FESTE CAMPESTRI IN GALLURA
di Andrea Pirodda
in
rivista «NATURA ED ARTE», n. 24, 16 novembre 1897-98
libro: BOZZETTI E SFUMATURE, Palermo, Ed. Remo Sandron, 1915 ⇒
Le due versioni sono molto simili, ma quella nel libro Bozzetti e sfumature, pubblicato ben 17 anni dopo come raccolta di testi già editati, è più curata nella forma. E questa è quella che qui riportiamo.
Nota. E’ interessante notare la dedica dell’Autore al Tenore di Tempio Pausania Bernardo De Muro che proprio in quegli anni viveva il momento migliore della sua carriera.
Andrea Pirodda, Aggius 1868 – Cagliari 1924, da giovane fu in relazione di grande amicizia con Grazia Deledda.
Fu con lei, e insieme a Giuseppe Calvia di Mores, e a Francesco De Rosa di Olbia, uno dei principali corrispondenti sardi delle prime e prestigiose riviste folcloriche italiane come «Rivista di tradizioni popolari» diretta da Raffaele De Gubernatis, e «Archivio delle tradizioni popolari» fondata e diretta da Giuseppe Pitré.
Conseguito il diploma magistrale, si dedicò all’insegnamento in diversi centri dell’isola finendo per stabilirsi a Buggerru, dove fu testimone e narratore dei sanguinosi tumulti del settembre 1904.
S’interessò e scrisse anche di problemi di organizzazione scolastica.
Fra gli stazzi disseminati nelle fertili campagne di Gallura, si trovano di tratto in tratto pittoresche chiesuole, ai cui santi si fanno continue feste.
Cominciano queste feste sin da quando la primavera incipiente fa sentire i suoi dolci sopori, e finiscono nel rosato settembre, quando il cielo ridiventa fresco e il sole impallidisce…
Alle feste campestri galluresi presiedono i soprastanti, distinti in maggiori e minori, secondo l’entità della quota da ciascuno sborsata. La soprastantìa (società di soprastanti) è composta di un capo che viene nominato a turno ogni anno fra i maggiori. In certe feste, formate di famiglie benestanti, la facoltà di capo è perpetua ed ereditaria nei membri della stessa famiglia.
La festa, qualche settimana prima, o almeno nella domenica precedente, viene annunziata dal sacerdote che celebra la messa nella chiesa parrocchiale del capoluogo del comune; e alcuni giorni innanzi di partire i soprastanti massaj (cioè quelli che vivono nel paese) fanno ammannire dalle loro donne il pane che può esser necessario alla festa, mentre i soprastanti pastori (che vivono nei numerosi stazzi sparsi per le campagne) preparano la carne occorrente. A tal uopo ciascuna famiglia offre, in ragione dell’entità della quota, o una pecora o una capra; oppure si comprano una o più vacche, contribuendo ciascuno secondo la quota che deve sborsare.
La sera che precede il vespro i banderai (portinsegna) designati dai soprastanti maggiori che fanno loro tutte le spese, onorati dalla scelta, cavalcano superbi cavalli riccamente bardati e adorni di collari ricamati, carichi di squillette e bubboli, con la criniera acconciata a treccia e la coda annodata a più riprese, ornata di nastri rossi e violetti.
Fanno un giro torno torno al paese, tenendo con la mano destra lo stendardo che poi viene esposto alla finestra del capo sopra stante o di altra persona a lui amica. Ufficio dei banderai è, per incarico dei sovrastanti, d’invitare alla festa tante persone quanto v’è cibo sufficiente, e quelle che accettano l’invito vanno la mattina del vespro, a desinare in casa del capo soprastante.
Dopo desinato ognuno corre ad insellare il proprio cavallo per essere pronto alla partenza. I banderai intanto, tolto dalla finestra lo stendardo, lo riportano attorno al paese, procurando di far due giri se la prima sera ne avevano fatto uno, o viceversa. Quindi si recano al luogo designato per la partenza, ove sono ad aspettare i soprastanti, gl’invitati, il sacerdote e tutti coloro che vanno alla festa per voto. Prima di partire, uno della soprastantia versa a tutti i cavalieri un bicchierino di acquavite o di vino generoso, e un altro, in seguito, mette loro in mano un cartoccio di confetti.
