lontana ad ogni passo e fui costretta a rinunciare al mio progetto. Lo stesso percorso verso il basso si rivelò molto più difficile di prima, cosicché fummo costretti a sceglierne un altro, dal quale ottenemmo una vista di un lato diverso dell’isola.
Sebbene Caprera sia lunga cinque miglia e ne abbia quindici di circonferenza, e gran parte di essa sia coltivabile, attualmente ci sono solo sei proprietari: il generale, signor C. della Maddalena, e quattro pastori. Il primo è l’unico che possiede una casa; il signor C. ha intenzione di costruirne una; mentre i pastori vivono in alcune grotte naturali tra le rocce. Fui condotto all’imboccatura d’una di queste grotte, e qui trovammo mastro Giulio e i suoi figlioli, che avevano finito il loro sport, e discorrevano con un pastore e alcuni altri cacciatori.
“Ne avete ucciso molti oggi?” chiese uno dei miei compagni.
“Solo due cinghiali”, fu la risposta. “Il cattivo tempo attenua l’ardore e guasta l’odore dei cani.”
“E questi cinghiali, a chi appartengono?”
“Cosa!” esclamai, “c’è qui anche il proprietario “del gioco”? e come faranno i cacciatori a sapere a chi appartiene?”
“In quest’isola, signora, come in molte parti della Sardegna e della Corsica, i cinghiali da noi cacciati non sono che una razza sfuggita ai maiali domestici; e appena un proprietario vede una scrofa selvatica con una cucciolata al fianco, li segna in un modo particolare che dura fino alla loro morte, e così diventano sua proprietà.”
Continuammo a conversare su questo curioso argomento finché arrivammo alla casa, senza pensare a quanto fosse tardi, sebbene il crepuscolo ci avvertisse già di partire. Il vento era molto aumentato e il nostro coraggioso ospite dichiarò che doveva riportarci indietro lui stesso; e lui, suo figlio e uno dei suoi amici si prepararono di conseguenza.
Le acque dell’Arcipelago, a volte tranquille come quelle di un lago, erano ora molto agitate. Il vento fischiava con furia e faceva volare davanti a sé la nostra leggera canoa sulle onde spumeggianti.
Menotti eseguì con rapidità e precisione le indicazioni del padre, e il suo amico e Capitano D gestiva le vele. La paura era impossibile con uomini come questi, ma confesso comunque che non mi dispiacque quando la nostra chiglia stridette sulla riva. La signora C., che aveva osservato il nostro passaggio agitato dalla sua finestra, venne da noi e ci invitò a casa sua. Una bottiglia di vino prodotto da lei non era cosa da disprezzare; ci congedammo dal generale e dai suoi compagni, che ripartirono con la loro barca. Non so cosa avremmo fatto senza che Susini, puntuale all’appuntamento, ci guidasse a casa.
Era una di quelle notti che l’immortale poeta dell’Inferno chiama “una povera notte”, e fummo costretti a procedere a tentoni su una strada accidentata, sulla quale talvolta eravamo sospinti dal vento, talvolta inondati dalla pioggia, le raffiche si susseguivano quasi senza sosta.
Avevamo appena percorso la metà della distanza quando distinguemmo altri passi oltre ai nostri, e le mie orecchie si sorpresero nel sentire il mio nome pronunciato da una voce sconosciuta, e chi avrebbe potuto essere se non il signor C.-, che tornava a casa, conducendo il suo cavallo per la briglia!
Nonostante la mia voglia di fermarmi a parlare con l’eccentrico abitante della “Punta della Moneta”, in una notte così terribile potemmo scambiare solo una parola e una stretta di mano in inglese, e anche questo era molto per gente così stanca, e bagnati e a pezzi come eravamo noi. Finalmente dopo due ore di cammino raggiungemmo nuovamente il nostro alloggio.
Dimenticai presto le mie fatiche e le contraddizioni della nostra passeggiata notturna, perché prima ancora che avessi completato il cambio dei miei indumenti gocciolanti con quelli asciutti, fu annunciata una visita del Capitano R.
La conversazione di un uomo simile, così pieno di buon senso e di fantasia, mi affascinò ancora di più in quanto esprimeva un vivo interesse per l’Italia e un amore per le belle arti, che ben presto produssero quella sorta di comprensione reciproca che esiste sempre tra persone di gusti simili. L’intimità del Capitano R. con Byron e Shelley aveva lasciato nella sua mente una riserva di preziosi ricordi. Mi raccontò i particolari della passione che Byron aveva concepito per la bella Guiccioli. Parlò del suo entusiasmo per la causa della libertà, della sua condotta generosa verso i congiurati della Romagna, dove il suo nome è ancora tenuto nella pubblica venerazione, poiché sapeva suscitare ammirazione per il suo carattere così come per il suo genio. Mi raccontò anche della profonda malinconia che colse il grande poeta quando perse la figlia Allegra. Il capitano R. raccontò poi con la più viva emozione la morte del suo amico Shelley, accompagnata com’era da alcune straordinarie circostanze.
