Caratteri generali
di Francesco De Rosa
I Galluresi sono generalmente di media statura, forti, robusti, vigorosi, agili e svelti, di belle forme, e specialmente le donne in cui le fattezze sono regolari e finissimi i lineamenti.
Hanno forte temperamento e sana costituzione, per cui raramente capita d’imbattersi fra essi in un individuo deforme o in qualche modo mal costituito.
Sono d’acuto e perspicace ingegno, di fervida immaginazione, di ferrea memoria, di retto giudizio, di spirito sottile e osservatore.
Essi nascono per così dire a cavallo, abituandosi fin dall’infanzia a cavalcare veloci e indomiti puledri, e in mancanza si servono degli asinelli o di cavallucci di ferula, che si fabbricano con le loro mani, tanto di poter dire d’aver ciascuno il proprio destriero.
Ma più del cavallo amano la loro arma favorita, il fucile, che soprattutto dai pastori viene considerato l’arnese più utile ed importante del loro focolare domestico; anzi, dirò di più, il nume tutelare: perché di esso si servono come del miglior mezzo per sostenere le proprie ragioni, in esso riconoscono il vendicatore delle patite offese, quello che provvede in parte al sostentamento della famiglia.
Al pari degli antichi popoli orientali sono appassionatissimi di caccia, specialmente dei cinghiali, cervi, daini e mufloni, e non badano a distanze né a fatiche pur di soddisfare la loro passione.
La loro ospitalità è proverbiale, come dimostreremo in apposito capitolo.
Facili all’odio e all’amore, che nei loro cuori ardono potenti e inestinguibili, amano quanto cuore umano possa amare: odiano ferocemente fino alla morte e, da morti, ancora l’odio deve far fremere le loro spenti ceneri.
Prediligono l’amico, a cui accordano intera libertà e dimestichezza in casa loro: ma guai a chi ne abusi, perché l’audace non avrebbe tempo di pentirsene. La vendetta delle offese patite è per loro retaggio sacro che si tramanda di generazione in generazione, e tuttora così la reputano, come avveniva presso i Greci, un diritto, cui sarebbe disonorevole non valersi (Omero, Iliade, XXIV, vv. 261-262).
All’infuori dei Terranovesi, dei Teresini e dei Maddalenini che sono indifferenti, i Galluresi sono religiosi per convinzione.
Come i popoli orientali vanno pazzi per le feste, i giochi e i balli, e si dilettano particolarmente nel canto.
Cantano i fanciulli per rendere più piacevoli i loro giochi; canta l’operaio, mentre attende sollecito all’opera sua; canta l’agricoltore che sparge premuroso le sementi nella speranza di un buon raccolto o che raccoglie allegro i prodotti della terra; canta il pastorello che conduce il gregge ai ricchi pascoli o li riporta a tarda sera all’ovile; canta il contadino che dopo una lunga giornata di lavoro ritorna, dimenticando i suoi sudori e senza accorgersi della lunghezza della strada, a casa per la cena; cantano i carrettieri con voce cadenzata come il ritmico passo del caro bue, il quale, oppresso dal pesante carico che si tira dietro, muove le grosse zampe a fatica; canta la buona massaia, che accudisce alle faccende di casa o che culla in grembo o nella cesta («zana») il caro pargoletto; canta la giovane popolana che, con la conocchia infissa alla cintura e il fuso nella mano destra, s’avvia al paese per farvi le sue provviste o vendervi le derrate; cantano gli amanti la notte sotto la finestra della loro innamorata, la quale, ascoltando il dolcissimo canto pieno di passione, sposato agli accordi della chitarra o d’altro melodioso e delicato strumento, sente più dell’uomo la poesia di quell’ora; canta perfino la madre e la sposa a cui da morte prematura venne strappato il dolce pegno del loro amore, trovando nel canto lenimento al dolore e trasfondendovi tutto il sentimento e tutta l’anima nei versi melanconici.
Cantano tutti, e nel cantare usano prolungare l’ultima vocale, come slancio di passione e come eco dell’anima, così accrescendo l’efficacia di quei sentimenti pieni di tristezza e d’abbandono, di soavità e tenerezza, di allegria e contentezza, che ci parlano di sogni svaniti o di realizzate speranze, di grandezze perdute o d’acquistati onori, di gioie inesprimibili o di supremi dolori.
A parte i casi d’antagonismo frequenti fra Luresini e Calangianesi e quelle differenze caratteristiche che distinguono l’uomo istruito dall’ignorante, il nobile dal plebeo, il ricco dal povero, l’inferiore dal superiore, può dirsi a ragione che nei rapporti sociali i Galluresi non formino che una sola famiglia e si possano considerare come un solo popolo.
