L’ISOLA CHE NON C’È

Sulla Costa Smeralda, o di un’u-topia capitalista

di Maria Cristina Addis

Bologna, Società editrice Esculapio, 2017

Copertina libro M.C. Addis

Per gentile concessione dell’Autrice e dell’Editore, pubblichiamo

l’INTRODUZIONE e il CAPITOLO 2

Introduzione

Brand immobiliare ideato e realizzato dal consorzio omonimo a partire dal 1962 sul territorio di Monti di Mola (Comune di Arzachena), il neologismo Costa Smeralda individua indissolubilmente un’area geografica e un marchio commerciale, una porzione di superficie terrestre e un bene di lusso, un punto sulla mappa e il valore aggiunto di un prodotto, senza che i due poli vengano mai a coincidere del tutto o viceversa possano distinguersi e divergere definitivamente.

L’indecidibilità inscritta nel toponimo e la frattura che esso opera all’interno del senso comune (la cartografia corrente lo riconosce e segnala come “località”, il diritto lo definisce una “qualifica supplementare” riservata ai soli immobili di proprietà del consorzio) non sono un mero baco dell’enciclopedia, ricucibile grazie all’esperienza del viaggio e alla pratica del luogo, ma al contrario costitutive della sua natura. Se il valore di posizione e quello di attributo coesistono senza coincidere, se rimandano agli spazi incompossibili del territorio geopolitico e dell’universo di marca senza per questo dissolvere l’effetto d’insieme, è perché ciò che ne fonda il valore e il funzionamento è esattamente una tale posizione di scarto fra ordini di realtà mutuamente esclusivi, fra la superficie terrestre in cui suo malgrado si inscrive e l’exclusive paradise” che vorrebbe affrancarsi per sempre dai limiti di questo mondo.

A differenza di un villaggio-vacanze, un resort turistico o un parco tematico, la Costa Smeralda non solo non ha confini precisi e marcati, ma l’oggetto dell’intrattenimento, il “tema” alla base del suo mondo ludico, non è altro che il “luogo allo stato puro”: spiagge bianche, baie riparate, specchi d’acqua quieta e cristallina, rocce dai profili cangianti che si stagliano nette sulla macchia incolta in cui si mimetizzano ville e alberghi, uffici e strutture sportive. Cartelli e insegne, distribuiti con ossessiva parsimonia, si riducono a discrete targhette di piccole dimensioni individuabili solo a una distanza molto ravvicinata.

I pochi edifici visibili dalle strade, bianchi o tinteggiati di tenui colori pastello, manifestano una generica funzione abitativa, l’immagine di un villaggio di cui non si può dire nient’altro. Monti di Mola e Costa Smeralda non si contendono semplicemente lo stesso spazio, ma il senso e il valore di una morfologia naturale e di una tradizione rurale che non solo non vengono negate, ma sono anzi magnificate all’interno di un’identità visiva che ne restituisce un doppio fantasmagorico più intenso, nitido e leggibile dell’originale.

Il quadro è ulteriormente complicato dalla posizione di chi scrive, nata e vissuta in quelle terre e residente, insieme a poco più di mille anime, sui margini più prossimi dell’aggregato di terreni posseduti e amministrati dal Consorzio (Fig. 2): i pochi nativi (tre famiglie allargate), impiegati, operai specializzati, lavoratori portuali, una serie di portatori di competenze e maestranze necessarie alla creazione e gestione del progetto, e di figure professionali richiamate dalla filiera turistica da esso innescata, costituiscono progressivamente la “comunità ombra” che lavora dietro le quinte delle vacanze miliardarie.

Necessario all’allestimento e mantenimento dell’universo ludico della costa, il “residente” ne costituisce a sua volta un paradosso, qualcuno e qualcosa di necessario alla sua esistenza ma che è altrettanto necessario sparisca, che non si dia se non mimeticamente rispetto ad esso. Come nel paradigma più classico del naturalismo prospettico, ogni traccia dell’artificio costitutivo dei suoi effetti esotici e folkloristici ne mina al contempo l’efficacia e la ragion d’essere, insinua una crepa nell’autonomia della scena riportando pericolosamente l’attenzione sul suo statuto materiale, sulla sua appartenenza al nostro stesso mondo, oggetto fra gli oggetti e artefatto fra gli artefatti.

Né l’identità di autoctona né lo statuto di “testimone oculare” giocano in questa sede alcun valore autenticante, garanzia della verità dei fatti riportati o della legittimità dei giudizi avanzati: non si tratta di esercitare una funzione di “svelamento”, di apportare dati a favore o a sfavore di una tesi, di decidere definitivamente se la Costa Smeralda è il simbolo per eccellenza della società del consumo o se ha protetto un angolo di mondo dai suoi effetti, se si tratta di una vergognosa forma di speculazione edilizia o di un modello virtuoso di imprenditoria sostenibile, se aggira le leggi e le ragioni dello Stato o al contrario ne fa le veci e ne compensa i difetti, se, infine, Karim Aga Khan IV è un losco neo-colonizzatore o un generoso benefattore, se ha approfittato della povertà e l’ignoranza dei proprietari terrieri originari circa il valore commerciale dei propri beni o è al contrario colui che li ha sollevati da una tale infausta condizione.

Il modello dell’inchiesta, in questo caso, rischierebbe di produrre risultati deludenti, se non di girare a vuoto: ognuno di questi argomenti, che animano il dibattito locale e nazionale sulla Costa Smeralda sin dai suoi albori, non solo è in egual misura fondato, ma tale fondatezza è palese, agilmente apprezzabile da chiunque e in poco tempo.

La nostra prospettiva si avvale al contrario dello sguardo semiotico per indagarne il dispositivo discorsivo all’interno di un’interrogazione più generale sul potere, sulla possibilità di osservarne e descriverne le positività e sulle tattiche di lettura utili ad incrementarne l’intelligibilità.

Il taglio dell’analisi guarda all’analitica del potere inaugurata da Michel Foucault e agli studi dedicati da Louis Marin all’utopia e al discorso utopico. Dalla prima adotta alcuni modi di pensare al problema del potere, e a quello ad esso strettamente correlato del soggetto, che portano l’attenzione sulla positività del discorso e sulla logica posizionale sottesa al suo funzionamento. Dai secondi raccoglie l’idea che alcuni “miti realizzati”, o eterotopie, si diano come cristallizzazione e degenerazione di utopie, di discorsi la cui specificità risiede nell’ambivalenza insanabile fra realtà e finzione, fra la spinta di una contraddizione storica e la messa in scena della sua soluzione mitica[1].

Dello statuto di “residente”, per questa ragione, conservo la posizione residuale, esito anch’essa di una doppia esclusione: in eccesso rispetto alla Sardegna allestita dal mito, bianca, nitida, imperitura, epurata dalle densità della storia, in difetto rispetto alla Sardegna “vera”, quella che vanta un’identità affondata nella tradizione e un’economia a base territoriale, la comunità di Monti di Mola segnala un interstizio, topologico e discorsivo, rivelatore di un mito più complesso e forse più profondo rispetto alla mera apologia della ricchezza o della bellezza, del guadagno o della natura, dell’individuo o della comunità, dell’artificio o dell’autenticità, un mito il cui primo dato notevole e degno d’interesse è la capacità di conciliare e tenere insieme ognuno di questi valori, di dissimularli, spostarli, trasformarli l’uno nell’altro, di convertire l’ambiente in una fonte di guadagno e la ricchezza in un oggetto di contemplazione estetica, la natura in una sua immagine e il mondo immaginario in effettive pratiche e forme di vita, senza che un polo si sostituisca in toto all’altro o sparisca del tutto.

Due aneddoti possono forse illustrarne meglio il funzionamento a partire dai suoi effetti.

Il primo, generico, riguarda gli innumerevoli casi di automobilisti che, avendone percorso più volte in lungo e in largo le strade e i sentieri, mi hanno fermata sfiniti ed esasperati per chiedere «Dov’è la Costa Smeralda?», numerosi quanto i resoconti disforici dei visitatori occasionali, vacanzieri alloggiati in altre zone turistiche dell’isola che attirati dalla fama del luogo scelgono di passarvi una giornata: «A parte il mare non c’è niente da vedere in Costa Smeralda».

Il secondo, puntuale, riguarda un episodio accaduto quando, da adolescente, a metà degli anni Novanta del secolo scorso, ho lavoravo come commessa nella filiale portocervina di Prada. Dopo aver concluso una vendita con una cliente straniera, vengo appellata da un’amica lodigiana della direttrice del negozio, venuta a passare le vacanze nella residenza estiva della conoscente. «Ma lei non è sarda?», mi ha chiesto. «Sì, sono sarda» ho risposto.

«Ma allora come mai parla Inglese?». «L’ho studiato a scuola». «Ma perché ci sono le scuole in Sardegna?». «Sì». «Ma anche le altre cose, tipo i tabacchi e i negozi, ci sono anche d’inverno?».

Come in un topos classico della fiction fantascientifica, le rispettive posizioni del visitatore occasionale e dell’ospite stanziale segnalano uno stesso punto a partire da dimensioni spazio-temporali distinte, come “mondi paralleli” che si dispiegano nella stessa porzione di spazio fisico senza confondersi né incontrarsi.