“La sera prima di quel triste evento”, disse, “ero con Shelley e Byron alla festa che fu data in loro onore a bordo di una nave da guerra inglese, che allora si trovava davanti a Livorno. Dopo che il ballo finì, Shelley, accompagnato da uno dei suoi amici, il signor Williams, volle ritornare alla sua villa, e partì con una piccola barca per Lerici, nel Golfo della Spezia. L’opinione generale attribuiva l’incidente ad una tempesta; ma non può essere stato così, infatti, durante tutta la notte in cui Shelley annegò, il cielo fu limpido e il mare calmo. La sua barca doveva essere stata investita da qualche nave, o urtato contro uno scoglio sommerso, cosa che penso sia confermata dalla circostanza di aver trovato nella barca, dopo che fu sollevata dal fondo del mare, un pacchetto di piatti d’argento che erano stati usati per la festa esattamente nel punto in cui l’avevo riposto.
La triste perdita dei nostri due connazionali ci raggiunse ma troppo presto. Andai subito con alcuni amici a Viareggio, dove il mare aveva portato a riva i corpi. Arrivammo in tempo per adempiere agli ultimi doveri di amicizia. L’ostilità italiana contro i protestanti era allora maggiore di quanto lo sia oggi, ed essi non permettevano che seppellissimo i corpi. Non ci restava altro che bruciarli. Non dimenticherò mai la desolazione e la solennità dell’aspetto di questa cerimonia funebre,” disse il capitano R. con un’emozione la cui forza era stata appena attenuata dai trentacinque anni trascorsi. Dopo una pausa, continuò così:
-“Scegliemmo un punto vicino alla riva, e vicino ad una di quelle grandi croci così frequenti in Italia. Davanti si trovava il Mar Mediterraneo, punteggiato dalle sue bellissime isole. Dietro appariva la maestosa catena degli Appennini. A destra rimanevano boschi di pini e sottoboschi di piante folte, di cui i venti oceanici avevano piegato e rachitico i rami più alti. Una calma perfetta regnava sulle acque. Piccole onde accarezzavano la sabbia gialla, il cui colore contrastava finemente con quello dello zaffiro azzurro di un cielo quasi orientale! Le montagne gigantesche mostravano nitidi i loro contorni innevati nella pura atmosfera.
Al centro di tale scena si levava la fiamma viva che stava riducendo in cenere i corpi dei nostri due amici. Il fumo avvolse la croce per un momento, per poi salire in alto verso il cielo, come simbolo della fede cristiana e dell’immortalità dell’anima.
“Il cuore del Poeta era stato rimosso e successivamente sepolto con le sue ceneri nel cimitero protestante di Roma.
“Fu così che l’Inghilterra perse uno di quegli uomini di genio che promettevano di accrescere le sue glorie. Nessuno nega la grande colpa di Shelley. È difficile difenderlo; ma non bisogna dimenticare che dopo che il suo matrimonio gli aveva conferito più felicità d’animo, la sua irritazione contro l’umanità si fece meno amara: aveva cominciato a rettificare le sue opinioni, e in questo possiamo trovare qualche conferma alla convinzione che se fosse vissuto più a lungo, avrebbe abbandonato completamente i suoi errori e il suo genio avrebbe brillato senza macchia.”
Tale era il racconto del capitano R., ed esso ci aveva trasportato, senza accorgercene, fino a tarda notte. Il lume fioco della nostra lampada portava con sé la prova dell’ora tarda. Sembrava compiaciuto dell’opportunità di rievocare i suoi ricordi in presenza di qualcuno che evidentemente simpatizzava con lui. Si ritirò invitandomi pressantemente a prendere con lui un “pasto da anacoreta” il giorno successivo.
Capitolo III
Un giorno a La Maddalena
“Appena l’Aurora sul suo carro si avvicinò,
Un miserabile gallo cantò al momento giusto,
Immediatamente la nostra vecchia, ancora più miserabile,
Si vestì di una sottoveste sudicia e detestabile,
Accese una lampada, e corse dritta a letto,
Dove con tutta la loro forza, con tutto il loro appetito,
Dormivano i due poveri servi”.
La Fontaine
Fin dalla mia infanzia il programma dei miei impegni quotidiani prevedeva lo studio di una delle favole di La Fontaine, e se mai questi primi travagli della mia giovinezza mi tornarono vividamente in mente, fu in casa delle sorelle Fazio. Credo di aver già detto che il mio compagno e le mie ospiti si ritirarono a letto in tempo.
