DA SANTA TERESA A TEMPIO
di George Burdett
Traits of Corsican and Sardinian Character
in «The New Monthly Magazine and Humorist»
Londra, gennaio – febbraio 1845
L’indomani mi accordai con un viandante, o portatore di cavalli da soma, di portare Ferdinando e il mio bagaglio a Tempio, per ventiquattro real (dodici franchi), per la quale cifra dovevano essere portati due cavalli.
Il nostro amico, il viandante, però, con vera fede punica, ne portò al mattino all’incontro solo uno, l’altro era una cavalla incinta e impossibilitata a viaggiare. Egli, apparve alla porta attrezzato, aveva una sella che recava forti segni di origine orientale, molto alta nel pomo e nella parte posteriore, e uno spazio appena sufficiente per il cavaliere.
Alla sella si legarono le bisacce di tela del paese che, come le tasche dei calzoni di Grimaldi, inghiottivano tutto ciò che vi si buttava dentro; uno dopo l’altro scomparvero borsa dopo borsa, valigia dopo custodia per armi e barili dopo rulli e mantelli, finché i mostri rigonfi quasi toccavano terra. Su questa sella fu issato Ferdinando, ma il tempio di cuoio era destinato ad avere un altro pinnacolo oltre a lui.
Avevamo appena lasciato Longo Sardo un paio di miglia dietro di noi, quando il viandante issò anche un grosso sacco sulla groppa del suo cavallo, il quale, sebbene appena di quattordici anni, portò senza difficoltà questo aumento di peso almeno per due terzi del viaggio, l’intera distanza è di quaranta miglia. Calcolai che con l’aggiunta del viaggiante il cavallo trotterellava sotto il peso di ventiquattro pietre.
L’ippovia – perché non merita altro nome – da Longo Sardo a Tempio, attraversa un paese di indicibile magnificenza in termini di paesaggi [Luogosanto o Aggius]. A volte si spazia tra gli alberi della foresta, rivaleggiando in rigoglio con la New Forest, sull’erba più verde e lungo le rive di ruscelli più limpidi del cristallo, a volte attraverso profondi boschi di sughero e leccio; a volte si scalano aspre cime, e ogni tanto si attraversano pianure di immensa estensione, il tutto un deserto della più selvaggia bellezza.
Questa contrada un tempo abbondava di briganti, i quali avevano l’ardire di prendere polvere e pallini dai viandanti, caricare i loro lunghi fucili sardi, e poi derubare gli sventurati, che così cedevano il loro unico mezzo di difesa. Durante il nostro viaggio incontrammo cinque o sei viaggiatori che venivano in direzione opposta; erano tutti a cavallo e, con un’eccezione, un curato, armati.
Uno portava legato sulla schiena un tavolo; un altro due sedie; un terzo, una grande pentola di ferro; tutti portavano in groppa qualche mobile.
Pensai ad una festa di matrimonio per arredare la casa dello sposo.
[…] Il ballo tondo
Girando sulle montagne della Gallura, tra i pastori selvaggi di quella contrada selvaggia, ho avuto diverse occasioni di vedere il ballo nazionale sardo, il Ballo Tondo. Quattro pastori stanno insieme al centro di una capanna e, dopo aver estratto i loro coltelli da caccia, li tengono dritti sulle loro cartucce. Uno dei partecipanti inizia quindi una cantilena sull’amore, sulla guerra o sui piaceri della caccia, a cui gli altri aggiungono accompagnamenti obbligati, e questo canto estemporaneo si protrae per quattro o cinque ore [sic! forse minuti?].
Intorno al cantore, intanto, si forma un cerchio di uomini e di donne, tenendosi per mano, che ballano fin quando, sfiniti, il loro posto è preso da altri, senza interrompere un solo attimo il movimento d’insieme. Sebbene questa danza appaia a prima vista piuttosto facile, è tuttavia difficile per coloro che non l’hanno appresa nell’infanzia.
A volte gli estranei ci tentano, ma sono presto obbligati a ritirarsi, se non vogliono divertire gli indigeni a loro spese, e anche causare il fallimento del divertimento, perché un solo ballerino che non osserva la giusta misura e cadenza, sconcerta tutti gli altri. Ci sono alcune regole che devono essere rigorosamente osservate nel ballare il Ballo Tondo, e la cui infrazione porta spesso a sanguinose liti.
Le persone affezionate possono tenersi l’un l’altro per mano palmo a palmo o con le dita intrecciate. Qualsiasi uomo che tenesse in tal modo una ragazza che non è disposto a sposare, o la moglie di un altro uomo, correrebbe il considerevole rischio di essere assassinato.
La launedda è uno strumento musicale peculiare della Sardegna, il cui uso si sta progressivamente estinguendo nelle parti settentrionali dell’isola.
Quando passai a Terranova salii a cavallo fino a una capanna solitaria in una gola di montagna, a una decina di miglia dal paese, abitata dall’ultimo esponente di un gruppo di menestrelli abili nel suo uso. Alla ricerca di quest’ultimo rampollo di una stirpe onorata, un bell’uomo sulla quarantina mi disse che suo padre, il giocatore, era fuori a spaccare la legna, ma che l’avrebbe mandato subito a chiamare.
Dopo circa mezz’ora un pastore di ottant’anni entrò nella capanna, era l’immagine stessa della verde vecchiaia. I suoi capelli erano bianchi come la neve, ma non diradati dal tempo; cadde a grappoli sulle sue spalle, che erano larghe e piatte; la sua carnagione era di un marrone chiaro e i suoi occhi brillavano ancora di tutto il fuoco del sud.