Nessuno per quanto di condizione elevata mostra di credersi superiore, nessuno si ritiene d’un gradino inferiore all’altro nella scala sociale: tutti, qualunque sia il ceto e la condizione civile e finanziaria, si sentono come avvinti da legame fraterno e si trattano con quella libertà che vi è fra i componenti di una stessa famiglia. Perfino i servi hanno pari trattamento nel cibo e nell’alloggio dei padroni e non di rado siedono alla stessa tavola. In una parola nobili e plebei, ricchi e poveri, possidenti e agricoltori, servi e padroni, vantano, tenuto conto della rispettiva posizione sociale, adeguati diritti e reciproci doveri, gli uni rispetto agli altri.
Tra parenti ed amici cercano di farsi regali a vicenda, specialmente nelle fauste ricorrenze, e quando fanno il pane o uccidono il maiale non tralasciano d’inviare ai parenti, agli amici e ai conoscenti i consueti doni, sicuri di venirne ricambiati in egual misura. Gli uni, quando non ne sono separati da intime discordie o da ragioni di sangue o di dissidio, possono liberamente andare in casa degli altri, certi d’esservi cortesemente e onorevolmente ricevuti, e quando s’incontrano per strada o lungo il cammino non tralasciano di salutarsi e di farsi vicendevolmente i convenevoli.
Soprattutto i giovani usano ogni notte e nelle sere dei giorni festivi recarsi in casa delle ragazze, ancorché queste siano di più alta condizione, per passarvi una o più ore in piacevoli chiacchiere. Ugualmente al tempo della battitura delle messi, della vendemmia, del carnevale, o in occasione di battesimo o di matrimonio, ognuno può recarsi all’aia, alla vigna o in casa dei parenti, amici o conoscenti, a partecipare alla comune allegria, sicuri di trovarvi gradita accoglienza.
In chiesa, negli sposalizi, nei battesimi, nei ricevimenti, nei balli, nelle feste, non vi si vedono distinzioni, eccezione fatta dei sacerdoti, del compare e della comare di battesimo.
D’estate i Galluresi usano star fuori la sera alla rinfusa nel vicinato per godere il fresco, e d’inverno nelle case seduti attorno al focolare.
Ad Aggius specialmente, l’eguaglianza fra i cittadini è così perfetta che un forestiero non potrebbe distinguere, neppur nelle fauste circostanze, i diversi ceti sociali, se prima non ne fosse informato.
Ospitalità dei galluresi
L’ospitalità viene considerata in Gallura, principalmente dai Terranovesi, Luresini, Calangianesi, Nuchisini, Aggesi e Bortigiadesi, come il più sacro retaggio ad essi pervenuto dai loro padri, i quali, vivendo la vita solo in forma di famiglia, accoglievano al focolare domestico quelli che riuscivano a sottrarsi all’ira dei prepotenti che come lupi affamati rapivano uomini e bestie.
Se l’ospite giunge inaspettato alla casa d’un Gallurese, al suo apparire tutti si alzano in piedi movendogli sorridenti incontro e stringendo colla destra la destra del nuovo arrivato; gli danno il benvenuto, chiedendogli della sua salute e di quella dei suoi, rallegrandosi con lui se reca buone notizie e con lui rattristandosi e condolendosi se invece sono tristi o inquietanti; quindi lo pregano a sedersi e a mettersi in libertà come fosse in casa propria poiché ormai viene considerato come parte integrante della casa ospitale.
Se vi giunge a cavallo o sul carro e armato, tutti gli si affaccendano intorno per togliergli chi il cavallo o i buoi, per condurli alla stalla od al chiuso, chi dalle spalle il fucile, e lo accompagnano a casa, dov’entra preceduto dal padrone.
Se vi giunge in carrozza o col treno e la sua venuta è stata preavvisata, il capo della famiglia ospitale va coi figli ed i parenti più prossimi ad incontrarlo.
In famiglia si fa festa durante il gradito soggiorno dell’ospite, cercando di rendergli piacevole la presenza con ricchi pasti e abbondante e squisito vino, presentando loro quanto di meglio hanno in casa, servendoli di persona.
Inoltre cercano di divertirli con trattenimenti piacevoli, chiamando la notte in casa i migliori improvvisatori del paese o conducendolo altrove per assistere alle palestre poetiche (a la disputta); o alla caccia dei cinghiali, dei cervi, dei caprioli e dei mufloni nelle proprie tenute o in quelle dei parenti e degli amici; o portandolo alle feste campestri, alle veglie o ad altro luogo di sollazzo; o portandolo a far visita e a presentarlo ai più stretti parenti e ai più cari amici: tenendogli con essi continua e gioiosa compagnia, dimentichi spesso delle quotidiane faccende e dei propri interessi per tutto il tempo che dura l’ospitalità.