Non appena se ne furono andati cominciai a scrivere, e più o meno nel momento in cui stavo ottenendo il miglior sonno, “nos vieilles s’affablaient d’un jupon crasseux et détestable” [le nostre vecchie portavano una sottoveste lurida e detestabile], e cominciai i preparativi domestici per la giornata. Avevano scoperto che il “fils de la maison” [il figlio della casa] aveva prestato servizio un tempo sotto il capitano D., e in conseguenza di questa scoperta la loro amicizia per il valoroso marinaio era quasi diventata una passione. Si manifestava soprattutto nelle ore mattutine, quando faceva la sua prima apparizione. Lo sommersero di attenzioni, di domande e di esclamazioni, tanto che potevo ben dire con la povera Margherita: “Meine ruhe ist hin”! “però, grazie a Dio, il mio cuore non era oppresso!”; ed ebbi un certo piacere nell’udire queste conversazioni in dialetto genovese, mentre tagliavano il pane e scaldavano il caffè per la colazione.
Il canto del gallo ci aveva svegliato in questa mattina di una splendida giornata. La pioggia notturna aveva esaurito tutte le nuvole e il sole aveva riscaldato l’aria mite intorno a noi. Era una di quelle belle mattine autunnali che si vedono solo in Italia e che ci fanno sognare la primavera.
Alle otto Susini bussò alla porta per portarci nella sua casetta a fare colazione.
L’ordine e il decoro, così rari in Italia, sembravano esserlo altrettanto alla Maddalena (ovviamente, tranne sempre la Tana dei Ruffo!). Restai sorpresa entrando nel salotto di Susini, pavimentato in mattoni e con le pareti imbiancate, di trovar lì un pianoforte di Broadwood, in contrasto con un arredamento altrimenti perfettamente spartano. Mi raccontò che sua sorella aveva sposato un inglese il quale, dopo la morte della moglie, aveva abbandonato l’isola, ma aveva lasciato questo strumento.
Sebbene avessi disperatamente bisogno del martelletto dell’accordatore, fui pregata di sedermi a suonare; ma, fortunatamente, l’arrivo di una giovane coppia mi permise di alzarmi di nuovo senza aver commesso troppo sacrilegio contro l’armonia.
Susini ci presentò, con apparente orgoglio oltre che piacere, a sua figlia, di circa quindici anni, sposata da pochi mesi con Augusto Fortuna. Questo giovane, che era stato un attore attivo negli avvenimenti del 1849, era stato costretto a fuggire dal suo paese all’ingresso dei francesi a Roma. Una felice sorte lo condusse alla Maddalena, dove, dopo il matrimonio, si è in certa misura naturalizzato. Era visibile in lui il prototipo di quel volto bello e cupo che si incontra al Corso nelle ore della Passeggiata; mentre la sua giovane moglie, bella, fresca e delicata, potrebbe essere paragonata davvero a una rosa che sboccia. Il marito era un “elegante”. Indossava stivali laccati. La sua cravatta aveva l’ultimo nuovo nodo, il suo fazzoletto l’ultimo nuovo profumo, e le sue mani erano coperte di guanti di capretto dell’ultimo nuovo colore. Quanto alla signora, la circonferenza della sua crinolina, il numero delle sue balze, la bellezza dei suoi merletti e il taglio della sua magnifica veste di seta; insomma, tutto nella sua toilette era così perfettamente conforme alla moda che avrebbe potuto entrare in qualsiasi saloon di Parigi senza suscitare la minima sorpresa, se non per la sua bellezza.
A guardare i blocchi di roccia grezza e i capanni da pesca di questa piccola isola, chi avrebbe mai immaginato che anche qui regnasse, in tutta la sua tirannia, quella forza irresistibile che chiamiamo “La Moda?”
“Cosa dovremmo fare ora?” disse Susini, alzandoci dalla colazione. “Vorresti salire sulle alture de ‘La Trinità e della ‘Guardia Vecchia’ o preferiresti una visita al Capitano Ror Mr. Webber?”
“Spero”, dissi, “che con la vostra guida riusciremo a fare l’intero giro dell’isola; ma, prima di tutto, andiamo a chiedere del capitano R, il quale mi ha fatto sapere che si è ammalato stanotte e non può riceverci oggi a pranzo.
«Temo che il nostro caro amico sia stato assalito da una di quelle violente palpitazioni del cuore alle quali è troppo soggetto» disse Susini. “Tuttavia negli ultimi tempi sono diventate meno frequenti, e c’è da sperare che il nostro clima gli permetterà di scacciarle del tutto.”
