IN GALLURA
di Douglas Goldring
Sardegna l’isola dei nuraghi
Note di viaggio nella Sardegna degli anni Trenta
Londra 1930 – New York 1931
Saggio introduttivo e traduzione a cura di Lucio Artizzu
Da Bonifacio a Santa Teresa Gallura
Fu un tributo al modo superficiale col quale si fanno le cose in Francia il fatto che la mattina della mia partenza da Bonifacio dimenticassi completamente di farmi timbrare il passaporto. D’altro canto, in Italia queste cose uno le ha sempre in testa in quanto la polizia ed i regola menti diventano per lo straniero una fonte perpetua di ansietà.
La pioggia cadeva a catinelle quando, col mio bagaglio, giunsi alla banchina, Nel café che stava di fronte al vaporetto italiano, il “Gennargentu“, col quale dovevo attraversare lo stretto, trovai l’olandese e lo svedese. Anch’essi diretti in Sardegna!
Fu l’olandese a ricordarmi del passaporto e, non senza il timore che la nave partisse senza di me, mi precipitati sotto la pioggia a contattare il commissario di polizia. Non era proprio il caso di preoccuparsi. Il “Gennargentu” non aveva fretta di partire.
Il vaporetto era tutto lindo, pulito ed elegante, pitturato di fresco. Visto che c’era troppo umido e vento per stare sul ponte, lo svedese, l’olandese ed io – gli unici passeggeri – ci sistemammo nel salone. Non appena uscimmo dal porto in mare aperto, la nave cominciò a rollare in modo preoccupante e lo scoramento prese tutti e tre. Non avevamo il mal di mare, ma eravamo soltanto immensamente tristi e ci sentivamo, come il cardinale Newman, “lontani da casa”. Non pareva si potesse trovar sulla nave qualcosa da bere che ci tirasse su ma, improvvisamente, ricordai la bottiglia di Hennessy che avevo in valigia. La tirai fuori, mi detti da fare per farmi dare dal cameriere tre grossi bicchieri e distribuii una buona razione di brandy ai miei compagni ed a me. Lo svedese accettò la sua parte con quel misto di falsa riluttanza, quel piacere vero di ricever qualcosa in cambio di niente e con l’oscuro sospetto del motivo che potesse celarsi qualcosa dietro il dono; atteggiamento, questo, che la mia esperienza con gente di questa fatta mi aveva reso familiare. L’olandese tracannò mezzo bicchiere in un sorso sì che gli occhi quasi gli uscirono dalle orbite. Ambedue diventarono discretamente loquaci.
Dovevano proseguire in nave, il giorno dopo, da La Maddalena a Terranova [Olbia] e da qui, in treno, a Sassari e Cagliari. “Due o tre giorni”, pensò lo svedese, sarebbero stati abbastanza lunghi per permettergli di “vedere l’isola”.
Cominciammo a parlare di Grazia Deledda e dei suoi romanzi sulla vita rustica sarda, come pure del premio Nobel. Ricordai, casualmente, che molti inglesi si domandavano perché non era stato assegnato a Thomas Hardy, ma lo svedese mi mise a tacere dicendomi che la giuria dei dotti di Stoccolma, che assegna il premio, prendeva in considerazione l’insieme della letteratura mondiale con assoluta imparzialità. La semplice fama, nazionale od internazionale, non influiva sul giudizio.
Gli domandai se ritenesse che gli sviluppi recenti del dramma “Tavolariano” stesse riscuotendo adeguata attenzione da parte dell’Accademia svedese. Per un attimo temetti che anch’egli avesse letto una guida della Sardegna. Tavolara è una isoletta di fronte alla costa, vicino a Terranova, abitata nello scorso secolo soltanto da una famiglia, al cui capo fu dato scherzosamente da Carlo Felice il titolo di “re”. Evidentemente lo svedese non aveva letto alcunché sull’argomento perché mi informò, con serietà, che un dotto professor Smellfungus aveva nel passato condotto un lungo studio speciale sul teatro “Tavolariano”. Non era il caso che mi preoccupassi. Niente nel campo dell’arte, della letteratura o del dramma, poteva sfuggire all’occhio vigile di Stoccolma.