Il primo, alla ricerca di tracce di cultura, si scontra con un territorio che è solo natura; la seconda, convinta che aldilà del perimetro dell’oasi smeraldina ci sia solo la barbarie, è altrettanto sorpresa di trovarvi tracce di civiltà. Il primo si addentra progressivamente nel territorio fino a fare esperienza di un’assenza di senso; la seconda si colloca in un universo fiabesco pensato in assenza di spazio.

Di fatto, si possono percorrere all’infinito la strada provinciale che taglia longitudinalmente la Costa Smeralda e i sentieri che la articolano sui due lati con la sensazione di trovarsi sempre in qualche zona mediana, di passaggio, preludio di una qualche luogo topico che non si dà mai; così come si può villeggiare in Costa Smeralda senza avere mai la sensazione di essere in qualche posto specifico, e anzi estendere un simile esercizio di “sospensione di luogo” all’intera Sardegna, come se l’isola stessa, al partire dell’ultimo turista, si spegnesse come un teatro per riaccendersi all’inizio della stagione successiva.

Per quanto i dati e le informazioni accumulati durante decenni di esposizione prolungata ai rispettivi comportamenti e giudizi delle due tipologie di turista offrano materiale statistico e qualitativo di grande interesse antropologico e sociologico, il nostro sguardo si limita preliminarmente alla loro reciproca posizione, che segnala l’oggetto e il problema affrontati dal libro: un posto tale per cui da fuori si arriva a un vuoto, da dentro non si è da nessuna parte; da fuori appare come un mondo disabitato, da dentro come una scenografia auto-allestitasi.

[1] Una simile attenzione al rapporto fra mito e storia del turismo ideato e promosso dalla Costa Smeralda è portata da Bachisio Bandinu nel suo Narciso in vacanza, AM&D, Cagliari 1996, la più importante ricerca antropologica dedicata al luogo/brand smeraldino.

 CAPITOLO 2.

SULLA MIGLIORE FORMA DI REPUBBLICA E SU UNA NUOVA ISOLA
NASCITA DELLA COSTA SMERALDA

1. L‘inferno è il paradiso: di uno «scarto della storia

Nel 2012, in occasione dei cinquant’anni della Costa Smeralda, il consorzio omonimo ha prodotto un breve documentario promozionale Costa Smeralda, la storia che illustra le origini della celebre meta vacanziera: una voce fuori campo commenta una serie di foto d’archivio che ritraggono le terre di Monti di Mola, alternate da brevi interviste ad alcuni testimoni scelti fra i due ordini di soggetti protagonisti della storia, “nativi” e “forestieri”[16].

Come ogni mito fondativo, il racconto dice molto più di quanto lo stesso vorrebbe o sappia di dire, non tanto sull’oggetto della descrizione l’evento fortuito che trasformerà per sempre le sorti di una piccola località sconosciuta ai più quanto su di sé, sulle categorie con cui dà forma al territorio e ai suoi abitanti e sulle strategie di costruzione identitaria e legittimazione politico-sociale che informano il progetto sin dai suoi esordi. La tensione fra una storia al passato, dipinta come funesta e sinistra, e un mito al presente, sintesi idilliaca di bellezza e benessere, vi si manifesta a partire da una resa spaziale bifocale da terra e da mare che segna la frattura fra due luoghi e due comunità che si dispiegano su piani paralleli destinati a non incontrarsi mai:

[Voce fuori campo]: La Costa Smeralda era una terra di poche famiglie povere e orgogliose. Quella terra si chiamava Monti di Mola, che in italiano suonerebbe più o meno così: “Pietre da macina”. Porto Cervo era invece conosciuto come Poltu Mannu, un’insenatura nascosta protetta da secche e scogli, di cui i marinai diffidavano, nulla più di un puntino sulle antiche carte nautiche segnalato come Porto Ceruo. A Monti di Mola si arriva da mare o attraverso percorsi accidentati. Sulle spiagge capitava di incontrare mucche abbandonate sulla sabbia a riposare. Solo le capre si trovavano a loro agio tra la macchia, gli arbusti e le rocce aguzze di Monti di Mola. Quasi nessuno andava a vedere quella terra inospitale, dove solo pochi stazzi resistevano all’assalto della malaria, e per sopravvivere si dovevano lavorare i campi tutto il giorno, estate o inverno che fosse.

[autoctona anziana]: «L’omini erani tutti contadini tandu, palchì dìani trabaddà la tarra»[17].

Come nel primo tomo dell’Utopia di More, in cui si lamenta un’Inghilterra in cui le pecore brucano felici i prati incolti e i contadini, disoccupati, si danno alla delinquenza, nel mondo pre-smeraldino vige il caos: le mucche riposano in spiaggia e le capre si sentono a proprio agio, mentre gli uomini sono costretti a barricarsi nelle poche radure sottratte a un ambiente ostile e inospitale.

Il tempo, idealmente scandito da fatica e riposo nel più classico immaginario agrario, è invece informe, interamente occupato da un lavoro che comunque non emancipa la comunità da una condizione di stretta sussistenza.

Il territorio è colto secondo la duplice presa di un bene tesaurizzabile, suscettibile di scambio (terra, terreno), e quella di un luogo abitato, caratterizzato dalla comunità che lo informa con le proprie pratiche, abitudini e forme di vita. In quanto bene, all’inizio della storia esso appartiene a poche famiglie povere e orgogliose, definite quindi da una duplice mancanza, pragmatica e potremmo dire cognitiva, se ascriviamo all’orgoglio un attaccamento fuori misura all’immagine di sé che offusca il calcolo razionale e mina la ragionevolezza alla base dell’agire economico.

Specularmente, queste stesse famiglie si profilano come una versione degenerata e sinistra del “proprietario terriero”: il bene di cui godono è infatti un oggetto negativo, disforico, una condanna piuttosto che una risorsa. Se il diritto li qualifica come proprietari, lo statuto di abitanti li rende viceversa schiavi: isolati, impossibilitati a spostarsi e a ricevere visite, costretti al lavoro perpetuo.

Ma la sorte arriva in soccorso dello sfortunato popolo di Monti di Mola:

[Voce fuori campo]: Ma la storia avrebbe compiuto uno scarto improvviso alla fine degli anni ’50, complice la visita in Gallura di Mr John Duncan Miller, funzionario della banca mondiale.

Tra una visita e l’altra capitò nello scenario incantato di Cala di Volpe. Ne fu folgorato. Da business-man con il fiuto per gli affari, Miller iniziò indagini personali sul valore di quelle proprietà. (…) Miller si affrettò ad illustrare le meraviglie di questa terra agli amici della sua cerchia, tra cui l’industriale Patrick Guinness, lo scrittore tedesco René Pobienski, e lo stesso Karim Aga Khan. Miller tornò in seguito per acquistare i terreni compresi nella fascia litoranea compresa fra Capriccioli e Romazzino. (…) Per mettere d’accordo acquirenti e venditori spesso le trattative andavano avanti per le lunghe.

[autoctono 1]: «pugni innantu a la banca, calci a li catrei, ca dicìa centu, a ca dicìa cincucentu»[18]. [sindaco di Arzachena]: «in quel momento i terreni erano ben pagati. Adesso fa ridere quando dicono “e quelli hanno venduto per venti milioni”».

[autoctono anziano]: «e ha cacciatu lu bisognu a umbè»[19].

Il forestiero sopraggiunto per caso nell’isola meravigliosa gode di tutte le qualità di cui gli autoctoni sono privi: alla povertà e all’orgoglio dei primi oppone l’invidiabile ruolo di funzionario della banca mondiale e il raziocinio del business man, e soprattutto una posizione da fuori topologica, in quanto viene dall’esterno, ed economico-sociale, in quanto emancipato da preoccupazioni meramente pratiche che gli consente di cogliere il vero valore di una terra vissuta fino a quel momento come infernale, un valore precluso ai contadini in lotta per la vita: la bellezza.

Per la prima volta, Monti di Mola appare per quello che è: un posto meraviglioso. Si tratta a tutti gli effetti della scoperta primigenia di un luogo intatto allo sguardo, sui cui nessun occhio in grado di guardare si è mai posato.

La triplice qualifica economica, razionale e dunque estetica di Mr. Duncan lo rende il mediatore ideale fra la Monti di Mola mondana, terreno di proprietà e luogo del caos, e quella trascendente, disvelatasi come spettacolo folgorante all’animo del romantico funzionario britannico. La «terra ostile e inospitale» è così liberata da coloro che come tale la esperiscono, a loro volta sollevati dall’indigenza e dal malessere, e diviene oggetto, sul secondo versante, di una trasformazione conoscitiva che converte la meraviglia sconosciuta in un «luogo di fama internazionale», permettendo ad altri eletti di provare la stessa perturbante esperienza da cui prende le mosse l’intera vicenda:

[Giselle Podbielski]: «era bello, bello. Io mi ricordo di quando siamo arrivati la prima volta a Cala di Volpe. Era un sogno. Ero stravolta. Tutto così bello, sembrava non vera, capisci, una cosa incredibile». […].

[Voce fuori campo]: Monti di Mola si apprestava a diventare luogo di fama internazionale grazie soprattutto ai racconti estasiati sulla sua bellezza che i soci fondatori del consorzio trasmettevano a finanzieri industriali, divi del cinema e sportivi di fama mondiale. Ad aprire la strada fu il ministro del petrolio saudita Ammed Yamani, in quegli anni il più stretto consigliere di re Faysal e specie durante la crisi energetica mondiale egli stesso tra gli uomini più potenti del pianeta.