Le campane suonano a intervalli rompendo in un interminabile e sonoro squillo di festa, appena s’ode lo sparo dei fucili che indica ai rimasti la partenza dei festanti. In segno di gioia e per onorare il sacro gonfalone sventolante al tiepido cielo primaverile, i partenti ricaricano e sparano i loro fucili per un buon tratto di via. La folla assiste alla partenza dei festanti e li vede sparire nel sereno paesaggio; l’aria è tepida e profumata di fiori, il cielo azzurro, le donne belle e ridenti; le campane avvolgono il paese col loro inno metallico che si ripercuote fra le granitiche roccie, i cavalli galoppano nitrendo, lo stendardo fiammeggia al sole; il buon popolo Gallurese va a servire Dio in letizia.

Fra gli stazzi disseminati nelle fertili campagne di Gallura, si trovano di tratto in tratto pittoresche chiesuole, ai cui santi si fanno continue feste.
Cominciano queste feste sin da quando la primavera incipiente fa sentire i suoi dolci sopori, e finiscono nel rosato settembre, quando il cielo ridiventa fresco e il sole impallidisce…
Alle feste campestri galluresi presiedono i soprastanti, distinti in maggiori e minori, secondo l’entità della quota da ciascuno sborsata. La soprastantìa (società di soprastanti) è composta di un capo che viene nominato a turno ogni anno fra i maggiori. In certe feste, formate di famiglie benestanti, la facoltà di capo è perpetua ed ereditaria nei membri della stessa famiglia.
La festa, qualche settimana prima, o almeno nella domenica precedente, viene annunziata dal sacerdote che celebra la messa nella chiesa parrocchiale del capoluogo del comune; e alcuni giorni innanzi di partire i soprastanti massaj (cioè quelli che vivono nel paese) fanno ammannire dalle loro donne il pane che può esser necessario alla festa, mentre i soprastanti pastori (che vivono nei numerosi stazzi sparsi per le campagne) preparano la carne occorrente. A tal uopo ciascuna famiglia offre, in ragione dell’entità della quota, o una pecora o una capra; oppure si comprano una o più vacche, contribuendo ciascuno secondo la quota che deve sborsare.
La sera che precede il vespro i banderai (portinsegna) designati dai soprastanti maggiori che fanno loro tutte le spese, onorati dalla scelta, cavalcano superbi cavalli riccamente bardati e adorni di collari ricamati, carichi di squillette e bubboli, con la criniera acconciata a treccia e la coda annodata a più riprese, ornata di nastri rossi e violetti.
Fanno un giro torno torno al paese, tenendo con la mano destra lo stendardo che poi viene esposto alla finestra del capo sopra stante o di altra persona a lui amica. Ufficio dei banderai è, per incarico dei sovrastanti, d’invitare alla festa tante persone quanto v’è cibo sufficiente, e quelle che accettano l’invito vanno la mattina del vespro, a desinare in casa del capo soprastante.
Dopo desinato ognuno corre ad insellare il proprio cavallo per essere pronto alla partenza. I banderai intanto, tolto dalla finestra lo stendardo, lo riportano attorno al paese, procurando di far due giri se la prima sera ne avevano fatto uno, o viceversa. Quindi si recano al luogo designato per la partenza, ove sono ad aspettare i soprastanti, gl’invitati, il sacerdote e tutti coloro che vanno alla festa per voto. Prima di partire, uno della soprastantia versa a tutti i cavalieri un bicchierino di acquavite o di vino generoso, e un altro, in seguito, mette loro in mano un cartoccio di confetti.
Le campane suonano a intervalli rompendo in un interminabile e sonoro squillo di festa, appena s’ode lo sparo dei fucili che indica ai rimasti la partenza dei festanti. In segno di gioia e per onorare il sacro gonfalone sventolante al tiepido cielo primaverile, i partenti ricaricano e sparano i loro fucili per un buon tratto di via. La folla assiste alla partenza dei festanti e li vede sparire nel sereno paesaggio; l’aria è tepida e profumata di fiori, il cielo azzurro, le donne belle e ridenti; le campane avvolgono il paese col loro inno metallico che si ripercuote fra le granitiche roccie, i cavalli galoppano nitrendo, lo stendardo fiammeggia al sole; il buon popolo Gallurese va a servire Dio in letizia.