Il tempo non era migliorato ma, sebbene fosse cresciuto il vento, era diminuita la pioggia. Ci scolammo la bottiglia e, rincuorato dallo spirito cordiale, mi arrampicai sul ponte e scrutai il profilo roccioso, scuro e grigio della costa verso la quale faticosamente avanzavamo. Come era spoglio e nordico! Non si scorgeva un albero; avremmo potuto essere in prossimità della costa orientale della Scozia o di quella occidentale della Svezia. Mi trovavo proprio di fronte alla cabina del capitano. Davanti a me stava una targa d’ottone col profilo, in rilievo, di Mussolini, con un’espressione che più arcigna non si può immaginare e, sotto, il motto fascista: Adversus hostem aeterna auctoritas esto. Da ciò arguii che già mi trovavo in Italia. Qualcosa di quella aeterna auctoritas, incentrata nel duce, stimolò anche il piccolo “Gennargentu”.
SANTA TERESA GALLURA
Mentre ci avvicinavamo a Capo Testa, su cui sta la torre rotonda di Longon Sardo, si videro distintamente le case di Santa Teresa di Gallura, il nostro primo scalo. Il paese è costruito sopra un altipiano spoglio ed erboso in cima ad una stretta insenatura. Nel retroterra si vede una fila di basse colline di granito. È privo di alberi, di ombra, esposto al sole ed al vento e, nel pomeriggio tempestoso, sotto il cielo grigio, appariva desolato come mai avevo visto l’uguale. Il paese non si raggruppa sotto la chiesa ed il campanile, secondo il modo pittoresco delle città costiere liguri. Le case parevano, per qualche verso, essere state messe al rovescio. La cosa più notevole, dopo la chiesa, era un grande edificio rosa che avrebbe potuto essere una caserma o forse una scuola.
Santa Teresa, tuttavia è un insediamento relativamente moderno. Fu costruita nel 1808, per volere di Vittorio Emanuele I, il quale le diede il nome della moglie (Maria Teresa d’Austria).
Gettammo l’ancora nella piccola baia e un ufficiale elegante, con uno splendido mantello nero, si avvicinò su una barchetta a remi. Fu il nostro primo approccio con l’aeterna auctoritas, e come fu sostenuto nello scrutare con sospetto i nostri passaporti! Seppi, poi, di un compatriota che di recente aveva tentato di entrare in Sardegna da Santa Teresa. Le autorità lo bloccarono per ventiquattr’ore e nel frattempo telefonavano a Sassari per avere istruzioni sul come dovevano comportarsi. Son del parere che ventiquattro minuti a Santa Teresa sarebbero sufficienti per chiunque, figuriamoci ventiquattr’ore!
Dopo che l’inglese ebbe ottenuto il permesso di proseguire il viaggio, della Sardegna – ormai – ne aveva avuto abbastanza e, disgustato, prese il vapore per tornare subito a Bonifacio.
LA MADDALENA
Non appena l’ufficiale ebbe terminato ci lasciammo alle spalle la baia e ci dirigemmo verso un altro deprimente paese, Palau, ed infine, dopo circa quattro ore di sballottamento, raggiungemmo La Maddalena. Le luci del porto ci avevano, per un certo tempo, ispirato fiducia ed io pensavo con gioia a tutto quel che mi era stato detto sulla popolazione ed il livello degli alberghi. In ogni caso, era una città.
Alcuni ragazzini presero il nostro bagaglio ed in risposta alle domande sugli alberghi, ci diedero il nome di due. “Qual è il migliore?” chiedemmo, pensando che almeno uno dovesse essere una sorta di Ritz-Carlton provinciale. “Ma!” Agitarono le mani in modo espressivo e non vollero essere coinvolti nel giudizio. Potevamo scegliere noi e scegliemmo il Belvedere che pareva il più vicino, e così ci avviammo.