[Ammed Yamani]: «What I think is a sign of luck. The first time I came I didn’t know that this place is so beautiful»[20].

[Voce fuori campo]: Quasi trent’anni dopo, Yamani è rimasto uno degli ospiti d’onore della Costa, dove trascorre buona parte dell’estate godendosi la sua villa di Romazzino.

[Ammed Yamani]: «Well, the first time I came here I thought this is paradise on earth. I came without knowing anything about the place, but the beauty of the place, the water, how clean it is, the atmosphere of the place, I thought this is the place which will be my second home during the summer[21]».

[Voce fuori campo]: Questa è la storia della Costa Smeralda.

Il breve racconto può effettivamente aspirare allo statuto di “storia”, in quanto allestisce in modo quasi didascalico lo scarto topologico e assiologico alla base del neo-topos e neo-logos oggetto della nostra indagine. La Costa Smeralda nasce a partire dall’introduzione, a latere del luogo terrestre, di un luogo visto e dotato di senso da mare: l’opposizione fra luogo terrestre e scenario marino fonda quella fra terra inospitale e litorale vergine, l’opposto degli spazi addomesticati e popolati di una società avanzata; fra lavoro agrario e uno svago che si oppone al lavoro urbano; fra un abitante attivo, che trasforma l’ambiente per supplire ai bisogni, e un abitante riflessivo, soggetto di un’azione inefficace e non orientata. Di entrambi i mondi vediamo una metà diversa, il “contrario del contrario”: la vita ordinaria rurale e la vita straordinaria urbana, il tempo dell’utile dei contadini-pastori e il tempo libero di imprenditori, divi cinematografici, sportivi, principi e personaggi politici, ovvero dei vertici di molte scale sociali e di molte economie avanzate.

Al rovesciamento geografico corrisponde dunque una parallela trasformazione del valore del territorio, sia in termini soggettivi, relativo ai soggetti che ne fanno esperienza, sia in termini oggettivi, relativo al valore monetario che esso assume in quanto bene commerciale. Nascono così un nuovo “nativo”, l’ospite, e un nuovo “cittadino”, il consorziato, che affiancano nativi e residenti. L’altra Monti di Mola è differita su di un livello lo statuto ludico e ricreativo della vacanza, lo statuto privato e a-politico del Consorzio non direttamente comparabile al precedente, separato da una frattura semantica e topologica che sospende insieme, come utopia, collocazione e giudizio.

2. Di una nuova isola: dal luogo preistorico allo scenario edenico

Il mito allestito dalla Costa Smeralda, cui il video-promo si attiene in modo quasi didascalico, pone alle proprie origini un evento estetico: l’innamoramento dei soci fondatori (in particolare del vero protagonista della vicenda, Karim Aga Khan IV), rapiti dall’amenità del luogo.

Significativamente, nel documentario i “signori” non parlano mai di soldi: è la voce narrante a dirci del fiuto per gli affari e della posizione economico-sociale del funzionario britannico e degli altri forestieri, è il sindaco di Arzachena ad avvallare la bontà dell’affare, sono i nativi a raccontare delle movimentate trattative che rimano con l’orgoglio autoctono posto in incipit al racconto.

I prestigiosi forestieri, al contrario, si soffermano esclusivamente su un avvenimento tanto fortuito quanto perturbante, un incontro che li trasforma passionalmente e ne motiva le scelte e le azioni conseguenti.

I primi sono mossi dall’utile, i secondi dal bello; i primi affranti da una terra sterile e inadatta alla sopravvivenza, bloccata ai preludi della storia, i secondi stravolti dalle qualità estesiche e sensibili di un mondo che si offre come spettacolo.

Le interviste a Giselle Pobienski e Ammed Yamani racchiudono di fatto i principali tratti che omologano il territorio alla pietra preziosa che le dà il nome.

Il primo consiste nella riduzione del sensibile alle sole qualità visive: forme, colori, luci. Puntualità imprevedibile che squarcia la continuità del percepire ordinario, gli «scenari incantati» della Costa svelano allo sguardo un mondo altro, indefinibile e inenarrabile se non a posteriori e attraverso i suoi effetti.

Il secondo riguarda la cristallizzazione dell’oggetto della scena: sotto lo sguardo incantato della raffinata signora tedesca, del ministro saudita, dei futuri soci fondatori richiamati dal canto di Duncan non solo non appaiono costumi e tradizioni locali né alcuna traccia di presenza umana, ma nemmeno una qualche forma di vita o movimento. Atmosfere ambientali, purezza dell’acqua, amenità dell’intorno roccioso: all’opposto speculare di quello di Disneyland, il mondo ludico della Costa non solo non è ostentatamente fittizio, ma teatralizza quel versante della natura alieno all’uomo e alla vita. Il mondo altro che si offre agli estasiati testimoni è effettivamente l’altro del mondo, il suo supporto geologico, modellatosi spontaneamente in conseguenza di leggi e processi indifferenti e fuori-scala rispetto all’uomo e a qualunque forma di “abitante” o “ospite” uomini, piante, animali vi si insedi.

Il terzo, strettamente connesso al precedente, concerne la connessione fra purezza del luogo e senso di quiete esperito dall’ospite: gli elementi naturali aria, acqua, terra, luce si offrono ognuno allo stato primo, isolato e esente da contaminazioni con gli altri, e in stasi, non agenti ma stati della materia al suo ultimo grado di perfezione.

Come il “sogno di pietra” classicista convocato da Greimas a proposito del Robinson di Michel Tournier[22], la visione della Costa blocca il tempo e irrigidisce lo spazio. Le stesse identiche caratteristiche territoriali che rendono Monti di Mola vile pietra da macina fanno della Costa Smeralda un prezioso: abbagliante, taumaturgico, unico, frattura luccicante del sensibile e immagine di un ordine extra-terreno, immobile e imperturbabile.

L’ultimo, infine, concerne l’abbondare di superlativi che il narratore dedica agli ospiti e che gli ospiti spendono per il territorio: evidentemente, il giudizio entusiasta di un testimonial prestigioso è riconducibile alla più elementare strategia di marketing, che tende a legittimare quanto asserisce sul suo prodotto rimandando all’autorevolezza del primo la fondatezza del giudizio.

L’interesse è piuttosto il binomio “ricchezza spropositata” / “amenità indicibile”, il fatto che colui che può ottenere qualsiasi cosa e non manca di nulla ambisca al ritiro in un luogo altrettanto eccedente, l’uno e gli altri irriducibili alle categorie mondane: la valorizzazione adamantina del territorio seleziona specularmente un soggetto contemplativo, ricettivo, in rapporto privato ed interiore con una natura in cui non c’è niente da fare se non l’esperienza stessa della frattura percettiva, e niente da vedere se non un’immagine di perfezione che riconfigura passionalmente e spiritualmente.

A partire dagli studi seminali di Pierre Bourdieu[23] sulla natura posizionale e differenziale dei meccanismi di distinzione sociale, possiamo ricondurre l’esteta trascendente al centro del mito smeraldino all’immagine del nobile, un individuo le cui azioni non mirano a soddisfare bisogni o a ottenere guadagni ma esprimono e reificano un’essenza costitutiva, che trova nell’apprezzamento della natura in quiete la sua forma più intensa ed elevata, laddove attesta al contempo elevatezza culturale (apprezzare la bellezza) e morale (apprezzare la quiete), dominio degli impulsi (fare contemplativo) e sospensione non solo del tempo del lavoro, ma anche di quello dell’intrattenimento e della socialità.

La Costa Smeralda non è un posto per gente semplicemente ricca, potente e famosa, ma per persone talmente ricche, potenti e famose che ricchezza, potere e fama divengono nulli, senza valore: la logica distintiva sottesa alla valorizzazione estetica operata dai due testimoni seleziona un individuo definitivamente emancipato da finalità pratiche, che non mira ad ottenere alcunché, né beni né riconoscimento sociale, ma a sospendere tutto ciò assoggetta l’esistenza a determinazioni estrinseche. Letteralmente disinteressato, perché in assenza di bisogni a cui supplire, di una qualche mancanza che rompa l’equilibrio e imponga un’azione, il nobile smeraldino non si muove ma è il mondo intero, l’altro mondo, la gemma, che si dispiega per suo piacere attorno a lui.

Questa stessa valorizzazione, alla base della topica mitica che la Costa Smeralda allestisce per i suoi ospiti, regola il suo versante storico, quel lato di Utopia che si affaccia su questo mondo: il Consorzio Costa Smeralda.

3. Della migliore forma di repubblica: il Consorzio Costa Smeralda

Il breve documentario diretto da Agostino Pileri racchiude in realtà un secondo evento miracoloso: la conversione di un bene tesaurizzabile, quantificabile, monetizzatile, in un bene dal valore irriducibile, non misurabile e senza prezzo. Se, in quanto viaggiatore sensibile al bello, Mr. Duncan rimane “folgorato” dalla vista della costa, in quanto «business-man con il fiuto per gli affari» funge da mediatore economico, fautore di uno scambio di beni terreno in cambio di denaro che l’ex-sindaco di Arzachena assicura equo e che l’anziana abitante di Liscia di Vacca sanziona addirittura come salvifico.

Al momento dell’acquisto, i terreni sono valutati da terra, secondo la misura del mondo ordinario autoctono, rispetto al valore che acquistano per la vita di tutti i giorni (ovvero nullo, in quanto compaiono come sterili, malsani, ostili, scomodi), e secondo parametri di mercato (assenza di domanda).