Ognuno si propone di far prolungare il soggiorno all’ospite amico, facendogli perfino dolce violenza pur di non lasciarlo partire, cambiandogli di stalla o di chiuso il cavallo o i buoi, per fare in modo che non gli riesca facilmente di scovarli. E quando alla fine egli deve proprio partire, gli ricambiano largamente il dono della visita fatta per amicizia e dolce ricordo dei tempi passati: gli conducono fino alla porta il cavallo o il carro e, fra strette di mano e abbracci, gli danno il buon viaggio spesso accompagnandolo fino all’estremità del paese e talvolta per un lungo tratto di strada, a seconda della qualità della persona, raccomandandogli di presentare i convenevoli alla sua famiglia e augurando di rivedersi presto.
Se l’ospite è un perseguitato o un fuggitivo e va a bussare alla porta d’un Gallurese, lo si accetta con segni d’una particolare stima; lo si nasconde allo sguardo dei curiosi o di chi potrebbe tradirlo o catturarlo, interessandosi con premura della sua sicurezza e libertà, e spingendo, ove occorra, la santità ospitale fino all’eroismo, come ne fa prova il seguente fatto: Francesco Cilocco, caldo fautore dell’Angioi, tornato in Gallura dalla Corsica, ove era passato per non cadere nelle mani del truce Valentino, si rifugiò presso il pastore Cicito Muntoni Decandia, il quale aveva in carcere due suoi figli per un grave crimine commesso l’anno prima e già condannati ad essere impiccati. Il Regio Tribunale gli offrì di far salva la loro vita purché desse in mano della giustizia il Cilocco; ma il buon pastore inorridendo all’iniqua proposta, sdegnosamente rispose: “Ne vada anche la vita, purché non si dica ch’io abbia tradita l’ospitalità”.
Rientrato nello stazzo non disse parola al rifugiato di quanto gli era occorso. Trascorsi alcuni giorni fu comunicata al povero padre la barbara morte del suo primogenito, ed al tempo stesso gli fu offerta la grazia dell’altro, a condizione che lasciasse catturare il bandito che egli accuratamente nascondeva alle ricerche della giustizia. Quel magnanimo, alla notizia della morte infamante del figlio e all’idea della prossima fine del suo secondogenito sentì spezzarsi il cuore e due lacrime scesero roventi dagli occhi ad irrigargli le gote; pur non di meno, fattosi forza, così rispose: “Di’ al giudice che i Galluresi hanno più cara la fede ospitale che i figliuoli”, e senza aggiungere verbo volse all’interpellante le spalle.
Pur questa volta tacque all’ospite sventurato l’angoscia del suo animo: e anche quando dopo poco gli giunse la notizia della morte del secondo figlio non tradì l’amico preferendo meglio che, dopo avergli ucciso i figli, gli venisse pur distrutta la casa e rapito il gregge.
Dirò di più: l’ospitalità è tenuta così sacra che nessuno, per quanto sia acerrimo nemico di colui che ospita un amico o di colui che vi cerca rifugio, osa, per quanto dura l’ospitalità, macchinare né perpetrare cosa alcuna a danno dell’ospite o del rifugiato: perché ciò sarebbe come volersi attirar l’inimicizia della famiglia ospitale e la generale esecrazione.
A far meglio conoscere quanto delicato sia nei Galluresi il sentimento d’ospitalità, riporterò un altro fatto per consacrarne la memoria all’ammirazione di tutti, dispiaciuto di non poter segnalare il nome dell’eroe che lo compì, e ciò per averlo dimenticato.
Una volta un uomo, non potendo in altro modo scampare dai carabinieri che a spron battuto lo inseguivano, dopo essersi aggrovigliato per mille andirivieni, scovato dappertutto si spinse disperatamente verso lo stazzo d’un suo acerrimo nemico, gettandoglisi ai piedi e scongiurandolo di tenerlo ospite e di salvarlo dalla pubblica forza.
Il pastore vedendosi davanti l’uccisore di suo fratello, fino allora cercato invano per vendicarsi, sentì affluirgli impetuosamente il sangue al cuore e corrergli bollente per le vene, infiammandogli il viso e iniettandogli le pupille: per cui il primo pensiero che gli corse alla mente fu di far scempio dell’odiato nemico che genuflesso e imbelle gli stava ai piedi. Ciononostante, ricordandosi della santità dell’ospizio anche nell’ira, sentì d’un tratto sbollir la collera; tal che prese a dirgli: “Statti qui, che nessuno ti toccherà”, e uscito fuori chiamò a raccolta i suoi e i vicini pastori, movendo armati incontro ai carabinieri cui impedirono di avanzarsi e facendoli tornare sui loro passi.