Fin dalla mattina del vespro i soliti rivenditori ambulanti di vino, liquori, confetti, torroni e frutta secche hanno piantato le loro tende intorno alla chiesa. Via via che arrivano, i festaiuoli per credenza, per costume o per rispetto umano, entrano in chiesa e si prostrano a pregare con vero o finto fervore.
Compiuto questo primo dovere, se non hanno la fortuna di trovare un albero che li ripari dal sole, di giorno, e dall’umido, di notte, vanno in cerca di un luogo comodo per costruirvi la pinnetta (capannuccia di frasche). Piantate così le rustiche tende, le persone adulte e serie si occupano dei pasti, dei cavalli ecc., e i giovinotti fanno i preparativi per il ballo.
Il sardo, nelle feste campestri di tutta l’isola, non trova altro divertimento che il ballo: e poichè le sue danze, quando non sono magari i balli civili, non hanno nulla di scomposto o di selvaggio, ma qualche cosa di serio, di monotono e quasi di malinconico, è da arguire che provengano da un sentimento di gentilezza e d’affettuosità. Puro vuol esserlo certamente, perchè, sino a pochi anni fa, i balli civili e nazionali si riputavano osceni o almeno poco decenti per le fanciulle; ora questo pregiudizio va scomparendo, e mentre parecchie coppie danzano al suono dell’organetto, altre persone coi balli sardi, ne svolgono i circoli saltellanti e repentini attorno al monotono coro vocale d’un cantore accompagnato da tre voci imitanti il basso, il tenore, il soprano.
Questo coro, somigliante a certe melodie del Nuorese, è monotono, cadenzato, e, come quasi tutte le musiche sarde strumentali e vocali, ha in sè qualche cosa di nostalgico, di affascinante che, sull’anima di noi sardi rievoca misteriose sensazioni, come memorie ataviche e nostalgie di cose lontane. Negl’intervalli i ballerini, gl’innamorati, gli uomini galanti conducono le donne dai liquoristi e con grande e spesso rara gentilezza le invitano a bere.
Durante il tempo del vespro e della messa le danze s’interrompono perchè le donne vanno in chiesa; cessano poi al grido di un soprastante che chiama alla cena od al pranzo.
Questi pasti sono veramente omerici. Oltre la carne e il pane, fra cui non mancano le focaccie che servono per pasto a mensa, i pastori portano generosamente il biondo miele, formaggi freschi, artisticamente lavorati, ricotte, latticini d’ogni specie e pinti di miciuratu (piccole secchie d’ossigala). Il vitto viene apprestato non solo per i soprastanti e le famiglie loro, ma per quanti vogliono intervenire alla festa.
Anche i forestieri possono partecipare alla mensa comune senza timore d’esserne respinti o trattati scortesemente; e questo pure prova la classica ospitalità sarda.
Finito il pasto, parte dei convitati riprendono le danze, parte attorniano i banchi dei rivenditori e dei contambanchi tentando la fortuna veramente mediocre, di vincere con un soldo sino quaranta centesimi, o un gingillo di approssimativo valore.
La sera, appena cenato, gli adulti e parte anche dei giovani, mentre gli altri ballano. O bevono o giocano, si raccolgono intorno agli improvvisatori, poeti estemporanei, moderni trovadori che non mancano mai nelle sarde feste campestri.
Il tema cade spesso su cose o persone presenti. Ordinariamente è una fresca sposina dalle gote rosse e dagli occhi pudicamente chini, seduta al fianco del suo forte compagno, che desta la vena, invero non sempre limpida, nella lirica improvvisata. Spesso è qualche bella ragazza alla quale si prodigano versi lusinghieri, lodi quasi sfacciate e auguri di un buon matrimonio.
In questi casi gl’improvvisatori s’emulano solo nel lodare; però se il tema cade su cose più virili e magari frivole, ma che non abbia per soggetto una donna presente, la sfida diventa tenzone.