A partire dalla fondazione del Consorzio, il loro valore è misurato da mare, in virtù in quella posizione esclusiva ed escludente occupata dall’ospite: il valore estetico che egli assegna al territorio coincide con il valore economico che assegna al bene, inestimabile e impagabile. Lo stesso territorio sterile, irregolare, isolato, decentrato, resistente all’insediamento e allo sfruttamento economico ha valore nullo secondo l’utile e incommensurabile secondo il bello: da questo primo scarto discendono due forme di governo e gestione territoriale che non si avvicendano ma si affiancano e confliggono a partire da piani di discorso non direttamente comparabili.

Espressione di un accordo fra privati, il Consorzio si colloca nel perimetro fisico e giuridico che per definizione è sottratto all’autorità pubblica, e ivi assume le funzioni dello Stato, intervenendo in tutto ciò che nelle operazioni e nelle condotte di ognuno ha effetti sul paesaggio e sulla privacy, sull’identità visiva del territorio e sulla quiete degli altri.

Recita la definizione ufficiale dell’ente consortile:

«Il Consorzio Costa Smeralda con sede in Porto Cervo è un’Associazione senza scopo di lucro, costituita il 14 Marzo 1962 fra i proprietari di un ben limitato territorio dell’estrema punta nord-orientale della Sardegna, con lo scopo di programmare un equilibrato sviluppo urbanistico e residenziale e di dotarlo di opere di qualità necessari per una migliore valorizzazione turistica.

Alla responsabilità di guidare lo sviluppo del territorio si è affiancata, con il procedere del tempo, quella non meno importante, di tutelare ed accrescere il valore del patrimonio immobiliare esistente. Questo impegno si concretizza da un lato nel controllo dell’ambiente per quel che riguarda gli aspetti paesaggistici ed edilizi, dall’altro nella fornitura di un sistema di servizi ambientali e di sicurezza caratterizzati da un livello qualitativo decisamente elevato»[24].

L’autoritratto verbale dell’associazione, come la figura utopica, è uno e plurale, vi convivono ordini di valori e modelli di governo incongruenti. Da un lato, il Consorzio persegue obiettivi e finalità che vanno ben oltre la “gestione condominiale” di un insieme di abitazioni, e intersecano in più punti le finalità politiche e le funzioni amministrative di un ente territoriale: la progettazione urbanistica, la realizzazione di strutture necessarie a implementare l’economia, la guida dello sviluppo sono tutte funzioni di normale competenza della politica locale e statale. Dall’altro, lo stesso ha la finalità di preservare e accrescere i patrimoni esistenti, ovvero quelle dell’ente economico, e in particolare di quell’ente economico deputato a tutelare i patrimoni, la banca. Contratto sociale e interesse individuale, valore paesaggistico e commerciale, abitabilità del territorio e identità visiva del brand sembrano convergere in un modello epurato dai difetti della politica e dai conflitti dell’economia.

Sul primo versante, il Consorzio oppone all’organo elettivo, distante e lacunoso, il modello di una virtuosa città-Stato: ognuno dei proprietari subentra automaticamente a far parte dell’Assemblea dei Membri, e ha dunque la facoltà di discutere e votare direttamente ordinanze, provvedimenti e linee progettuali dell’Associazione. Il consorziato gode di un numero di voti «proporzionale al valore degli immobili sulla base della [loro] caratura in milionesimi […] suddetta caratura globale verrà frazionata a cura del Consiglio di Amministrazione del Consorzio, secondo il criterio del buon padre di famiglia»[25].

Quanto più vale la proprietà – calcolata in termini di volume e destinazione di fabbricati e terreni, rilevanza paesaggistica e potenzialità d’uso per servizi – quanto più il proprietario ha potere decisionale e oneri finanziari verso la comunità. Il modello politico espresso dal Consorzio, a differenza di quello democratico, non separa contratto sociale e interesse individuale, legge e mercato: il voto non esprime un diritto dell’individuo ma il valore della proprietà, e il potere decisionale non è delegato a individui che esercitano una funzione sovra-individuale la carica che esprime le leggi dello Stato e rappresenta gli abitanti di un territorio, ma è esercitato dagli individui che hanno maggior interesse economico a rispettare e perseguire una legge di marketing in cui il paesaggio equivale al patrimonio, e l’abitabilità al suo valore monetario.

Allo stesso tempo, assoggettare il territorio a un piano regolatore omogeneo, che stabilisce rapporti di distanza e altezza fra immobili tali da non modificare né la vista né la continuità con il mare di ognuno (e dunque fa sì che essi siano gli uni per gli altri invisibili), e criteri edilizi improntati al mimetismo e al camouflage (sostanziati da accordi decennali con il Comune, vincolanti per entrambe le parti, e da concessioni d’uso del demanio statale per quanto riguarda spiagge e porto), neutralizza gli effetti trasformativi dello sviluppo e dunque azzera idealmente la variabilità del valore.

Qualunque forma assumano lo sviluppo edilizio e commerciale, questo sarà tale da conservare invariato il valore soggettivo che il territorio assume per l’ospite ideale disegnato dalla Costa, e dunque di quello oggettivo che esso acquista all’interno dell’economia turistica, di cui neutralizza la dimensione concorrenziale. Non deturpare il paesaggio e non disturbare gli altri per non variare il valore: la legge del Consorzio sembra realizzare la formula filosofale della societas perfetta, in cui l’interesse economico si persegue rispettando il contratto sociale, e i valori del bello (valore paesaggistico del territorio), del giusto (quiete e privacy dell’abitante) e dell’utile (valore commerciale dell’immobile) coincidono e si sostanziano attraverso identiche scelte e programmi di azione.

Fig. 2 Logo Costa Smeralda ( Consorzio Costa Smeralda). [SI VEDA SOTTO]

4. Il mondo terzo: sogno del Capitale e delitto perfetto del capitalismo

Nel quadro della filosofia spaziale elaborata da Carl Schmitt, l’esistenza storica degli individui e delle culture è governata da modelli e concezioni spaziali strettamente correlati alle forme dell’abitare, ai modi in cui l’uomo occupa e circoscrive un “luogo proprio” e lo adatta alla propria esistenza[26].

Ogni ordinamento giuridico-politico concreto, secondo il filosofo e giurista tedesco, è nomos, ordinamento spaziale risultante dal genere di rapporto che una data cultura intrattiene con il territorio, sotto la triplice prospettiva dell’appropriazione (che instaura un confine fra interno ed esterno e circoscrive il “mio” distinguendolo dall’ “altrui” o “di nessuno”), suddivisione (che instaura un criterio di misurazione e ripartizione interna dello spazio quale base per tutti gli altri sistemi di valori abbracciati dalla comunità) e sfruttamento (l’agire economico che vi si dispiega e che lo modella e pertinentizza diversamente).

La categoria di nomos è utile ad avvicinare la relazione fra spazio e soggettività in termini politicamente e storicamente situati, a partire dagli ordini sociali, i sistemi di sapere, i valori e i rapporti di forza stratificati nello spazio vissuto e agito, che costituiscono la condizione di possibilità di un certo modo di pensare, abitare e agire il suolo terrestre.

Da questo punto di vista, l’intreccio di rapporti geografici, politico-giuridici ed economico-sociali che definiscono la Monti di Mola di fine anni Cinquanta costituisce un’eccedenza rispetto allo Stato territoriale moderno come a una qualunque istanza di governo sovraindividuale.

Posta all’estremo limite del già marginale Comune di Arzachena, separata dalle terre limitrofe da un’estensione rocciosa e accidentata che obbligava abitanti e visitatori a spostarsi via mare, definita da una peculiare micro-società contadino-pastorale, all’indomani della II guerra mondiale Monti di Mola costituisce effettivamente una sacca pressoché impermeabile alla ricostruzione politica e sociale avviata dalla giovanissima repubblica italiana, così come all’azione dei governi precedenti: il ventennio fascista, la dominazione sabauda, quelle iberico-aragonese, pisana e prima ancora imperiale romana sembrano non aver lasciato tracce dirette.

Mancano strade, infrastrutture, servizi: il medico e il prete arrivano da Arzachena e Palau quando chiamati, la maestra vive ospite a casa della famiglia e tiene lezione nella cappella costruita dalla stessa, il mercato del bestiame si tiene due volte l’anno ad Arzachena: il territorio è gestito prevalentemente dalle stesse famiglie, in accordo per il pascolo comune dei già sterili terreni e ognuna auto-sufficiente rispetto ai beni di prima necessità.

Le formazioni rocciose aprono antri, grotte e incavi che incassano spazi dentro altri spazi, rifugio per gli animali e i fuggiaschi sardi e corsi, i muretti a secco seguono le direzioni e pendenze irregolari delle rocce e della macchia, accompagnano la morfologia irregolare del terreno più che esplicitare chiaramente i confini proprietari o quanto meno suddividere nitidamente uno spazio dall’altro.

Di un tale vuoto della mappa e della legge dello Stato italiano e della Regione Sardegna, la Costa Smeralda occupa il rovescio, ciò che esse non contemplano: al governo della comunità territoriale affianca il governo di un patrimonio; all’azione di tutela e guida della vita associata affianca l’azione di tutela e guida della proprietà immobiliare.