Ritornato allo stazzo, fece sapere al rifugiato che nulla aveva per il momento a temere dall’Arma, e gli dette due giorni di tempo per andare altrove e mettersi in salvo, sospendendo per quel periodo la sua vendetta, libero di compierla poi, quando gli si fosse presentata propizia l’occasione.
Appunto, in virtù della santità della soglia ospitale, se un perseguitato dalla fazione contraria si rifugia presso uno stazzo od un casale, basta che la padrona si faccia all’uscio e gridi ai persecutori: “Rispettate la casa di mio marito, o di mio figlio”, perché quelli tornino indietro e si diano pace, per paura di peggio.
Grande è l’onore per le case frequentate da ospiti, e la fama si diffonde dovunque: per cui ai ricchi e ai benestanti piace di attirarvi i forestieri e i mendicanti, tenendo quotidianamente una tavola imbandita e camere da letto appositamente preparate.
I sordidi e gli avari, appunto perché non accolgono o accolgono male gli ospiti, sono generalmente esecrati, sinistramente chiacchierati e mostrati a dito. Dalle loro case non solo Iddio, ma perfino il diavolo, si crede, rifugga dal penetrarvi. Da la cara mala fin’e lu diaulu si ni fuggji.
La soave costumanza dell’ospitalità è quella che specialmente fa conoscere che i Galluresi discendono segnatamente dagli antichi Cananiti, Greci e Romani. Abramo e Lot supplicano gli angeli, inviati da Dio per annunziar loro la rovina della Pentapoli, cui ritennero stranieri di passaggio, a volersi trattenere per passarvi la giornata in casa loro, e accoltili li trattano con le maggiori attenzioni. Labano ospita il fuggitivo Giacobbe, lo tiene in luogo di figlio e lo fa suo genero. Ietro parimenti accoglie cortesemente e dà la sua figlia Sefora in isposa a Mosè. Il vecchio di Gabaa offre ricovero al levita d’Efrain e alla di lui consorte. Booz raccomanda alla generosità dei suoi mietitori la vedovella Rut, che fece poi sua sposa. La vedova di Sarepta dei Sidoni ospita a lungo il profeta Elia e la donna di Sunam ospita Eliseo. Raguele accoglie amorevolmente in Ecbatana il giovine Tobia e gli dà per moglie Sara sua figlia unigenita. Nausica, Arete e Alcinoo accolgono splendidamente il naufrago Ulisse e lo conducono sui loro navigli carichi di ricchissimi doni ad Itaca. Eneo ospita Bellerofonte, i quali fansi mutui regali, e perfino Achille ospitò nella sua tenda l’infelice Priamo, di cui aveva ucciso il figlio. Latino non solo ospita nei suoi stati il profugo Enea, ma gli dà in moglie la figlia Lavinia. Anco Marzio accoglie Tarquinio nella sua regia. Gabio dà ospitale ricetto al perfido Sesto. I Volsci ospitano e affidano la loro armata a Coriolano. Non la finirei più se volessi parlare di tutti gli Ebrei, Greci e Romani ospitalieri.
Come presso i Galluresi, anche i popoli predetti i forestieri e i supplici erano considerati come inviati dai numi alle soglie ospitali d’un capo di famiglia: poiché il limitare era ritenuto sacro, e quindi inviolabile colui che amico o forestiero l’avesse varcato. Epperciò, qualunque egli fosse, vi veniva accolto a braccia aperte e trattato con ogni benevola attenzione.