Ma non fu all’albergo che le nostre guide ci condussero, bensì alla Polizia. Scaricarono le valigie in una sala piena di spifferi e attesero mentre noi fummo accompagnati di sopra al cospetto delle autorità. I funzionari che si occuparono di noi non erano gli splendidi carabinieri che ebbi successivamente occasione di conoscer assai bene, bensì impiegati civili. Invece di leggere nei passaporti, timbrarli e restituirceli, scrissero note minuziose e lo fecero con lentezza esasperante. I nomi da nubili delle nostre madri vennero scritti faticosamente assieme ad ogni dettaglio della nostra nascita e paternità. Dopo di che ebbe luogo un breve interrogatorio:
“Chi ha rilasciato il vostro passaporto?”
“Il defunto bord Curzon”, risposi umilmente. Dal momento che aveva in mano il documento pensavo che avesse potuto scoprirlo da sé.”
“Che numero ha”?
Non ne avevo la più pallida idea ma suggerii, quanto più gentilmente possibile, che poteva dargli uno sguardo e vederlo.
La pioggia batteva contro le finestre dello stanzone; sentivamo il vento ululare tetramente all’esterno e tutti e tre desideravamo con ansia di pranzare quando, guardandoci uno per uno, ci pose l’ultima domanda sconcertante: “Perché siete venuti in Sardegna?”
Lo svedese e l’olandese ammutolirono e mi lanciarono occhiate supplichevoli, “Viaggio di piacere”, dissi, e dovetti apparire un grande bugiardo come di fatto mi sentivo. In verità, invece di spedirci al più vicino manicomio per essere tenuti sotto osservazione, ci lasciò andare ma trattenne i passaporti.
I ragazzini caricarono nuovamente le valigie e faticosamente arrancammo sotto la pioggia verso il Belvedere. Certo non era il Ritz. Risultò essere una lunga casa malconcia di tre piani, dipinta di rosa, con una veranda che dava sul porto. Al piano terra c’era un ampio ristorante e, dopo che ebbi depositato i bagagli in una gelida stanza da letto che pareva una tomba, scesi a consumare il mio primo pasto sardo insieme con l’olandese e lo svedese. Il brandy, e la successiva comune esperienza con gli addetti ai passaporti, avevano abbattuto ogni barriera.
Quando vi entrammo, il ristorante era piuttosto affollato. Una comitiva di giovanotti allegri sedeva ad un gran tavolo accanto alla finestra. C’erano anche diversi ufficiali e proprio di fronte a me sedeva solitario un pallido fascista in camicia nera, dall’aria ascetica. Era straordinariamente bello e se fossi stato un impresario cinematografico gli avrei offerto un ingaggio seduta stante. La maggior parte degli spasimanti di Hollywood che mi è capitato di vedere, o somigliano ai gangster della peggior specie di Dublino, oppure sembrano immigrati in attesa del visto d’ingresso. Questo giovane era di una genuina bellezza classica che lo avrebbe fatto emergere in qualsiasi luogo e con qualsiasi abbigliamento.
Malgrado il brutto tempo e la scomodità dell’albergo, mi sentii ben disposto verso la Sardegna. Dopo la depressione che genera la Corsica e il pigro appagamento della Riviera, era un sollievo trovarsi in un ambiente carico di vitalità.
Uno dei giovani che stava al tavolo grande cominciò a cantare brani di canzoni con una bella voce da tenore e, rendendosi conto che lo si apprezzava, continuò con nostro gran diletto. Fu nel mezzo di questo concerto improvvisato che arrivò improvvisamente P.M. Aveva fatto in auto trecento chilometri sotto la pioggia e quindi aveva noleggiato una motobarca per far la traversata dalla terraferma per onorare il nostro appuntamento; esempio di affidabilità che rasenta l’eroico.
Per festeggiare il suo arrivo, l’oste portò un altro litro di generoso vino locale. A questo punto, gradirei fare un’avvertenza al profano in fatto di vini sardi.
Spesso sono buoni ma sempre di alta gradazione. Molti di loro (come scoprii quella sera a mie spese) ti stendono. Mi è stato detto che sconfiggono i germi della malaria e ci si può credere. La serata, grazie allo stimolante e vigoroso vino rosso, si concluse in un’atmosfera di cordialità generale. Svedesi, americani, olandesi ed inglesi non solo parlarono del proprio ma anche dell’altrui paese in tono entusiasta, e, quanto alla Sardegna, bicchiere in mano e l’indice teso, fu riconosciuta da tutti essere un’isola gagliarda al cento per cento…
Il giorno dopo la pioggia era cessata e l’acquosa luce invernale del sole riverberò sulle pozzanghere davanti all’albergo e sulle bianche vele delle barche da pesca nel porto.