Presto arrivammo alla sua abitazione. Il suo aspetto alterato mostrava la gravità della sua malattia. Dispiaciuto di non poterci ospitate a cena, ci invitò a ritornare per l’ora del tè, e su suo consiglio rimandammo alla sera la salita de “La Trinità”, per poter vedere il tramonto dalla sua cima.
Ci offrì la sua barca per portarci alla fattoria. La giornata era così bella che si poteva dire che presentasse contemporaneamente il fascino di tutte le belle stagioni. Il respiro della primavera soffiava sotto il cielo dell’estate, e il cielo aveva la trasparenza e i colori magici dell’autunno. La nostra barca scivolava leggera lungo la riva fluente e io mi sentivo come sotto l’incantesimo di un sogno affascinante. Una deliziosa sensazione di silenzio e di solitudine mi pervase appena posai il piede sulla riva sorridente e deserta.
Cosa c’è che ha sull’animo un effetto più esaltante e stimolante della solitudine e dell’intima conoscenza della natura incontaminata? Giustamente l’uomo è stato creato per la società. Può essere che il trambusto della vita sia la migliore scuola di carattere, il miglior campo di formazione della virtù; ma oso affermare che, come l’alberello stenta nella sua crescita se piantato troppo fittamente, così le qualità più nobili dell’uomo subiscono una simile restrizione a causa di un contatto incessante con i suoi simili. Penso che tenderebbe a diminuire la noia della vita se, invece di rifuggire la solitudine, ci abituassimo ad essa come uno dei primi doveri dell’autoeducazione, e cercassimo, nella conoscenza di noi stessi e della natura, quegli imperiture tesori che sono così indispensabili nella lotta del mondo, ma così raramente raggiunti.
Con quale gioia camminavo lungo questa pianura liscia, ora premendo sotto i miei piedi un’erba vellutata, ora una pista di sabbia fine che scintillava al sole! Qui correva veloce sul terreno un grazioso scarafaggio, con le ali lucenti come metallo; e lì una moltitudine di lucertole che scodinzolavano, dimostrando che anche a novembre si era ancora sotto l’influenza dell’estate.
Non cercate qui le bellezze dell'”Isola Bella” o dell'”Isola Madre”, tanto ammirate dal timido turista che non osa oltrepassare il “Lago Maggiore”, confine generale dei suoi viaggi, e che sembra pensare che l’Italia sia un semplice covo di briganti, dimenticando che i giornali quotidiani raccontano di omicidi e rapine nel centro di popolose città, più frequenti e più orribili di quanto mai accaduto nei luoghi che teme di visitare. Le bellezze qui sono di un tipo diverso!
Né vedrete cancelli di ferro, adornati con orgogliosi scudi araldici, né dovrete aspettare finché un portiere grassottello non sceglie di rispondere alla tua convocazione. Qui non sei posto sotto la supervisione di una serie di custodi, finché alla fine non sei consegnato al giardiniere, per ascoltare il suo incomprensibile catalogo di piante esotiche. Qui non c’è niente del genere; vi trovate nei terreni del Capitano N.– prima ancora che ve ne rendiate conto, perché un basso “muro a secco” difficilmente avrà attirato la tua attenzione, e non c’è altra protezione. Raccogliete tutti i fiori che volete, perché non c’è nessun custode dagli occhi di Argo a vietarvelo. Alla natura e soltanto alla natura è affidata la formazione, il nutrimento e la protezione di questo giardino naturale.
Non commetterò lo stesso errore che rimprovero ai grandi giardinieri, e mi astengo quindi da qualsiasi catalogo delle piante che fioriscono in questo piccolo angolo, così ben protetto e così soleggiato; ma vi possiamo trovare tutti i doni di Flora e Pomona, dall’erica comune alla palma tropicale, dal lentisco alla vite, dal cavolo alla canna da zucchero.
***
La casa del signor Webber, verso la quale ci dirigemmo successivamente, è situata a circa un miglio dalla riva e forma, con i suoi terreni circostanti, un complesso abbastanza imponente da suscitare il desiderio di vederla più da vicino. Ci avvicinammo tramite un viale carrozzabile appena realizzato.
Il segno della ricchezza si manifestava da ogni parte; e se La Maddalena avesse solo qualche colono in più, così ricco, a cui il denaro rende tutto facile, la solitudine sognante dell’isola sarebbe presto sostituita dal rumore e dalla frenesia. Prevaleva la massima attività sia all’esterno che all’interno. Gruppi di braccianti lavoravano nelle piantagioni e negli edifici. Diversi stallieri stavano curando i lucenti mantelli dei focosi cavalli, mentre altri servitori aprivano casse di mobili eleganti. Le stanze erano piene di artigiani genovesi che posavano parquet e pavimenti variegati. Il rumore dei loro martelli scandiva i loro canti. Alcuni fischiavano e altri parlavano, eppure tutti erano così dediti al loro lavoro che era difficile trovare qualcuno che annunciasse il nostro arrivo.