Quando gli chiesi di suonare, prese dal muro una scatola di latta, dalla quale trasse tre canne di lunghezza diversa, la più lunga delle quali era di circa venti pollici. Questo strumento è un relitto della più alta antichità, ed è sopravvissuto in Sardegna a tutte le rivoluzioni alle quali il paese è stato soggetto dal tempo del primo dominio romano fino ai giorni nostri.
È composto da due, tre e talvolta quattro canne (tre è il numero più comune) di lunghezza e spessore disuguali e forate con diversi fori, come i normali clarinetti. Il musicista le mette tutte in bocca e ci suona contemporaneamente. L’accordatura viene completata spostando piccoli pezzi di cera con le dita su e giù per i fori all’esterno, che generalmente sono quadrati di circa mezzo pollice, e considerando la goffaggine del processo, generalmente è presto terminato.
Quando lo strumento ha tre canne, due sono quasi di uguale lunghezza, ma la terza, che è sempre posta all’esterno, è considerevolmente più lunga e più grossa; ha un solo foro ed emette un suono di basso dolce come il ronzio di una cornamusa. Le altre canne eseguono arie di accompagnamento, prima, seconda, ecc.
Il suono della launedda all’inizio risuona selvaggio e strano all’orecchio, ma coloro che sono stati abituati al brivido eccitante prodotto dalla cornamusa sentono rivivere un piacere dimenticato da tempo nell’ascoltarne il suono. In effetti le note della launedda tengono un posto intermedio fra quelle della cornamusa e dell’organo, salvo che nel suonare le canne sarde i suoni finali sono meno prolungati.
I menestrelli sardi sono generalmente vittime dei loro sforzi. Nella maggior parte dei casi diventano affaticati ed esausti in tenera età. Alcuni di loro possono suonare per due ore insieme senza togliersi lo strumento dalla bocca. Queste fatiche hanno prodotto mutamenti nella forma della launedda nella parte meridionale dell’isola; a tutte le canne è stato aggiunto un bocchino comune, come quello del doppio zufolo, che allevia notevolmente la fatica del suonatore. Non c’è dubbio che questo strumento nazionale sia esattamente simile alle tibiæ pares et impares dei romani, che ogni “Westminster” conosce così bene.
[…] Nella provincia settentrionale della Gallura l’abito degli uomini è lo stesso durante l’estate e l’inverno, una dimostrazione degli usi delle nazioni meridionali, che proteggono la persona con la stessa attenzione dai raggi del sole come dall’umidità e dal freddo.
Il gabbano è un cappotto ampio con maniche larghe e cappuccio, che avvolge l’uomo fino alle ginocchia, informe come il “pilota”, che negli ultimi anni è stato tanto di moda, e di un panno nero ruvido che ricorda quella trama confortevole, ed è tessuto nelle capanne dei pastori. Sotto c’è un panciotto attillato, che si congiunge in basso con due paia di pantaloni; il primo è di lino bianco grezzo, e arriva alle caviglie; il secondo è indossato sopra il primo, ma arriva solo fino a metà delle cosce, è della stessa stoffa del gabbano, ed è molto pesante.
Il sottopantalone, quando chi lo indossa è in viaggio, è infilato in un paio di ghette di tela nera che, con scarpe di manifattura casalinga, completano il costume maschile delle province settentrionali.
I capelli ricadono sulle spalle in ciocche più aggrovigliate e arruffate di quelle del Re degli Elfi, ed è generalmente sormontato da un berretto nero; mentre una barba, spesso della crescita di un quarto di secolo, arriva fino all’elsa del coltello da caccia, che si porta nella cartucciera. In questa età della barba e del disegno della barba, i dilettanti dovrebbero decisamente visitare le coste sarde; i suoi abitanti sono certamente in grado di dare una lezione a qualsiasi uomo nell’arte di cancellare i lineamenti dalla mappa del volto umano con il rigoglio dei suoi ornamenti crinali.
E scomposte le chiome in sulla testa,
Come campo di biada già matura
Nel cui mezzo passata e la tempesta.
Disorder’d locks around his forehead waved
Like a vast field of laid but ripen’d corn
Which hath the fury of the tempest braved.
FONTI DELLE ILLUSTRAZIONI
Disegni, dipinti e litografie dell’800
Michel Antony Shrapnel Biddulph, “La valle del Liscia”, ca 1858, IN Thomas Forester, Rambles in the islands of Corsica and Sardinia, Londra 1858; edizione italiana Come due vagabondi. Due ufficiali inglesi nella Sardegna dell’Ottocento, curato e tradotto da Maria Laura Argiolas, Cagliari, Condaghes, 1996.
Alessio Pittaluga, Pastore della Gallura, ca 1826, IN Royaume de Sardaigne dessiné sur les lieux. Costumes par A. Pittaluga [litografia incisa da Philead Salvator Levilly], Paris – P. Marino, Firenze – Antonio Campani, 1826, rist. Carlo Delfino 2012.
Lorenzo Pedrone, Pastore della Gallura, ca 1841, IN Luciano Baldassarre, Cenni sulla Sardegna, illustrati da 60 litografie in colore, Torino, Botta, 1841; Torino, Schiepatti, 1843 (rist. Archivio fotografico sardo, 1986, 2003).
William Light, Jan Micali, Porto Pollo, 1829-30.
Foto contemporanee
Antonio Concas – Flickr; Roberto Gamboni, Aurelio Candido – Flickr
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