Dopo la sepoltura
di Francesco De Rosa
La sera del giorno in cui viene fatto il trasporto del defunto al camposanto, non appena trascorsa l’Ave Maria, viene mandata, come pur si soleva far presso gli Ebrei, alla famiglia dell’estinto, da parte di uno dei più prossimi parenti, una abbondante cena composta generalmente di maccheroni, pane, vino e caffè. Presso i pastori è la famiglia del morto che prepara il mangiare, uccidendo allo scopo una o più vacche per soddisfare lo stomaco digiuno dei doloranti e per saziare quello dei parenti e dei conoscenti che numerosi vi accorrono come tanti avvoltoi all’odore della carogna.
Apparecchiate le mense, ad un cenno del capo della famiglia, ognuno prende posto col volto triste e gli occhi lacrimosi. Servite le portate, si mangia nel più profondo silenzio, non interrotto che da sospiri affannosi, gemiti spezzati e un batter continuo di mandibole, con un frequente allungare le mani per riempire di nuovo i piatti o afferrare un bel tocco d’arrosto. Per lo più quelli appartenenti alla famiglia del defunto mangiano dopo il trasporto del cadavere; ma gli accorsi si cibano alla presenza di questo.
Tale usanza i Galluresi l’hanno ereditata dagli antichi Romani, dai Tirreni, dai Pelasgi, dai Fenici (progenitori dei popoli sardi) i quali l’avevano in comune cogli Ammorrei, coi Ferezei, cogli Idumei, cogli Ammoniti, coi Palestini e cogli Ebrei, che pure in lontane e diverse epoche migrarono nella Sardegna – come ce lo attestano gli idoli consacrati alle loro deità, che numerosi si sono trovati in Sardegna, portandovi con loro gli aviti costumi, cui essi tramandarono ai più tardi nipoti. Leggendo il XXIV dell’Iliade si vede che ugual costume avevano pure i Troiani.
Una curiosa particolarità quella d’intervenire al piagnisteo – dopo il trasporto del cadavere, quando il sacerdote o i sacerdoti che assistettero ai funerali si recano, coi membri della confraternita, a consolare la famiglia dell’estinto (a fà l’accunoltu) – una popolana, la buffona, cerca di muovere al riso i doloranti. E ciò perché c’è un antico adagio: No v’ha dolu senza risu (“Non c’è duolo senza riso”), originato da una vecchia leggenda, nella quale si narra che dopo la morte del Redentore, essendosi gli animali recati a fare visita alla Madre addolorata, la ranocchia, parendole che Lei si lamentasse oltre il consueto, prese a dirle: «Maria, se tu ti duoli tanto per averti ucciso un figlio, cosa avrei dovuto far io, dal momento che la ruota d’un carro in un sol giro me ne ha ucciso sette?». La Vergine a tal uscita non poté trattenere le risa; cosicché dal giorno non v’è stato cordoglio dove il riso non v’avesse la sua parte.
Lungo è il cordoglio che i parenti fanno per la morte d’un loro caro. La moglie veste a nero fino a rimaritarsi, e in caso contrario per il resto della vita; la madre, se il morto era più che settenne, veste a gramaglia per tutta la vita, e suocera e nuora non lavano né cambiano la pezzuola di testa, né padiglione ai letti: tengono per più d’un anno socchiusa la porta e la madre spesso non esce per anni da casa, né si alza, che per andare a letto o per altra naturale necessità, dalla seggiola o dal nudo terreno, ove seduta pianse la perdita dell’amato figlio. Le figlie e le sorelle del defunto vestono a nero per oltre due anni; il vedovo esce di casa per tre mesi incappucciato, e per sei mesi vestono a gramaglia le cugine e le cognate, o portano almeno, in segno di duolo, il fazzoletto nero in testa. Un tempo si tingevano a nero anche le porte, le finestre e le pareti esterne.
È noto che, come [le] Galluresi, le donne ebree, greche e romane vestivano a nero o a bruno durante il tempo del cordoglio.
Molte famiglie usavano, nella prima notte d’agosto, mettere nella soglia della porta o sul davanzale della finestra un bel piatto di fave e lardo o di maccheroni, con la credenza che vi si recassero a mangiarli i loro defunti, imitando in ciò i Cananei, che, per la stessa superstizione, ponevano le cene ai morti nei sepolcri o sopra le arche e gli Egiziani che le ponevano negli ipogei e sovra le casse delle mummie, come apparisce dai dipinti che tuttora vi si vedono. Lo stesso costumavano gli Aurunci, i Raseni, gli Oschi, i Laterni e gli Umbri in Italia, i Celti, i Cimbri, i Germani e i Runi della Scandinavia nelle nazioni d’oltralpe.
Quasi annualmente in Gallura, i proprietari e i pastori possidenti sono solito fare la elemosina ai poveri in suffragio dei loro morti, o in denaro o dividendo fra essi una o più vacche uccise, proporzionando le parti al numero dei componenti le famiglie dei beneficati.
Tal uso è comune ad altre regioni d’Italia e in Francia, Spagna, Germania, Russia, Ungheria, Polonia, Boemia, Fiandra, Svezia ecc.