Fummo introdotti in una stanza ricolma di opere d’arte, di quadri in magnifiche cornici e di libri con rilegature splendenti; e in mezzo a tutto questo non potevamo fare a meno di percepire che la nostra visita, sebbene accolta educatamente, era singolarmente inopportuna. Il signor Webber era piuttosto preoccupato per tutti i suoi tesori e per la nomina a viceconsole di cui aveva appena ricevuto l’annuncio ufficiale.
Seppi poi che il nuovo viceconsole aveva accumulato una grande fortuna in Australia, dove aveva passato dieci anni a fabbricare e vendere cappelli, circostanza che ridimensionò la mia meraviglia nel vedere come, nell’orgoglio delle sue ricchezze, avesse fatto sfoggio di tutta la magnificenza di città nelle lande rurali di un’isola remota come questa. L’edificio era di stile moresco-italiano, e ben posizionato in un anfiteatro di colline.
***
Dopo aver consumato con Susini il modesto pasto che le sorelle Fazio ci avevano preparato, e ripreso le forze con qualche bicchiere di ottimo vino, cominciammo la nostra passeggiata verso La Trinità. La strada si snodava gradualmente in leggera salita, ora ricoperta di rovi, ora di sassi. Di tanto in tanto incontravamo cortei di donne e ragazze, che recitavano devotamente il rosario, mentre tornavano dal loro pellegrinaggio alla cappella della Trinità, accompagnate da bambini carichi di rami di corbezzolo. Qua e là si vedevano cavalli, mucche e capre che vagavano libere.
Una camminata di un’ora e mezza ci portò al punto più elevato dell’isola. Non ricordo di aver mai avuto tanta gratificazione con così poca fatica. L’incomparabile limpidezza dell’atmosfera, unita alle tinte dorate di un tramonto autunnale, ci permise di tracciare i delicati contorni delle montagne più lontane. Da una simile altezza, e per qualche illusione ottica, le isole e i promontori tra La Maddalena e le coste sarde formavano in apparenza sei laghi.
***
In nessun libro, antico o moderno, ho mai trovato una descrizione della Maddalena. Mons. Mimaut, console di Francia in Sardegna, dove risiedette molti anni, è l’unico autore che ne abbia mai parlato. Parlando dell’area di Terranova [Olbia], dice –:
“Le isole delle Bocche di Bonifacio sono considerate il terzo distretto della provincia di Gallura. La più considerevole di esse è La Maddalena, l’antica Phintonis dei Greci e dei Latini, avente una superficie di sedici miglia quadrate. Caprera ne ha solo otto, e Santo Stefano cinque. Gli altri, Santa Maria, Razzoli, Budelli, Sparagi, difficilmente possono dirsi abitati, poiché contengono solo poche rozze capanne per il ricovero dei pastori quando vanno a pascolare le greggi dei contadini di La Maddalena. In quest’isola, in un punto chiamato “Calagaveta”, esiste una piccola comunità, composta da coloni provenienti dalla Corsica, in numero di circa 1500. (Questo è stato scritto nel 1825. Il loro numero ora supera i 2000. Il nome di “Calagaveta” non esiste più; almeno non l’ho mai sentito usare da nessuno).
Sono celebrati per le loro abitudini attive e laboriose, e anche per il loro carattere allegro. Sono tutti più o meno marinai, e prestano servizio nella marineria e nella marina mercantile della Sardegna.”
La chiesa di Santa Trinità, protetta dalla roccia più alta dell’isola, è l’unico edificio ancora integro tra i ruderi sparsi sul monte. Questo tempio, in tutta la sua primitiva semplicità, ha qualcosa di toccante. Le sue pareti sono ricoperte da una molteplicità di “ex voto” e immagini, che rappresentano le miracolose liberazioni dei fedeli da naufragi e altre calamità. Una volta all’anno, in occasione di una certa festa [ovviamente nel giorno e festività di Pentecoste], un prete dice messa in questo tempio rustico, le cui porte sono aperte giorno e notte. L’ordine e il decoro che regnano all’interno, i fiori appena raccolti che adornano il suo altare, dimostrano con quale zelo gli isolani visitano questo santuario.