La tenzone talvolta ha luogo subito. Uno comincia il canto col metro (endecasillabo e in ottave, ordinariamente) e con l’argomento che più gli piace, invitando l’avversario a rispondergli. Di qui l’attacco che poi diventa una vera lotta di botte e risposte ironie, satire acerbe e frizzanti, sarcasmi pungentissimi. Intorno ad essi si formano due cori che accompagnano col loro canto le rime del poeta, e dietro un corteo d’ammiratori fra cui si distinguono i partigiani dell’uno e dell’altro e i neutrali. Tutti fanno a gara per offrire bottigliette di liquori ai loro ammirati, i quali annaffiano ogni poco le arsicce gole.
Spesso avviene che ai rivali s’uniscano altri poeti minori in aiuto, ma sempre in numero eguale fra le due parti, e allora s’accende una battaglia più calorosa, più veemente di motti, frizzi, scherni, in una vera onda irrompente di versi, che dura fino allo spuntar del sole.
La notte intanto cade, vengono più distinti i profumi campestri, i fuochi brillano e le stelle vigilano su quel buon popolo primitivo di patriarchi, arguti e semplici nel medesimo tempo.
Tra l’uno e l’altro ballo i giovanotti circondano le leggiadre fanciulle, annodando con esse le comarie di fazzoletto che spesso sono il principio di legami ben più forti. Prendono una pezzuola bianca e l’annodano e snodano scambievolmente per tre volte consecutive nelle quattro cocche, avendo cura di snodar l’uno il nodo eseguito dall’altro; poi si stringono la mano in segno di fede e il compare conduce la comarina per servirle torroni e rosolio.
Poco diversa dalla cosidetta comaria di fazzoletto è la comaria di fuoco che s’eseguisce sull’imbrunire della vigilia di S. Giovanni e di S. Pietro accanto ai fuochi accesi da ogni famiglia. Questi fuochi sono di legna secca, a Tempio, e in qualche altro paese sono di asfodelo, tignamica, verbasco e altri cespugli aromatici. Dopo l’annodamento del fazzoletto uomini e donne circolano attorno al fuoco con passo affrettato e cadenzato (che, checchè se ne voglia dire non è, neppure allora, la danza dei selvaggi) al ritmo di queste parole cantate a vicenda: Cummari e cumpari di Santu Giuanni, cumpari e cummari di Santu Giuanni. Quando il fuoco sta per spegnersi viene da tutti saltato tre volte e la cerimonia finisce con scambievoli strette di mano.
A notte inoltrata molte persone, compresi i giovani, si ritirano negli stazzi vicini, ove chi non continua a ballare quasi tutta la notte, dorme per terra sopra stuoie di giunco o di biodolo. Altri, uomini e donne alla rinfusa, dormono in chiesa.
All’alba, quando il canto degli uccelli silvani scende o sale dalle macchie roride, ricomincia la festa. Tutti sorgono, tornano all’aperto, si ristorano con carni arrostite, vini, caffè, liquori; e i giovani riprendono i giuochi e le danze. Nella freschezza pura del mattino le fanciulle hanno le gote rosee e fresche come l’aurora che fascia l’orizzonte; le grida e le risate vibrano nel silenzio del paesaggio; il quadro è ancor più pittoresco e le tinte più dolci.
Verso le dieci del mattino un soprastante suonando una grossa campanella, va in giro per annunziare le sacre cerimonie. Pare che anni indietro nessuno si azzardasse a star fuori di chiesa nell’ora della messa; ora invece, a volte il sacerdote, vedendosi mancar le ragazze, va fuori e si lamenta con quelli che continuano il ballo, e riesce ad imporsi ai pastori.
Dopo la messa si usa spesso portare il santo in processione, fra lo sparo di fucili e mortaletti.
I soprastanti, intanto, preparano il desinare. Grandi fuochi ardono, pallidi nello splendore del sole: caldaie e pentoloni posati su trepiedi di pietre mandano lunghe spire di vapore caldo; infilati in enormi schidioni di legno verde, agnelli e capretti interi e quarti di pecore arrostiscono lentamente. (1: Questo, come parecchi altri usi, è comune a tutta l’isola).
Le mense vengono imbandite per terra, su felci e fronde verdi coperte di grandi tovaglie. Al posto d’onore, su una pietra e un guanciale, siede il sacerdote, i soprastanti gli stanno a destra, i bandierai alla sinistra; in seguito gl’invitati, in ultimo gli estranei. E il sacerdote benedice le mense e dà il segno del pasto: pare una scena biblica, al cospetto delle cerule montagne sotto il puro cielo del meriggio.