Monti di Mola e la Costa Smeralda si situano ognuna in una zona del valore estranea a quella dell’altro, in quel luogo del discorso che inibisce il conflitto diretto e conserva al contempo la violenza della contraddizione fra due loci che coesistono ma non possono cogliersi e pensarsi insieme, di cui ognuno esclude la pertinenza dell’altro, e che non di meno si contendono lo stesso topos, la stessa porzione di superficie terrestre, lo stesso spazio giuridico-sociale, lo stesso campo economico.

La violenza esercitata dal Consorzio Costa Smeralda verso il territorio di Monti di Mola è intrinseca al suo stesso dispositivo, a questa stessa dialettica fra opposte forze di trasformazione e stabilizzazione che sembrano ridisegnare in miniatura il conflitto fra sistemi di valori e forme di vita alla base, secondo Louis Marin, della narrazione utopica. La costituzione del Consorzio innesca infatti una serie di trasformazioni che, a scala locale, possono a buon titolo considerarsi come il passaggio da una forma di vita rurale a una forma di vita capitalista.

A un’economia incentrata sulla produzione diretta di beni sostituisce un’economia incentrata sulla vendita di servizi; alla pastorizia il lavoro subalterno o imprenditoriale nel terziario; all’isolamento e all’esigua densità di popolazione, cui corrisponde un’esistenza stanziale, limitata, per la maggior parte del tempo, ai confini dello stazzu, sostituisce un territorio posto in comunicazione con gli altri centri insulari, con il continente italiano e destinazioni internazionali, cui corrispondono flussi di persone, beni, capitali, e un’ingente intensificazione demografica, sia permanente, nutrita dalle nuove professionalità imposte dalla sua stessa natura di servizio, sia limitata al periodo estivo.

Laddove la fondazione della Costa Smeralda scardina irreversibilmente l’ordine agro-pastorale che vige nella Monti di Mola della fine degli anni Cinquanta e intensifica l’esigenza di un’azione politica e amministrativa sovra-individuale che medi fra interesse di ognuno e interesse di tutti, il Consorzio risponde con una formula socio-economica che rende l’emergere di un spazio propriamente pubblico, ovvero collettivo e condiviso, e di un’azione propriamente politica, ovvero negoziale e dinamica, semplicemente “non pertinenti”.

Di fatto, non può certo imputarsi al Consorzio un impoverimento della popolazione autoctona. L’operazione ha indubbiamente apportato ricchezza e benessere ai proprietari originari dei terreni, e creato consistenti opportunità lavorative per l’intero comprensorio. Le raffinate e dettagliate esigenze dei nuovi signori impongono a catena una serie di maestranze e professionalità e innescano un circuito virtuoso che coinvolge l’intera area dei comuni di Olbia e Arzachena.

Si tratta a tutti gli effetti dell’istituzione ex-novo di un micro-cosmo che si estende capillarmente a tutta la Gallura, comportando l’ideazione e realizzazione di due strade provinciali, interamente finanziate dal Consorzio, fabbriche e società di servizi con sede ad Olbia, la realizzazione dell’aeroporto olbiese e la fondazione della compagnia aerea Alisarda (oggi Meridiana), che provocano un innegabile salto in avanti dell’economia locale e della qualità della vita dei suoi abitanti.

Ugualmente, non può ascriversi all’ente un dissennato sfruttamento del territorio o una qualche forma di deturpazione ambientale: in un momento di vuoto legislativo rispetto all’edilizia costiera (la prima legge nazionale in materia sarà varata nel 1975), l’Associazione impone ai consorziati e negozia con il Comune stretti vincoli urbanistici orientati al rispetto dell’ambiente e del territorio, proteggendo le aree di sua proprietà dagli scempi edilizi che vedranno la luce a partire da qualche anno dopo in numerosi tratti del litorale gallurese.

A differenza dello sviluppo industriale che nello stesso momento inizia a interessare numerose località sarde, sotto l’egida di una produzione massiccia quanto invasiva e sregolata cui effetti disastrosi costituiscono ancora una fra le maggiori criticità della Sardegna, l’economia turistica d’élite promossa dal Consorzio ha creato lavoro senza trasfigurare il territorio e prodotto guadagno per (quasi) tutti senza (troppe) perdite per l’ambiente.

Il conflitto insanabile aperto dalla fondazione del luogo/brand riguarda meno il rapporto diretto fra individui, fra categorie sociali, fra cittadini e istituzioni, che quello fra piani di discorso gli uni agli altri irriducibili, fra un’identità visiva che assoggetta il territorio vissuto e abitato allo statuto di scenario, e una scenografia costantemente minacciata dall’eterogeneità e dinamicità dello spazio storico, fra le forze di conservazione espresse dalla sua “regola aurea” e le forze di trasformazione liberate dalla sua stessa costituzione.

U-topia: né qui (l’isola sarda), né altrove (un qualunque altro luogo del mondo), né vera (il “mondo della vita”) né falsa (il mondo ludico della vacanza), la Costa Smeralda si inscrive nello scarto fra il luogo e la scena, fra un territorio informato della cultura e la memoria di coloro che lo abitano e uno spettacolo colto da un osservatore fuori-campo, per il quale cose, persone e azioni sono indifferentemente emergenze di una scena edenica da cui sono espunti l’Altro e la Storia, il conflitto e la gerarchia, il bisogno e la mancanza, il lavoro e una qualunque azione trasformatrice.

Capitalista: “mito realizzato” che rovescia i determinismi, sublima i conflitti e riflette i valori capitalisti all’interno di un’eterotopia di “compensazione”, un “contro-luogo” in cui ognuno è unico al mondo, in cui il contante si converte in pietra preziosa, in cui l’agire economico produce guadagno senza deteriore le risorse né intaccare l’ordine sociale.

L’occupante dal potere economico sconfinato, colui per il quale i soldi non hanno il valore che hanno in un’economia chiusa, ma costituiscono una fonte illimitata e inesauribile, non è solo l’immagine del nobile scevro da preoccupazioni pratiche, ma anche di una fonte altrettanto “sproporzionata” di guadagno, in quanto è colui per il quale il valore di un bene non si misura in un equivalente monetario, ma esclusivamente in termini soggettivi, rispetto al bisogno o desiderio a cui rispondono.

Come trovarsi nella Costa Smeralda mitica significa essere il solo uomo sulla terra, trovarsi nella Costa Smeralda storica significa corrispondere cifre tarate sulla rarità ed esclusività della posizione in cui vengono erogati, sia perché il destinatario ideale non valuta il servizio in base al costo ma agli effetti euforici essi produrranno su di lui, sia perché vengono dispensati in assenza pressoché totale di concorrenza.

Individualismo, interesse privato, capacità economica – i perni del potere capitalista sono negati e implicati dalla messa in scena di una posizione fuori-coordinata, un patrimonio fuori-misura, un guadagno fuori-mercato: mito estetico, giuridico ed economico convergono verso un individuo trascendente e super-partes come la divinità e taumaturgico come lo sono gli idoli, portatore di uno sguardo gratuito e disinteressato, garante di un valore che il capitale non può conoscere, stabile e assoluto, misurato come le gemme in base a parametri intrinseci e indifferenti ai flussi di mercato e alla variabilità ambientale, esso stesso fonte di ricchezza extra-sistemica, esterna al sistema di equivalenze che regola gli scambi commerciali in un universo chiuso.

La violenza della Costa Smeralda è la stessa di ogni utopia, ovvero quella di descrivere un mondo che non può essere cambiato perché non esiste, perché risponde alla logica del mito e alla sintassi del quadro, benché la storia e il luogo ne minino costantemente la tenuta. A partire dal 1961, e almeno fino al 1994, anno in cui Karim Aga Khan IV cede a terzi la società alberghiera spezzando la chiusura dell’universo descritto dal Consorzio, l’intero lavoro semiotico del dispositivo smeraldino è volto a sottrarre un pezzo di suolo terrestre alla storia e assegnarlo al sogno di un altro, al soggetto senza difetti e senza mancanze che è l’unico che lo spazio contempla, l’unico in diritto di prendervi posto, l’unico a cui l’architettura dà “del tu”.

5. In assenza di luogo: il logo, portale di Utopia

Il logo e il nome della Costa Smeralda, e la scelta di inciderli sui massi granitici che demarcano il limite sud-orientale e nord-occidentale del litorale di pertinenza del Consorzio (Figg. 4-5), racchiudono una serie di incongruenze che denunciano le aporie e i relativi moti neutralizzanti della neo-utopia.

Fig. 4 Masso apposto sul limite Sud-Orientale. [si veda sotto]

Fig. 5 Masso apposto sul limite Nord-Occidentale. [si veda sotto]

La prima concerne l’ambivalenza, introdotta in precedenza, fra proprietà e località, opera intellettuale e luogo del mondo. Come attesta la minacciosa avvertenza che accompagna la presentazione del marchio sul sito dell’ente consortile, Costa Smeralda è in primo luogo opera d’ingegno protetta dal diritto brevettuale:

«Costa Smeralda® è un marchio di cui il Consorzio è unico proprietario. Il marchio rappresenta uno dei beni capitali del Consorzio e come tale viene difeso e tutelato nell’interesse di tutti i Consorziati. Il marchio e il logo Costa Smeralda sono stati registrati e depositati e quindi sottoposti alle regole di uso e di tutela. Il Consorzio si fa carico di combatterne l’uso abusivo con tutti i mezzi legali a sua disposizione. Altre località costiere del Nord Sardegna utilizzano spesso il nome “Costa Smeralda” per pubblicizzare le loro attività turistiche ed immobiliari, non avendo diritto a farlo; il Consorzio persegue con ogni mezzo tale illecita attività a tutela del diritto dei Consorziati e dei loro immobili»[27].