Appunto per questo l’ospitalità, la quale suona amicizia per gli stranieri (Aristotile, Magna Morale, II, 11, 13) era posta, al pari d’altre amicizie, sotto la protezione di Giove ospitale (Erodoto, I, 14; Omero, Iliade, XIII, v. 625; Pindaro, Olimpiche, VIII, v. 24; Euripide, Ciclope, v. 355; Platone, Leggi, XII; II dei Maccabei, VI, 2), invocato sulle are e onorato di sacrifici (Ovidio, Metamorfosi, X, v. 24), come colui che manda gli ospiti venerandi e i mendichi e difende con le sue leggi quei fra questi che vengono oltraggiati o pagano d’ingratitudine la cordiale accoglienza ricevuta (Eschilo, Agammenone, vv. 399, 401; Licofrone, Cassandra, vv. 136 sgg.; Seneca, De Beneficiis, IV, 37-38). Appunto perché era generalmente ritenuta sacra l’ospitalità si levarono da ogni parte lodi a quelli che accoglievano, sollevavano e salvavano gli ospiti afflitti, e il primo vanto di questa virtù, si dava ad Atene, ove n’andò proverbiale la suntuosa ospitalità di Pirito e di Teseo – Pirithoi et Thesei hospitalitas. Quivi non meno si distinse Cimone, figlio di Milziade coll’essere ospitale anche ai suoi conterranei, i Laciadi, i quali liberamente accoglie alla sua mensa e lascia che ciascuno di essi prenda nei suoi campi i frutti che vuole. E a Corinto n’andò pure proverbiale l’ospitalità di Cidone – Semper aliquis in Cydonis domo – la casa del quale non era mai senza ospiti. Per l’ospitalità generosa n’andarono famosi eziandio gli abitanti di Egina e di Sicilia, nella quale Gelia, opulentissimo agrigentino, faceva dai suoi servi invitare chiunque passava, e nella sua casa teneva sempre apparecchiati i più splendidi appartamenti per gli ospiti, ai quali faceva accoglienze squisite e magnifiche. Tito Livio (I, 58; XXV, 18) Valerio Massimo (V, 1, 3) e Plauto (conf. Miles gloriosus, III, vv. 1, 147) ci affermano che fin dai tempi più antichi si ricorda la tavola preparata per gli ospiti, i quali venivano accolti e trattati come cari parenti, amorevolmente curati, se si ammalavano, e custoditi da servi a ciò deputati. Quanto si spendeva per gli ospiti si disse tanto di guadagnato (Plauto, Miles gloriosus, III, vv. 1, 80). Il motto proverbiale – Scindere paenulam – ci fa sapere che le famiglie affezionatissime agli ospiti facevano ogni sforzo per trattenerli collo strappar loro il gabbano. E fino a quei tempi vi furono persone che per difendere un ospite esposero la vita a seri pericoli (Cornelio Nepote, Timoteo, 4).
Presso i Greci e i Romani chi mancava ai doveri dell’ospitalità incorreva in una specie d’infamia e perdeva ogni fede. Chi poi osava mettere le mani nel sangue o nella roba d’un ospite era ritenuto allo stesso livello d’un parricida (Plauto, Poenulus, V, vv. 1, 25; Cicerone, Epistula ad Quintum fratrem, II, 12; Valerio Massimo, V, 1, 3; Apuleio, Metamorfosi, III, vv. 3, 26; Gellio, V, 13; Plauto, Cistellaria, II; Orazio, Odi, II, vv. 13, 5-8; Apuleio, Metamorfosi, 3). Se turpe cosa era ritenuta non accogliere l’ospite in casa, più turpe si riteneva quella di cacciarnelo (Ovidio, Tristia, V, vv. 6, 13).
Non a torto dunque si odono le Muse, figlie di Mnemosine, celebrare il culto di Giove ospitale e l’onore d’una costante amicizia (Aristotile, Inno alla virtù in Diogene Laerzio), le grandi feste, le liete musiche, i canti poetici, i sontuosi conviti Ospitalità dei Galluresi e gli splendidi doni coi quali si onoravano gli ospiti (Omero, Odissea, VI, VII, VIII e XVII; Iliade, VI, v. 179; Emip. Aluss. 545 sgg.; Plutarco, Dell’Esilio, 10; Platone, Leggi, XI) e imprecare gli offensori degli amici, i quali, dicono, n’andranno dopo morte all’orco ove verranno immersi come per i più gravi delitti in un brago di sterco (Eschilo, Eumenidi, vv. 270-273; Pindaro, Olimpiche, X, 43; Euripide, Ecuba, 713, 1242-1248; Aristofane, Rane, 144): giacché le ingiurie fatte agli ospiti si ritenevano più gravi di quelle fatte ai cittadini, e quindi vendicate con più severità dal Genio ospitale e dagli Dei suoi seguaci, i quali facilmente si muovono a compassione dello straniero, lontano dal natio paese e dalle cure delle persone amate e privo così d’ogni conforto (Platone, Leggi, V).
Anche i Greci usavano precedere l’ospite, entrando in casa (Omero, Odissea, V, v. 125); mettergli davanti copiose vivande e porger loro coppe pienissime di vino (Omero, Iliade, IV, vv. 24[?] sgg.; Odissea, XIV, v. 74; Genesi XVIII, 6, 7; I Regum [liber.], IX, 24); presentar loro quanto di meglio avevano in casa e servirli di persona (Genesi XVIII, 7, 8).