Parecchie famiglie massaie fanno festa per conto loro portando seco le provviste dal villaggio e in compagnia di qualche pastore da loro invitato, che offre latticini e miele, imbandiscono mense a parte invitando i forestieri di condizione civile. Ciò non disturba la generale armonia; anzi succede che da una mensa all’altra passino regali, s’incrocino sorrisi e in ultimo s’accendano cortesi tenzoni.
Dopo pranzo corsa di cavalli, poi nuovamente canti e danze, finchè giunge l’inesorabile ora della partenza.
Il sole cade, e col sole cadono tanti sogni; molte labbra cessano di sorridere, molti occhi si oscurano: le pastorelle prendono doloroso congedo dai nuovi giovani compari del paese; vengono scambiate calde proteste di fede, d’amicizia, d’amore, sguardi più eloquenti della parola e promesse di rivedersi alla prossima festa. E i compari comprano cartocci di confetti alle graziose comarine, liquidando così i rivenditori.
I bandierai intanto rientrano in chiesa e riprendono lo stendardo dalle mani del sacerdote; recitano un’ultima preghiera, e dopo aver, come all’arrivo, fatto il giro della chiesa, danno il segno della partenza, salutati da salve di fucilate. Tutti gli altri festaiuoli li seguono; la carovana ha il sole calante in faccia e una dolce mestizia in cuore; lo stendardo sventola all’aria mite della sera.
Vicino al paese i giovinotti e gli adolescenti lanciano i cavalli alla corsa; la gente aspetta, le campane suonano nuovamente a distesa. I bandierai ripetono i giri attorno al paese e poi depositano il sacro vessillo presso il proprietario.
Il buon popolo s’è divertito in Dio, e lontano, nel sereno tramonto, la chiesetta nuovamente, tra il profumo delle erbe e dei fiori calpestati, sta nel silenzio del paesaggio.
LA FESTA CAMPESTRE DI SANTA MARIA DI VIGNOLA

Ed ora un ricordo particolare. Noi giovanotti, tutti in gruppo, spronammo i cavalli alla corsa con l’idea, forse, di farci ammirare dalle belle ragazze, che assistevano alla nostra partenza. La campana del paese, squillando lungamente, salutava la bandiera di S. Maria di Vignola.
Questo stendardo è un lungo drappo di finissima seta arabescata, tenuta fissa a un’asta di legno duro, la quale è lunga, cilindrica, ben tornita: in cima brilla una croce dorata dalla cui base pendono nastri serici multicolori. L’estremità inferiore dell’asta viene introdotta in una fodera di pelle fissata con fibbie, all’arcione del cavallo: lu bandiraju la regge con la mano sinistra. Un altro uomo a cavallo armato di fucile lo precede di pochi passi, sparando sovente.
Noi dunque correvamo a gran carriera lasciando dietro un denso nugolo di polvere grigia, il bandierajo e la comitiva dei festaiuoli, cavalcanti pur essi focosi cavalli. Dopo un’inebriante corsa di mezzo chilometro, ci fermammo in attesa della comitiva. I cavalli fremevano scalpitando, nitrivano e dalla loro bocca cadevano fiocconi di candida bava. Raggiunti si riprese la via, cavalcando quasi compatti, ridendo e scherzando ci accompagnava una monotona musica di armonica e il canto di alcuni che cominciarono una gara poetica. Pareva una marcia cavalleresca, accompagnata da suoni e canti guerreschi; un piccolo popolo nomade che passasse di terra in terra con le sue musiche e le sue canzoni.
Di quando in quando, da alcune bisacce d’orbace damascato, si prendevano grossi fiaschi di vino che passavano di mano in mano. Il paesaggio era un po’ desolato, ma solenne: sterminate brughiere, campagne devastate dagl’incendi, colline brulle e balze ruinanti, ripide, scoscese, fiancheggiavano il nostro dirupato sentiero. Il verdeggiante altipiano centrale di Gallura era assai lontano. Il cocente sole d’agosto accompagnava li fistulani, che ora s’inerpicavano per balze scoscese e ora sprofondavano per sentieri angusti nelle valli profumate dalle selvaggie macchie dei corbezzoli sparsi di bacche d’oro, dei mirti fioriti e dei ramerini appassiti.