Avevo ordinato il petit déjeuner e dell’acqua calda per le otto, poco sapendo che tali attenzioni erano sconosciute nelle locande sarde di paese. Non si pensa che uno abbia necessità di acqua calda e, quanto al caffelatte e alla brioche, si deve scendere al bar o, altrimenti, andare a procurarseli nella più vicina pasticceria.
P.M. dormiva ancora il sonno del giusto quando uscii per conoscere La Maddalena. Di certo non era una metropoli con i suoi 15 mila abitanti ma rimasi ancora più sorpreso nell’apprendere che ne contava non più di 5 mila, presidio navale compreso.
La Maddalena e la vicina isola di Caprera son due grandi blocchi di granito con piccole estensioni di terreno coltivato. La città di La Maddalena è situata nella parte meridionale dell’isola e ha l’aspetto di un piccolo territorio florido ma piuttosto in abbandono. È un’importante base navale zeppa di ufficiali che soffrono intensamente di spia-mania. I soli luoghi di interesse per il turista sono l’umile casa e la tomba di Garibaldi a Caprera, ma per poterle visitare è necessario un permesso speciale dell’ammiragliato del porto, cosa che mi resi conto per niente facile da ottenere.
Neanche ci tentai. Nella prima metà del diciannovesimo secolo viveva a Caprera un’eccentrica famiglia inglese di nome Collins. Il superstite, una certa miss Collins, ardente ammiratrice di Garibaldi, gli lasciò in eredità la casa e dei terreni così che, alla sua morte, questi divenne proprietario dell’intera isola.
La Maddalena riserva un certo interesse agli studiosi della storia navale inglese per via del fatto che viene associata a Nelson: dal 1803 agli inizi del 1805, egli fece del porto il suo quartiere generale mentre attendeva che la flotta francese uscisse dalla rada di Tolone, cosa che si verificò il 17 gennaio 1805.
Era una buia notte d’inverno e, quando giunse la notizia, sulla maggior parte delle navi inglesi erano in corso preparativi per organizzare danze ed altre feste. Improvvisamente fu dato l’ordine “si parte”, che fu eseguito con fulminea velocità. Il corridoio di mare era così stretto che poteva passare soltanto una nave alla volta ma, entro due ore, l’intera flotta era uscita e posizionata a sud in attesa dei francesi che, infine, affrontarono a Trafalgar.
La velocità nel lasciare il porto di La Maddalena viene generalmente ricordata come una delle più brillanti e fulminee imprese di Nelson.
Mentre si trovava in attesa di affrontare in mare i francesi, Nelson fece dono alla chiesa di La Maddalena di due candelieri e di un crocifisso d’argento col Cristo in oro[1]. Quando con i ringraziamenti per il dono, gli furono assicurate anche preghiere per la sua vittoria sui francesi, Nelson rispose che “se soltanto pregassero la Madonna che la flotta uscisse da Tolone, egli avrebbe pensato al resto ed essi avrebbero ricevuto in argento il valore di una fregata francese con il quale costruirci una chiesa”.
Circola una leggenda locale (che sia vera o meno non posso dire) secondo cui, mentre stava a La Maddalena, Nelson si fosse innamorato di una bella ragazza di nome Emilia Isarra, e che fu lei ad ispirargli il dono.
A Nelson piaceva assai la Sardegna e conosceva bene i suoi porti. Egli sottolineò costantemente la sua importanza al governo britannico e lo esortava ad acquistarla. L’isola, in quel tempo, era prostrata dalla povertà ed egli stimò che potesse essere comprata per 500.000 lire. Scrivendo a Lord Hobart (17 marzo 1804), affermò: “È il summum bonum di ogni cosa che per noi abbia valore nel Mediterraneo. Più la conosco, più mi convinco del suo valore inestimabile, come posizione, porto navale e risorse di ogni genere”. In una lettera a St. Vincent, disse: “Ho scritto a Lord Hobart sull’importanza della Sardegna; per la sua posizione vale cento volte Malta ed è il miglior porto d’Europa per le navi da guerra. In breve, non offre altro che vantaggi”. Proprio perché La Maddalena si rivelò vantaggiosa per gli inglesi, rappresentò sempre una spina nel fianco per Napoleone.