Il territorio segnalato dal masso designa dunque una proprietà intellettuale, l’artefatto estetico oggetto di scambio commerciale, e una proprietà fisica, l’insieme di terreni, edifici e strutture posseduti e gestiti dal Consorzio.

Allo stesso tempo, la sua funzione di demarcazione fra due porzioni di territorio, e il nome che essa assegna, in virtù della posizione dei massi, a tutto ciò che si estende da quel punto in poi, instaura l’effetto di località, di porzione di suolo terrestre in cui ricadono indifferentemente proprietà pubblica e privata, spazi di tutti e spazi di ognuno, e di una corrispondente comunità territoriale, un insieme di abitanti dotati di una qualche omogeneità e riconoscibilità rispetto agli abitanti di tutti gli altri luoghi.

Primo tratto del dispositivo u-topico: reversibilità ricorsiva fra punti di vista e ordini di realtà fra loro incongruenti. Fra spazio contenuto, gli immobili del Consorzio, e spazio contenente, il dominio territoriale e giuridico-politico che lo precede e contiene; fra un bene di consumo da acquistare e il luogo in cui, a prescindere dalla finalità dell’azione, ci si trova; fra un mondo allestito quale esperienza estesico-percettiva a beneficio dell’ospite e il mondo vissuto e abitato in cui quest’ultimo si colloca.

La seconda riguarda l’isotopia minerale già introdotta dal racconto operato dal video promozionale, in cui alle vili pietre da macina di Monti di Mola subentra il …

NOTE

[16] Il video è consultabile sul sito dell’ente all’indirizzo http://www.consorziocostasmeralda.com.

[17] «Gli uomini erano tutti contadini, perché lavoravano la terra».

[18] «Pugni sul tavolo, calci alle sedie, chi diceva cento, chi diceva cinquecento».

[19] «E ha sollevato molti dal bisogno».

[20] «Penso sia stato un colpo di fortuna. La prima volta che sono venuto non sapevo che questo posto fosse così bello».

[21] «La prima volta che venni qui pensai questo è il paradiso sulla terra, e venni senza sapere nulla sul posto, ma la bellezza del paesaggio, la purezza dell’acqua, l’atmosfera del luogo, pensai “questa diventerà la mia seconda casa durante l’estate”».

[22] A. J. Greimas, De l’imperfection, Fanlac, Parigi 1987, tr. it. Dell’imperfezione, Sellerio, Palermo 2004, pp. 30-31.

[23] Ci riferiamo in particolare a La distinction, Minuit, Parigi 1979.

[24] Statuto del Consorzio Costa Smeralda, Art. 1, consultabile sul sito www.costasmeralda.com.

[25] Statuto del Consorzio Costa Smeralda, Art. 9, consultabile sul sito www.costasmeralda.com.

[26] Carl Schmitt, LandundMeer. Einsweltgeschichtliche Betrachtung, 1942, 1954, tr. it. Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Adelphi, Milano 2002; Der Nomos der Erde im Võ lkerrecht des «Jus Publicum Europaeum», Green Verlag, Berlino 1950; tr. it. Il nomos della Terra nel diritto internazionale dello «Jus Publicum Europaeum», Adelphi, Milano 1991. Un’efficace lettura della filosofia spaziale di Schmitt è operata da Michele Feliziani, “La filosofia spaziale del pensiero politico di Carl Schmitt“, Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, XL-XLI 2007-2008, Macerata 2011.

Come osservano diversi commentatori contemporanei e lo stesso Feliziani, le azioni di prendere, ripartire e sfruttare il suolo terrestre non devono intendersi in termini concreti e cronologici, ma come funzioni astratte e strettamente correlate, quali condizioni necessarie alla statuizione ed edificazione di una qualunque forma di vita associata.

[27] Cfr. www.costasmeralda.com, voce “marchio”.

Logo Costa Smeralda
masso - insegna Costa Smeralda NO.
masso - insegna Costa Smeralda SO.

INDICE COMPLETO DEL LIBRO

Presentazione … IX
Introduzione … 1

CAPITOLO 1. Topologie del potere: i posti del corpo e le forze del discorso … 9
1. On n’y voit rien. Teoria dell’arte e ricerca etnosemiotica 9
2. L’altrove di questo mondo: utopie/eterotopie 13
3. U-topos: aporia del limite e violenza del neutro 18
4. Osservatori testimoni e celebranti volontari: il totalitarismo dei miti realizzati … 28
5. La mappa e il diario: il modello d’analisi 32

CAPITOLO 2.
Sulla migliore forma di repubblica e su una nuova isola. Nascita della Costa Smeralda 9
1. L’inferno è il paradiso: di uno «scarto della storia» … 39
2. Di una nuova isola: dal luogo preistorico allo scenario edenico 45
3. Della migliore forma di repubblica: il Consorzio Costa Smeralda 49
4. Il mondo terzo: sogno del Capitale e delitto perfetto del capitalismo 55
5. In assenza di luogo: il logo, portale di Utopia  62

CAPITOLO 3.
Il paradiso terraqueo. Arcadia e Argo, o l’abitare fuori dal nomos  67
1. Ai bordi del nomos: la villa e la nave  67
2. Vuoti di potere e buchi della mappa: il globo e il piano 71

3. Monti/Mare: primo gioco di spazi
 79
3.1. Et in Arcadia Ego: l’abitare riflessivo 85
3.2. Mobilis in immobile, immobilis in mobile: ogni uomo è due Inghilterra  90
3.3. Perimetro/profilo: Stella Maris, Vergine bifocale ……. 96

4. Dentro/fuori: secondo gioco di spazi
 105
4.1. Fra Inghilterra e Utopia: il limite  106
4.2. Abramo, Robinson, Sir Francis Drake, la Corona: uomini-pesce e sovrani borderline 113

5. Io/Egli: figure di luogo e lessie dello spazio 119
6. The way to heaven out of all places is of length and distance: dal luogo degli uomini alla posizione degli dei … 128

I NATIVI DELLA COSTA SMERALDA

Sogni nobiliari e fantasmi borghesi in un’utopia degenerata contemporanea

di MARIA CRISTINA ADDIS

2017

TRATTO DA

Comunicazione e potere
Le strategie retoriche e mediatiche per il controllo del consenso

a cura di
Alessandro Prato

Aracne editrice 2017

NOTA. Tale ricerca è confluita in L’isola che non c’è. Sulla Costa Smeralda, o di un’utopia capitalista, Quaderni di etnosemiotica, Esculapio, Bologna 2017

1. Il potere del neutro: il discorso utopico

2. Dal luogo mondano alla posizione edenica: nascita della Costa Smeralda

3. Terra/mare: l’altra isola 

4. Il centro vuoto: anatomia del nobile mondiale

5. Degli idoli e degli dei: regge invisibili e sobborghi borghesi

1. Il potere del neutro: il discorso utopico

In questo intervento presenterò parte di una ricerca più ampia sulla Costa Smeralda come figura e dispositivo utopici[1]. Il lavoro si inscrive a sua volta in un’interrogazione più generale sul potere condotta sul terreno della spazialità, e in particolare a partire da dispositivi architettonico-urbanistici che sembrano funzionare a un tempo come figura e diagramma di un’ideologia, che proprio il loro carattere chiuso, auto-referenziale e altamente codificato rende particolarmente nitida e leggibile: le eterotopie, «specie di utopie effettivamente realizzate nelle quali tutti gli altri luoghi reali che si trovano all’interno della cultura vengono al contempo rappresentati, contestati e sovvertiti» (Foucault 2001: 20).

L’analisi che riassumiamo in questa sede guarda in particolare alle ricerche di Louis Marin, che individua nel celebre romanzo di Thomas More la matrice e l’emblema di un genere di discorso fondato sull’ambiguità fra realtà e finzione, fra la spinta di una contraddizione storica e la messa in scena della sua soluzione mitica[2].

Nella lettura operata da Marin, il discorso utopico si installa «nel luogo vuoto della risoluzione storica di una contraddizione» e in questo senso è espressione del neutro, inteso in termini strutturali come valore esito di una doppia contraddizione:

Né sì né no, né vero né falso, né l’uno né l’altro: il neutro. […] neutro come scarto dei contraddittori, la contraddizione stessa mantenuta fra vero e falso, che apre nel discorso uno spazio che il discorso non può accogliere; terzo termine, ma supplementare, e non sintetico, con qualche parentela con la finzione e l’interrogazione, ma non con l’immaginario, il dubbio o il possibile (Marin 1973, p. 20, tr. nostra, corsivi nostri).

Né qui né altrove, né svelamento dell’ideologia dominante (la critica alla società inglese di inizio XVI secolo che occupa la prima parte del romanzo) né dissimulazione di una nuova ideologia sotto le spoglie del mito (l’allestimento di un modello architettonico e politico alternativo che occupa la seconda), l’utopia conserva entrambi i poli in un’ambivalenza che non conosce sintesi. Louis Marin insiste esplicitamente sul carattere immaginario e sulla natura di immagine di Utopia, quale messa in scena che anticipa in modo non argomentativo una sintesi il cui statuto è nondimeno impossibilitato a stabilizzarsi in un mito vero e proprio a causa della posizione di un visitatore/osservatore preso nella dinamica incessante fra punti di vista incongruenti.