Avrei voluto indugiare più a lungo sul luogo romantico di questa chiesa solitaria, se l’avvicinarsi del crepuscolo non ci avesse avvertito che dovevamo fare del nostro meglio per raggiungere il Capitano R. Dopo quella lunga giornata di cammino e di fatiche di ogni genere, la vista del suo tavolo da tè ben apparecchiato era ritemprante. Non mancava nulla alle comodità che un inglese sa così bene raccogliere intorno a sé ovunque si stabilisca, e noi ne godemmo con doppio entusiasmo quando vedemmo che l’indisposizione del nostro ospite era scomparsa, e che egli entrava con tutta l’energia della sua natura amabile in una conversazione notevole sotto molti aspetti.
***
Dopo averci fornito alcuni particolari molto interessanti della sua vita militare e dei suoi lunghi viaggi, prese dalla sua piccola libreria due documenti, che ora devono essere considerati delle rarità inestimabili. Uno era lo stesso diario che suo padre teneva quando era assistente a bordo della nave del capitano Cook, durante l’ultimo viaggio di quel grande navigatore intorno al mondo. L’altra era una carta molto esatta e minuta di quel viaggio.
“Il nostro governo”, disse il capitano R., “aveva tentato senza successo di esplorare il Polo Nord. Una legge del Parlamento offrì un’alta ricompensa per la scoperta del passaggio che si supponeva esistesse tra i due mari. Nel 1776 il capitano Cook intraprese la spedizione sulla goletta “Resolution”, e mio padre partì come secondo. Era molto abile nel misurare le distanze e nel tracciare le carte.”
Qui il Capitano R. ci ha chiesto di esaminare quello davanti a noi, che ci è parso di bella esecuzione. Mostrava l’intero percorso della nave dal Capo al Mar Artico, e il suo ritorno al luogo in cui il suo valoroso comandante fu assassinato.
Sembra che le isole scoperte da Kerguelen siano state il suo primo oggetto, e poi la Nuova Olanda e le Isole della Società, e l’arcipelago a cui è stato dato il suo nome. Proseguendo la rotta verso nord, toccò poi le coste dell’America. Ciò accadde nel 1777. Poi, attraversando lo stretto di Behring, pensò di aver raggiunto il suo scopo, quando all’improvviso si trovò impedito dal ghiaccio di fare ulteriori progressi. La rotta poi deviò verso l’Asia e costeggiò la Siberia. Anche in questo caso si verificò una delusione e la rotta fu ritracciata e proseguita fino alle Isole Sandwich, e i navigatori furono ben accolti a Owaihe e riforniti di tutto ciò di cui avevano bisogno. Di lì salparono per la Kamschatka, ma essendo questo progetto fallito a causa della perdita dell’albero maestro in una tempesta di vento, furono costretti a tornare a Owaihe. Questa volta, però, tutto sembrava cambiato! Gli indigeni si mostrarono ora traditori e ladri e presero una delle barche. Il capitano Cook si recò dal capo per reclamarlo, ma lungo la strada, assalito da uno degli indigeni, ordinò che gli sparassero addosso, e l’uomo fu ucciso. Avendo avuto occasione di fare rifornimento, gli uomini del capitano Cook avevano demolito una vecchia capanna, come credevano, ma sfortunatamente conteneva un feticcio. Il “sacrilegio”, come era considerato dagli indigeni, e la morte dell’uomo colpito da una fucilata, suscitò l’ira degli isolani, che si avventarono sul capitano e sui suoi quattro uomini e li massacrarono sul posto. Tutto questo ovviamente è ben noto, ma è stato molto interessante sentirlo leggere da questo diario con la mappa vera e propria davanti a noi. “Non so,” disse il capitano R, “se per derisione, o come trofeo di trionfo, mandarono un dito del capitano Cook a mio padre, che era rimasto a bordo, essendo il corpo stesso stato fatto a pezzi.”
Mentre il nostro amico ci leggeva il diario, notai che la carta su cui era tracciato il viaggio era a volte illustrata da disegni a penna e inchiostro, ed era così ben eseguita che non potei fare a meno di esprimere la mia sorpresa nel vedere nelle mani di un privato un documento che sarebbe l’orgoglio di qualsiasi museo reale.
Capitolo IV
Un capriccio prima di partire [: La Sardegna e Palau]
Avrei iniziato a pensare che l’ultima scintilla di eccentricità si sarebbe spenta in me se avessi lasciato queste isole senza toccare per un momento il suolo della Sardegna; e quindi, con totale stupore del mio compagno, e con totale incuranza delle grandi preoccupazioni che opprimevano la sua mente riguardo all’imminente pranzo, e ostinatamente decisa a seguire il mio capriccio, approfittai del bel mattino del giorno fissato per il nostro banchetto e per la nostra partenza, per trascinare il riluttante capitano sulla spiaggia non appena le prime strisce di luce del giorno fossero apparse ad Oriente.