E sempre a cavallo: gli uomini fortemente inforcati in arcione, le donne in groppa, mollemente abbandonate sulle spalle dei cavalieri. Questi, dall’aspetto fiero e maschio, col berrettone ripiegato al sommo del capo e allungato in avanti a guisa di visiera, per riparo del sole, rendevano più grazioso lo spicco delle donne azzimate, col capo avvolto leggiadramente nei fazzolettoni violacei a frange e fiorami, con le maniche dei corsetti scarlatti ripiegati e quelle della camicia a larghi sboffi, serrate ai polsi da bottoni d’argento, o rimboccate con civetteria sui nudi polsi rossi e rotondi.
Cammina… cammina… sempre per erti e pittoreschi sentieri, giungemmo in vetta ad una montagnola. Un vago panorama si godeva di lassù. Sovrastavano a noi le eccelse cime del Limbara, sfumate sullo sfondo azzurro del cielo; sotto i nostri occhi la parte orientale dell’ampio golfo dell’Asinara stendevasi giù, giù, confusa in armoniche vaporosità fino alle bianche rocce calcaree delle coste di Bonifacio. Scorgevamo tutte le gole attraversate; in lontananza le roccie s’ergevano in gigantesche immagini, sul verde cupo dei paesaggi. E nel puro silenzio di quell’altura diffondevasi come una ignota e dolce melodia, e col profumo della ginestra e dei ginepri, un senso d’estasi, di contemplazione, un desiderio di pure voluttà. Era forse, nascosto, il desiderio di restar nella vita, sempre così in alto?… Chi sa? Ma fu d’uopo scendere, e scendemmo lentamente, come Simonide salìa «guardando l’etra e la marina e il suolo».
Lungo la strada s’univano a noi uno, o due, o frotte intere di pastori, forte gente che vive in campagna, fra le greggie disseminate intorno ai solitari stazzi. Lasciavano trasparire dai volti abbronziti un semplice sentimento di gioia e di festività; avevano sulle labbra saluti, barzellette, arguzie condite di sale attico, sorrisi e canzoni. Erano Aggesi; i più vivaci forse e gioviali fra i Galluresi.
Ogni tanto il paesaggio veniva animato da mandre di pecore, di arieti, di capre che s’inerpicavano per le balze; ogni tanto si delineava uno stazzo, un casolare, un armento, un pastorello che mungeva le mucche e noi sempre giù per valloni e pendici, fra l’olezzo della tignamica, del corbezzolo, del mirto, del lentischio e del timo che profumava la calda atmosfera, dandoci sottili ebbrezze e sogni di cose e persone lontane.
Si attraversarono due o tre alvei di rivi essiccati, sulle cui sponde languivano gli oleandri fioriti, si guadagnò ancora una cima, e dopo una piccola discesa fummo sul luogo della festa.
Santa Maria è un’antica chiesuola, su di una collinetta, a piè della quale scorre il grosso rio di Vignola [corretto Liscia]. La festa ricorre l’ultima domenica d’agosto, e v’accorrono tutti i pastori delle circostanti campagne, nonchè molti tempiesi, teresini ed aggesi. Questi in maggior numero, perchè sono i paratai, come vengon chiamati in più parti d’Italia, ossia quelli che combinano e dirigono la festa, la quale dura circa tre giorni.
Sebbene questa festa, un dì popolarissima, sia in decadenza, il concorso è ancor numeroso. Vicino alla chiesa stendesi una spianata discretamente vasta, assai pittoresca, ombreggiata da annosi olivastri.
Lassú s’ accamparono li fistulani che si diedero tosto alle solite occupazioni e divertimenti: fra i lentischi i cavalli pascolavano quietamente. lo fui attirato dai balli e in modo speciale dalla danza tonda aggese, una specie di carola a cui tutti possono prendere parte facendo però coppia con donna e non togliendo mai ad un uomo la mano della propria dama. Tra gli olivastri penetrava il sole rifulgendo, a mano a mano che passavano, sulla fronte delle belle ragazze galluresi.