Dopo l’instaurazione del Blocco Continentale, l’isola diventò un importante e ricco entrepôt per il commercio britannico e Napoleone ebbe una ragione in più di disappunto. Quando era giovane, nel febbraio del 1793, comandò l’artiglieria nell’infruttuoso attacco alla città, alla cui guida era Colonna Cesari. Esiste la prova che Cesari, un corso, fosse segretamente alleato dei suoi apparenti nemici. (Gli abitanti di La Maddalena sono di origine còrsa ed ancora oggi parlano un dialetto corso). Durante l’assedio, Napoleone disse che voleva sparare sulla chiesa mentre la gente andava a messa, “per spaventare le donne”. Fu sparata una granata che rotolò inoffensiva sui gradini dell’altare, senza esplodere. I cittadini creduloni l’attribuirono all’intervento della divina provvidenza ma la spiegazione più verosimile, forse, è che l’ordigno fosse stato reso inoffensivo per ordine di Napoleone e che le granate fossero state caricate di sabbia.
Dopo un attacco che, per molti versi, pare fosse stata una battaglia simulata, Cesari ordinò la ritirata e l’armata fece ritorno in Corsica.
La famosa granata fu poi conservata come souvenir. Un certo Mr. Grieg, console generale britannico in Sardegna, l’acquistò per 32 écus. Passò di mano diverse volte ed ora sormonta un piedistallo di marmo nel molo di La Maddalena.
Quando P.M. fece la sua comparsa, con un aspetto niente male per le esperienze del giorno precedente, andammo in giro in città alla ricerca delle belle donne per le quali la città vanta antica fama. Ma i nostri occhi non videro esemplari di bellezza femminile, al contrario fummo pedinati dai funzionari dei passaporti. Desumemmo che l’ammiraglio in persona stava ora investigando sulla storia delle nostre famiglie. Giusto perché eravamo ansiosi di far la traversata verso la terra ferma, richiedemmo con una certa fermezza che ci venissero restituiti i documenti. Lo svedese e l’olandese dovevano essere stati più fortunati perché già erano partiti per Terranova col vapore.
Quando, infine, i passaporti furono recuperati, prendemmo posto in una spaziosa barca da pesca con vela latina, stracolma di una variegata congrega di contadini, animali, mobili, mercanzie. Andammo in “prima classe”, la qual cosa significava che ciascuno aveva diritto ad una sedia a sdraio! Dopo aver evitato per un pelo il naufragio per collisione con un’altra imbarcazione, prendemmo subito il vento a favore e filammo saltellando per le acque del porto.
[1] Il testo della lettera che accompagna il dono è il seguente: “Victory, 18 Ottobre 1804-Lo consegnerà il rev. Dott. Scott. “Al Rev. Padre Superiore della Chiesa di La Maddalena: Ho il piacere di chiederle che mi sia consentito donare alla chiesa di La Maddalena un oggetto d’argenteria sacra come piccola testimonianza della mia stima per i Valorosi Abitanti e per l’ospitalità riservata alla flotta di Sua Maestà sotto il mio comando. Vostro obbedientissimo servitore: Nelson di Bronte”.
Fra tutti i luoghi derelitti che ho avuto occasione di visitare, penso che Palau detenga la palma. E situato per gran ran parte in una strada desolata con casette ad un piano color rosa. A giustificazione del suo squallore non può invocarsi l’antichità perché le sue origini risalgono allo scorso decennio. All’esterno della misera e sporca locanda, dove un gruppetto di contadini mangiava una ripugnante colazione a base di polpo color porpora, sostava un autobus rosso acceso che trasportava posta e passeggeri da e per Sassari. La cosa sembrava assurda ma la Sardegna, che dovevo presto imparare a conoscere, è un’isola in cui le conquiste più recenti della tecnica moderna devono lottare per affermarsi sul primitivo e sul primordiale.