Tale funzione viene a mancare in quelle che lo stesso Marin definisce utopie degenerate, ovvero «ideologie realizzate sotto forma di mito», che cristallizzano la tensione critica dell’u–topos nella messa in scena reale di un’ideologia mitizzata. Disneyland, a questo proposito, diviene esempio paradigmatico di “mito realizzato”: a differenza di More-Itlodeo, il visitatore del celebre parco californiano è sulla scena del quadro, «attore cerimoniale del racconto mitico delle origini antagoniste della società»: laddove le incongruenze scopiche e veridittive disseminate lungo il romanzo di More denunciano la finzione e chiamano a un lavoro critico di comparazione, Disneyland non prevede uno sguardo da fuori, e realtà e finzione conoscono una cresi che non contempla ulteriori movimenti.

A partire dal modello analitico profilato dalle ricerche di Louis Marin, tenteremo di leggere la formazione ludico-commerciale Costa Smeralda nei termini a un tempo di immagine e dispositivo di potere che dell’utopia conserva la tensione neutralizzante e la logica del sottinteso. Nelle ricerche sul neutro che introducono Utopiques e ulteriormente sviluppate in Critique du discours (1975), Louis Marin apporta l’esempio del sottointeso per spiegare la violenza del neutro: qualcosa che non ha ancora del tutto spazio nel discorso, non abbastanza da essere giudicato, valutato e fatto oggetto di replica, ma a sufficienza per segnalare una posizione ancora impronunciabile, “scarto conservato” fra affermazione e negazione, fra vero e falso, e in quanto tale posizione di forza assoluta, che non contempla opposizione possibile. Similmente, l’efficacia simbolica della Costa Smeralda si fonda sull’ambivalenza, istituita e conservata, fra un’area geografica e un marchio commerciale, una porzione di superficie terrestre e un bene di lusso, un punto sulla mappa e il valore aggiunto di un prodotto, ed è in tale interstizio che ritaglia per la sua facoltosa e ristretta cerchia di destinatari una posizione letteralmente esclusiva ed escludente.

2. Dal luogo mondano alla posizione edenica: nascita della Costa Smeralda

Nel 2012, in occasione dei cinquant’anni dalla nascita della Costa Smeralda, il Consorzio omonimo produce un breve video promozionale, Costa Smeralda, la storia. Una voce fuori campo commenta una serie di foto d’archivio che ritraggono le terre di Monti di Mola (Comune di Arzachena), alternate da brevi interviste ad alcuni testimoni scelti fra i due ordini di soggetti protagonisti della storia, “nativi” e “forestieri”[3].

[Voce fuori campo]: La Costa Smeralda era una terra di poche famiglie povere e orgogliose. Quella terra si chiamava Monti di Mola, che in italiano suonerebbe più o meno così: “Pietre da macina”. […] Solo le capre si trovavano a loro agio tra la macchia, gli arbusti e le rocce aguzze di Monti di Mola. Quasi nessuno andava a vedere quella terra inospitale, dove solo pochi stazzi resistevano all’assalto della malaria, e per sopravvivere si dovevano lavorare i campi tutto il giorno, estate o inverno che fosse.

[autoctona anziana]: «L’omini erani tutti contadini tandu, palchì dìani trabaddà la tarra»[4].

[Voce fuori campo]: Ma la storia avrebbe compiuto uno scarto improvviso alla fine degli anni ‘50, complice la visita in Gallura di Mr John Duncan Miller, funzionario della banca mondiale. Tra una visita e l’altra capitò nello scenario incantato di Cala di Volpe. Ne fu folgorato. Da business-man con il fiuto per gli affari, Miller iniziò indagini personali sul valore di quelle proprietà. […] Miller si affrettò ad illustrare le meraviglie di questa terra agli amici della sua cerchia, tra cui l’industriale Patrick Guinness, lo scrittore tedesco René Pobienski, e lo stesso Karim Aga Khan. Miller tornò in seguito per acquistare i terreni compresi nella fascia litoranea compresa fra Capriccioli e Romazzino. […] Per mettere d’accordo acquirenti e venditori spesso le trattative andavano avanti per le lunghe.

[autoctono 1]: «pugni innantu a la banca, calci a li catrei, ca dicìa centi, a ca dicìa cincucentu»[5].

[sindaco di Arzachena]: «in quel momento i terreni erano ben pagati. Adesso fa ridere quando dicono “e quelli hanno venduto per venti milioni”».

[autoctono anziano]: «e ha cacciatu lu bisognu a umbè»[6].

Il forestiero sopraggiunto per caso nel litorale gallurese gode di tutte le qualità di cui gli autoctoni sono privi: alla povertà e all’orgoglio dei primi oppone l’invidiabile ruolo di funzionario della banca mondiale e il raziocinio del business man, e soprattutto una posizione da fuori — topologica, in quanto viene dall’esterno, ed economico-sociale, in quanto emancipato da preoccupazioni meramente pratiche — che gli consente di cogliere il vero valore di una terra vissuta fino a quel momento come infernale, un valore precluso ai contadini in lotta per la vita: la bellezza.

Si tratta a tutti gli effetti della scoperta primigenia di un luogo intatto allo sguardo, sui cui nessun occhio in grado di guardare si è mai posato. La «terra ostile e inospitale» è così liberata da coloro che come tale la esperiscono, a loro volta sollevati dall’indigenza e dal malessere, e diviene oggetto, sul secondo versante, di una trasformazione conoscitiva che converte la meraviglia sconosciuta in un «luogo di fama internazionale»:

[Giselle Podbielski]: «era bello, bello. Io mi ricordo di quando siamo arrivati la prima volta a Cala di Volpe. Era un sogno. Ero stravolta. Tutto così bello, sembrava non vera, capisci, una cosa incredibile». […]

[Voce fuori campo]: Monti di Mola si apprestava a diventare luogo di fama internazionale grazie soprattutto ai racconti estasiati sulla sua bellezza che i soci fondatori del consorzio trasmettevano a finanzieri industriali, divi del cinema e sportivi di fama mondiale. Ad aprire la strada fu il ministro del petrolio saudita Ammed Yamani, in quegli anni il più stretto consigliere di re Faysal e specie durante la crisi energetica mondiale egli stesso tra gli uomini più potenti del pianeta.

[Ammed Yamani]:  «What I think is a sign of luck. The first time I came I didn’t know that this place is so beautiful»[7].

[Voce fuori campo]: Quasi trent’anni dopo, Yamani è rimasto uno degli ospiti d’onore della Costa, dove trascorre buona parte dell’estate godendosi la sua villa di Romazzino.

[Ammed Yamani]: « Well, the first time I came here I thought this is paradise on earth. I came without knowing anything about the place, but the beauty of the place, the water, how clean it is, the atmosphere of the place, I thought this is the place which will be my second home during the summer»[8].

[Voce fuori campo]: Questa è la storia della Costa Smeralda.

Significativamente, nel documentario i “signori” non parlano mai di soldi: è la voce narrante a dirci del fiuto per gli affari e della posizione economico-sociale del funzionario britannico e degli altri forestieri, è il sindaco di Arzachena ad avvallare la bontà dell’affare, sono i nativi a raccontare delle movimentate trattative che rimano con l’orgoglio autoctono posto in incipit al racconto.

I prestigiosi forestieri, al contrario, si soffermano esclusivamente su un avvenimento tanto fortuito quanto perturbante, un incontro che li trasforma passionalmente e ne motiva le scelte e le azioni conseguenti. I primi sono mossi dall’utile, i secondi dal bello; i primi affranti da una terra sterile e inadatta alla sopravvivenza, bloccata ai preludi della storia, i secondi stravolti dalle qualità estesiche e sensibili di un mondo che si offre come spettacolo.

La lista di ospiti-tipo elencata dalla voce del narratore di La Costa Smeralda, la storia — «[…] finanzieri e industriali, divi del cinema e sportivi di fama mondiale» — descrive una «ristretta cerchia» che a differenza della comunità autoctona non è definita in base al luogo di provenienza, all’identità culturale o al ruolo sociale, ma composta di individui accomunati dal fatto di aver raggiunto il grado massimo di uno o più valori di una generica borghesia globale, di essere stati così operosi da arrivare in cima a una scala di potere, ricchezza, celebrità, abilità mondiali.

Tale successione di ruoli manifesta non solo un paradigma di vertici dell’operosità borghese, ma anche una scala gerarchica incentrata sul potere di superamento della dimensione agente del corpo e di trascendenza rispetto all’agire economico, o in altri termini sulla capacità di arricchirsi e decidere del valore di scambio fra un bene posseduto e un quantitativo finanziario “senza fare niente”. Signori sauditi divenuti eccezionalmente potenti in virtù del possesso e la vendita del petrolio, industriali talmente produttivi e abili nella vendita da costruire un impero e divenire puri strateghi, divi e sportivi talmente bravi da venire adorati come idoli.