Mentre i marinai preparavano la barca, notai vicino all’approdo una bomba fissata su un piedistallo di marmo. Questo proiettile, mi fu detto, era conservato come ricordo del giovane Napoleone, che nel 1793 lo sparò sull’isola, quando i francesi tentarono di impossessarsene. Il futuro imperatore non era allora che un tenente d’artiglieria.
Una distanza di circa tre miglia inglesi separa La Maddalena da Palau, il punto più vicino della Sardegna dove si può effettuare uno sbarco. La nostra barca si allontanò lentamente dalla riva, e potemmo ammirare la cittadina nel suo aspetto migliore.
Le case, ad uno e due piani, dipinte di rosa, giallo e verde, sorsero intorno all’anfiteatro naturale. Le colline, a un’altitudine di circa 300 metri, sono coronate dai forti Balbiano, Guardia Vecchia, Andrea e Camicia. I mazzi di fiori e di arbusti che abbellivano le case dei principali abitanti, le piccole barche che ravvivavano il porto, sopra il mare liscio e azzurro, formavano un connubio così felice e perfetto, che sembrava che una tempesta non avrebbe mai potuto disturbare la sua tranquillità.
Un po’ più tardi, quando il sole si alzò a poco a poco dietro l’isola di Santo Stefano, e vidi la luce brillante splendere sui luoghi più belli, sentii così intensamente l’influsso del dolce clima e l’incanto di questa solitudine della natura, che venni sopraffatta dal triste pensiero che di lì a poche ore il “Virgilio” mi avrebbe riportato ad una vita di relativa monotonia.
Fu con questa impressione che cominciai a mettere alla prova le mie forze per persuadere il capitano D. dell’opportunità di rinviare il nostro ritorno in Italia. Gli proposi di recarsi via terra a Porto Torres, e di proseguire col piroscafo della settimana prossima fino a Genova. Per scuotere le sue decisioni, gli raffigurai con colori luminosi il piacere che avremmo provato nel correre per la regione montuosa e le verdeggianti valli della Gallura. Gli dissi che avremmo potuto fare un pellegrinaggio al santuario di Logu Santu, celebre per la sua chiesa del XIII secolo, dove si trovavano le reliquie dei Santi Nicola e Trano. Che avremmo potuto visitare Tempio e la Punta Balistreri – punto principale della catena granitica del Monte Limbara, dove avremmo incontrato la popolazione di pastori, i “Gallegos” della Sardegna; per poi proseguire verso Sassari, dove avremmo potuto fermarci a vedere le “Sepolturas de is Gigantes” e i “Nurhags”, come i sardi chiamano alcuni curiosi monumenti che credono siano sepolcri.
Le mie descrizioni erano sprecate, i miei sforzi vani. Predicavo su un marinaio dai capelli grigi, e non su un cavaliere avventuroso; su un padre di famiglia con tante cose da fare, e non su un turista inattivo.
***
[Palau]
Fui costretta a consolarmi con una rapida occhiata verso quel piccolo punto della Sardegna dove si incagliò la chiglia della nostra barca. Davanti a noi c’era la stazione di posta, Palau, dove ai cavalli dell’ultima tappa veniva concesso un breve riposo prima del ritorno: alcuni di loro adesso erano fermi lì. Pur essendo di buona razza, avevano un aspetto pietoso. Non si presta loro alcuna cura. Tenevano la testa bassa e venivano lasciati al sole ad asciugarsi il sudore del viaggio, mentre le loro code erano attivamente ma inefficacemente impegnate a scacciare le mosche che li tormentavano.
Il trasporto delle lettere e dei passeggeri è così primitivo e così miseramente gestito, che quando il corriere arriva a Palau, raramente trova a portata di mano qualche mezzo per raggiungere La Maddalena, e deve accendere un grande fuoco per segnalare ad una barca di venire.
Questo angolo settentrionale della Sardegna non offre nulla di interessante al visitatore. Alle spalle di Palau si estende una pianura solitaria, selvaggia e desolata. È ricoperto da cespugli di ginestra e corbezzolo.
Di tanto in tanto si vede un gruppo di capre, i cui sguardi selvaggi mostrano chiaramente che l’avvicinarsi di uno sconosciuto le sorprende e le turba. Un piccolo gruppo di cavalieri, in costumi pittoreschi, ed armati fino ai denti, mi ricordarono simili incontri in Sicilia, in Grecia e in Barberia. Constatai che La Gallura meritava la sua fama di contrabbando e di predoni, ma avrei affrontato volentieri tali pericoli se fossi riuscita a penetrare più lontano nel paese.