Dovemmo attendere per quasi un’ora, il tanto perché il padrone della pompa di benzina terminasse il pranzo, prima di poter fare il pieno ed abbandonare questo luogo poco accogliente.
Dopo aver attraversato un fiume impetuoso, il Liscia (che probabilmente è ricco di trote), giungemmo in un territorio ondulato, tenuto a pascolo, una campagna dai “grandi spazi sconfinati”, delimitata da colline di granito.
Lungo la strada superammo greggi di capre e pecore, condotti da contadini vestiti malamente, con giacconi di pelle di pecora senza maniche, mentre altri se ne potevano scorgere qua e là nella campagna che si estendeva a perdita d’occhio.
Ad un certo punto sorpassammo una contadina che aveva un mantello azzurro pallido con cappuccio e che sembrava uscita proprio dal dipinto di una Madonna del quindicesimo secolo; sulla strada, nei pressi di Tempio, incontrammo tre uomini, piccoli come gnomi, con mantello nero e cappucci a punta in capo, in groppa a vigorosi cavallini sardi.
È una regione strana, desolata, stranamente eccitante, questa Gallura, selvaggia e quasi spopolata, eppur non priva di un singolare fascino.
TEMPIO
Entrando a Tempio, una cittadina dall’aria cupa di circa diecimila abitanti, costruita con granito grigio, la pioggia cominciò a cadere a catinelle e fummo veramente lieti di rifugiarci presso la più vicina locanda per consumare un tardivo pranzo.
Tempio è il capoluogo della Gallura e sede vescovile. Si trova a circa 1800 piedi sul mare, su uno sperone settentrionale delle montagne granitiche del Limbara ed ha scarso interesse turistico. Eravamo troppo sfiniti per andare a visitare la cattedrale o il colossale nuraghe che si trova nella strada per Nuchis, a nord est della città [sic. ma è un errore] che, per la sua mole, vien chiamato Nuracu Majori. Dovevo vedere molti nuraghi durante il mio soggiorno in Sardegna e avrò qualcosa da dire più avanti, nel corso di questo resoconto.
Per pranzo ci concedemmo capretto arrosto ed un corposo vino rosso; avevamo a mala pena terminato il pasto che l’Autorità”, nella persona di un malandato funzionario in borghese, venne ad investigare sulla nostra storia familiare. Non ero ancora adeguatamente abituato alle snervanti inquisizioni della polizia sarda e diventai piuttosto impaziente durante l’interrogatorio. Per fortuna, il mio italiano era più che scarso e P.M. ebbe il buon senso di mostrarsi mellifluamente cortese cosi che l’investigatore ci lasciò andare in modo cordiale.
A Tempio si produce un liquore che assaggiammo con scarso entusiasmo. Per il resto, a parte le industrie del sughero, pare contare principalmente su pecore e capre che trovano pascolo nella campagna circostante. La tosatura è l’avvenimento più importante dell’anno e, in concomitanza con questa, vi sono le annuali fêtes chiamate graminatorgiu, o cernita della lana. Con la lana le donne fanno coperte grezze chiamate furresi, per uso locale.
Non sembrava ci fosse alcunché a Tempio da giustificare il suo nome idilliaco ma il paesaggio dei suoi dintorni, anche se in inverno, aveva una certa bellezza austera. A settentrione, verso Aggius, si stendeva una lunga fila di cime di montagne aguzze come i denti di una sega ed a sud si profilavano le alte sommità della catena del Limbara.
Si ringrazia la casa editrice Della Torre per la concessione dell’utilizzo della traduzione
FONTI DELLE ILLUSTRAZIONI
Cartoline e foto dell’800 e primi ’900
Foto di Guido Costa
coll. LA MADDALENA ANTICA “La storia da condividere”, coll. Navi e armatori, coll. Michele Serra, Giovanni Maria Carta, Erennio Pedroni, Domenico Melia
Foto contemporanee
di Nello Anastasio; Antonio Concas – Flickr, di Roberto Gamboni – Flickr
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