Con vero piacere estetico io ammiravo quei puri tipi di bellezza, che hanno in sè qualche cosa di greco e latino e nordico fuso in un insieme laggiadro ed elegante. Capelli d’ ebano e d’oro, labbra di corallo e dentini di avorio, lucide fronti di rosa e colli di neve, occhi profondi, occhi pensosi, neri, castanei, azzurrognoli, severi e maliziosi, aperti e liquidi o velati da lunghe ciglia di seta, piedi brevi e sottili, nervosi ed arcuati… Oh! io vi ammiravo e non chiedevo quale magica fiala avesse dato l’oro e la tinta corvina, il bagliore, il fascino al vostro colore e alla vostra forma, io non volevo sapere se misteriose immagini stavano stampate al di là di quelle fulgide pupille, se un contatto arcano aveva su quelle labbra eternato il color del minio e l’ardore della cocciniglia, se un sorriso d’amore era quello che brillava fra le perle delle bocche giovanili… no, io pensava a due grandi occhi lontani, a un piccolo piede, a una soave bocca lontana, ma mi domandavo se qualcuno mai, vedendovi, avrebbe negato il primato della bellezza femminile sarda alle splendide fanciulle vignolesi.
Io pure ballai, prima la danza in comune fatta in tondo, poi quella che si eseguisce a coppia a coppia, e in quest’ultima avevo per dama una bellezza dal puro profilo, dalle dita affusolate, le unghie rosee e la pelle trasparente venata d’azzurro. Incoraggiato dall’esempio degli altri cavalieri danzanti, scherzai anch’io respirando la fragranza provocante della leggiadra e bionda creatura, alla quale avrei voluto sussurrare all’orecchio i dolci versi del poeta gallurese Leone Chispima:
Intricciati di cori.
A la danza bulemu almuniosa,
E li cosi d’amori
Dimmi, tu, cioia, bulendi festosa:
D’una dulci spiranza
Almami, bedda, ‘n un bolu di danza.
La mia ballerina era lieta d’ avermi per cavaliere e me lo dimostrava un po’ troppo apertamente, ciò che causò gelosia in un cavaliere tempiese, venuto appositamente per corteggiare la ninfa di Vignola (dall’antica Viniola sorgente in quel territorio). Da Tempio, giova dirlo, gli zerbinotti, il giorno della festa vengono più che altro per dar la caccia alle belle pastorelle vignolesi. Ai galanti cacciatori dà sovente la baia l’arguto e mordace popolino aggese, che del resto non risparmia nessuno, nè i semplici nè i serii.
Ricordo che, durante la festa, uno dei più bersagliati fu un calzolaio vestito come un figurino, che voleva passare per un proprietario, sperando forse di conquistare i cuori delle belle e ricche ragazze. Riconosciutolo, un burlone aggese riuscì a ficcargli di nascosto, entro la saccoccia, una manata di spago e una lesina in modo che quegli, prendendo il fazzoletto, vide, in presenza di tutti, cadere per terra i simboli del suo mestiere. Tutti ne risero: egli rimase stordito, pieno di stizza e sul suo volto si leggeva un dolore così sincero che io mi mossi quasi a pietà.
FONTI DELLE ILLUSTRAZIONI
Disegni, dipinti e litografie
Disegni allegati al testo di Pirodda nella rivista «Natura e Arte»
Bartolomeo Pinelli, Costumi di Tempio, 1828
di Giuseppe Biasi, dal sito Catalogo generale dei Beni Culturali
di Mario Delitala, dal sito Catalogo generale dei Beni Culturali
di Antonio Ballero, dal sito Catalogo generale dei Beni Culturali
di Giovanni Marghinotti, dal sito Catalogo generale dei Beni Culturali
di Stanis Dessy, dal sito Catalogo generale dei Beni Culturali
di Pietro Antonio Manca, dal sito Catalogo generale dei Beni Culturali
di Costantino Spada, dal sito Catalogo generale dei Beni Culturali
di Simone Manca di Mores, da Raccolta di costumi sardi, Edizioni della Torre, 1991
Cartoline e foto
nel libro Bozzetti e sfumature
di Francesco Cossu (Arzachena), di Gallura Tour
Foto contemporanee
di Gallura Tour, Hans Leysieffer
Le due versioni sono molto simili, ma quella nel libro Bozzetti e sfumature, pubblicato ben 17 anni dopo come raccolta di testi già editati, è più curata nella forma. E questa è quella che qui riportiamo.



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