Dopo una camminata veloce di tre quarti d’ora attraverso questi mucchi di cespugli, bagnati dai raggi del primo mattino, arrivammo alla prima capanna dei contadini, forse dovrei dire dei villani, che sono gli unici abitanti di questa zona. Era formata da alcuni massi di pietra ammassati alla rinfusa. Greggi di pecore e capre, le prime in libertà, le seconde nei recinti intorno alla casa, costituivano la ricchezza del proprietario.
Una mezza dozzina di cani annunciarono il nostro arrivo al padrone, che uscì con la moglie, i figli e il mandriano. Ci salutò con dignitosa semplicità e ci invitò ad entrare; e pensavo tra me: “bisogna andare, oggigiorno, fino ai confini del deserto, per incontrare quell’ospitalità patriarcale, che fa tanto bene ricevere, mostrandoci che i modi cordiali di quelli che chiamiamo i bei tempi andati esistono ancora in alcune parti remote”.
Rimasi non poco sorpresa dall’ordine e dalla decorosità dell’interno di quella povera dimora. Un grande letto matrimoniale occupava un’estremità della stanza, e il resto era organizzato come una cucina con i suoi vari utensili attorno. Alcune panche servivano da sedili; un pezzo di montone bolliva sopra un cerchio di pietre riscaldate al centro della stanza; e poiché per il fumo non c’era altro sfogo che attraverso la porta, era facile immaginare il caso di queste persone quando il tempo le obbligava a chiudere la porta: l’oscurità e la cecità, o il freddo e la pioggia, dovevano essere le loro alternative.
Avendo tanto sentito parlare del costume nazionale della Sardegna, che si dice fosse quello degli antichi Fenici, desideravo moltissimo esaminarlo. Potrebbe essere più ammirabile nelle città e nei villaggi, ma tutto ciò che vidi era già abbastanza miserabile! Il padrone e il mandriano indossavano il vero abito del paese, come mi hanno raccontato. I loro berretti, i loro lunghi gilet, cinti da una cintura; i loro ampi mantelli e le loro ghette, tutti tranne i pantaloni di lino intero, erano fatti di un tessuto grossolano, detto “furresi”. Ogni famiglia tesse questa stoffa per sé con la lana scura delle sue greggi. In Gallura se ne produce quindi una grande quantità, che però non viene esportata.
L’abito di un sardo è del tutto privo della grazia delle forme e dei colori vivaci che contraddistinguono quello degli italiani, i cui costumi si armonizzano del tutto con il loro carattere allegro e spensierato.
Il poco tempo che avevamo a disposizione si esauriva rapidamente. Uno sguardo del mio compagno, dopo aver guardato l’orologio, mi ricordò la nostra prossima partenza, e dopo aver distribuito qualche “muta” tra i bambini, tornammo sui nostri passi verso Palau.
***
[La ripartenza]
Per questa volta, caro lettore, non metterò più alla prova la tua pazienza. Non ti annoierò con ulteriori descrizioni di bellezze, che suscitarono in me un’ammirazione così traboccante che non potei fare a meno di dilungarmi su di esse.
Al nostro ritorno alla Maddalena il mare era così calmo che dovemmo affidarci interamente ai nostri remi, e incitare i nostri rematori ad ogni sforzo per diminuire al più presto possibile la distanza tra noi e la terra.
“Siete arrivati giusto in tempo,” gridò Susini dalla riva. “I vostri ospiti sono tutti qui; la cena è pronta; e poiché questo bel tempo porterà qui il “Virgilio” prima del tempo, non abbiamo un momento da perdere.”
Facemmo un frettoloso ricevimento ai nostri amici, pregandoli di entrare nella nostra modesta dimora e di sedersi subito attorno alla tavola dei Fazio, che senza dubbio non era stata mai onorata di una tale assemblea da quando esisteva.
Se il banchetto che offrii loro non era tutto ciò che un gourmet avrebbe potuto desiderare, tuttavia fu apprezzato dai miei amichevoli visitatori; e la deliziosa conversazione del Generale, il grande umorismo del Capitano e le buone maniere degli altri miei amici ripagarono le mie preoccupazioni ampiamente tanto quanto potevo desiderare.
Verso la fine del pasto entrò il Capitano R., e senza dubbio molti racconti e molti brindisi avrebbero prolungato ulteriormente la nostra seduta, se un messaggero non fosse apparso a guastarci il piacere, annunciando che il “Virgilio” era pronto a partire.
Il motore a vapore era acceso. La stessa barca che ci aveva portato a terra pochi giorni fa ci riportò a bordo, sempre sospinti dal braccio forte del giovane Menotti.
Con silenziosa emozione il generale mi strinse la mano e, prima che me ne rendessi conto, se n’era andato. Questa momentaneo fascio di luce nella mia esistenza era scomparso e l’oscurità della vita quotidiana mi avrebbe circondato ancora una volta.
LA MADDALENA E CAPRERA
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