Nel quadro della topologia sociale tracciata dalla Costa Smeralda, solo il primo, «uno degli uomini più potenti del Pianeta», può considerarsi a pieno titolo “nativo” della Costa, colui che vi prende davvero e appieno posto. A partire dagli studi seminali di Pierre Bourdieu (1979) sulla natura posizionale e differenziale dei meccanismi di distinzione sociale, possiamo ricondurre l’esteta trascendente al centro del mito smeraldino a una figura nobiliare, un individuo le cui azioni non mirano a soddisfare bisogni o a ottenere guadagni ma esprimono e reificano un’essenza costitutiva, che trova nell’apprezzamento della natura in quiete la sua forma più intensa ed elevata. L’attitudine speculativa mostrata dal politico saudita attesta al contempo elevatezza culturale (apprezzare la bellezza) e morale (apprezzare la quiete), dominio degli impulsi (fare contemplativo) e sospensione non solo del tempo del lavoro, ma anche di quello dell’intrattenimento e della socialità. La Costa Smeralda non è un posto per gente semplicemente ricca, potente e famosa, ma per persone talmente ricche, potenti e famose che ricchezza, potere e fama divengono nulli, senza valore: la logica distintiva espressa dal brand immobiliare seleziona un individuo definitivamente emancipato da finalità pratiche, letteralmente disinteressato perché in assenza di bisogni a cui supplire, che non mira ad ottenere alcunché, né beni né riconoscimento sociale, ma a sospendere tutto ciò assoggetta l’esistenza a determinazioni estrinseche.

3. Terra/mare: l’altra isola

Per quanto ognuno degli edifici o complessi di edifici che compongono la Costa Smeralda sia singolare e affidato all’estro autoriale di prestigiose firme dell’architettura europea, ognuno di essi si attiene a stretti vincoli sintattici e partecipa di una medesima organizzazione figurale pervasiva e precisa come una scenografia. La città-mondo camuffata nel paesaggio e dall’aspetto in apparente continuità con quello della Gallura agro-pastorale è di fatto ancora più estraniante e “finta” di Disneyland, perché la dimensione condivisa e pubblica dell’urbs, continuamente convocata dalla sua stessa natura di “località”, è altrettanto sistematicamente espunta da un’urbanizzazione che non contempla altro genere di rapporto fra soggetti e fra soggetto e spazio che quelli descritti dall’abitazione e imbarcazione privata.

Casa e barca non sono soluzioni-vacanza alternative, ma i poli strettamente correlati di un medesimo rituale abitativo che fa in toto economia della dimensione pubblica e condivisa dello spazio d’esistenza storica. Camoufiage, vista-mare e spiaggia privata pongono la villa in continuità con un mare che grazie alla costa estremamente frastagliata e alla morfologia instabile delle rocce granitiche disegna per ognuno una baia singolare e uno specchio d’acqua riparato. Ogni villa occupa il vertice di un triangolo i cui lati divergono all’infinito, all’origine di una fetta di spazio il cui unico limite è il confine mobile acqua/cielo.

Il passaggio da “questo mondo” a quello tracciato dal circuito villa-yacht si sviluppa secondo tre linee che assolvono alla funzione di neutralizzazione propria del limite.

Il cancello d’ingresso, limite lineare e discontinuo, marca la soglia d’arresto dei percorsi e della competenza cognitiva di coloro che si trovano all’esterno, e allo stesso tempo instaura tensione scopica verso un assente, incornicia a vuoto l’orizzonte o la vegetazione come una porta sull’invisibile (Figg. 1- 2 – 3).

Nonostante si trovi all’interno della proprietà, la fascia di terreno antistante la villa non è ancora del tutto “utopia”: quando ospita qualcosa, si tratta di spazi destinati alle mansioni pratiche di governo e gestione dei beni materiali — garage, cabina elettrica, dépendance dei domestici — che non interessano direttamente le pratiche e le condotte abitative dell’ospite, per il quale si tratta esclusivamente di uno spazio di sospensione dei valori e delle coordinate esterni e una direzione verso quelli descritti dall’interno della casa.

Il portone d’ingresso, infine, ulteriore frattura lineare e discontinua — posto spesso al di sotto di qualche gradino e nascosto alla vista dalle piante e dai volumi dell’edificio — introduce al primo e principale topos della villa, l’abitazione del proprietario, e conduce al suo ambiente principale, la sala, ampio soggiorno collegato da una o più porte finestre alla terrazza porticata che lo prolunga all’esterno.

Cancello, coltre di vegetazione, corpo dell’edificio costituiscono altrettante barriere alla visione e all’accesso diretto dell’estraneo, il quale ricompare sul versante opposto a statuto di comparsa: oltre il portone d’ingresso dell’abitazione, tutto ciò che è suscettibile di entrare nel campo di visione — barche, uccelli, natanti — afferisce indifferentemente all’altrove della veduta.

In continuità con il porticato della terrazza o posta al livello inferiore, la zona-piscina funziona come un mare “domestico”, offre alla visione l’elemento acqueo e lo circoscrive e incastona nello spazio della casa. Un sentiero più o meno lungo e articolato connette gli spazi domestici fra loro e attraversa un giardino che sfuma nella macchia e nelle rocce, per immettere nella piccola spiaggia in concessione esclusiva al proprietario (Figg. q – y). Una piccola sbarra in legno o un semplice arco ricoperto di rampicanti, posti in posizione speculare al cancello d’ingresso, manifestano un nuovo limite fra la proprietà privata e il demanio pubblico, marcando labilmente un “di qua” e un “di là” in perfetta continuità. Arbusti e formazioni rocciose riproducono una condizione di visibilità sospesa, impediscono di vedere dietro o davanti a sé finché una nuova frattura scopica apre a un mare ora in continuità con il qui del corpo. Nel caso delle ville private, la forma concava e l’ampiezza ridotta ne fanno un nuovo teatro sul mare e un nuovo spazio d’acqua della casa, una “terrazza naturale” in cui ci si dedica a prendere il sole, conversare, guardare il panorama, e una “piscina naturale” in cui immergersi e da cui tornare ad asciugarsi sotto il sole.

Lo “stare” in piscina e lo “stare” in spiaggia sono pratiche normalmente soggette a vincoli diversi: il primo dipende dal diritto di proprietà, il secondo dal fatto di esserci arrivati, di avere raggiunto uno spazio di nessuno; la prima è un bene posseduto, la seconda un luogo momentaneamente occupato. La concessione d’uso ne incrina la differenza, e il sistema di soglie della villa la nega del tutto, in quanto una labile fila di boe, distante dalla spiaggia dai cinque metri circa fino a qualche decina, sposta i confini della proprietà oltre la costa, ponendo definitivamente in continuità un frammento terrestre che è già cavità rivolta alle acque e un lembo del “suolo” marittimo.

Su uno dei due lati, un pontile stabilisce una nuova porta sul mare, che grazie a motoscafi di piccole e medie dimensioni conduce a fare il bagno in nuovi specchi d’acqua, ancora più incontaminati, sterili e alieni alla cultura di quello circoscritto dalle boe.

La villa e lo yacht ormeggiato al porto o attraccato in rada, che uno sciame di piccole imbarcazioni e velivoli connettono fra loro e con le altre postazioni della Costa, occupano i poli di un circuito chiuso suscettibile di non incrociare mai terra sarda e luogo pubblico. Fra le tante porte sul mare dei topoi smeraldini e le indefinite mete esotiche e deserte dei viaggi ricreativi, si delinea un letterale “contro-luogo” che non si sovrappone mai alla Sardegna né ad alcun altro territorio, e che consente idealmente all’ospite di arrivare, permanere e ripartire a latere e al di fuori di spazi comuni a soggetti diversi da quelli previsti dai suoi piani o programmi.

4. Il centro vuoto: anatomia del nobile mondiale

Come abbiamo visto, l’architettura privata si insinua nei vuoti lasciati da dislivelli ed escrescenze rocciose per sviluppare centinaia e a volte migliaia di metri quadri che si trovano “dentro”, e non “su” la superficie terrestre, inghiottiti dalla roccia e celati alla vista. La gerarchia denegata dal labirinto di sentieri che sboccano sull’invisibile è riaffermata dallo spazio del porto: i pontili dritti e paralleli che dipartono dalla banchina che costeggia la baia racchiusa dalla darsena si dispongono in ordine alfabetico, decrescente da terra verso mare (S – A) e proporzionale alla lunghezza e grandezza dello scafo individuato dall’incrocio fra la lettera assegnata al molo e la serie numerica progressiva che ne scandisce i posti-barca. Un vero e proprio diagramma che figura univocamente una scala progressiva di forza economica e prodezza tecnologica: a partire dal mero “piano” di gozzi e gommoni, che espongono il navigante al mare e alla vista, lo stesso diagramma del porto può essere letto, da terra verso mare, come progressiva acquisizione di verticalità, differenziazione di ambienti e chiusura ermetica rispetto allo sguardo di chi si trova sulla passerella, fino al Molo A che esibisce gli esemplari più notevoli di motoscafi, velieri e piccoli yacht. Questo stesso limite è disatteso dall’unica banchina del Porto Vecchio, che esibisce una fila unica di scafi indifferentemente “troppo grandi” per rientrare nelle griglie del Porto Nuovo.

La scala di potere tracciata dal porto non tradisce però alcun riferimento diretto al proprietario. Luogo labirintico e spazio diagrammatico espellono con ugual forza il “nativo” al di fuori dell’orizzonte e dello spazio d’azione di chi si trova al di qua dei suoi limiti. Come le mura e i cancelli incorniciano uno spazio a vuoto, innescando una tensione perenne verso una scena vuota e silente, la poppa esibisce la facciata-schermo di un palazzo altrettanto inaccessibile e dai meandri infigurabili. Il sentiero bordato di mura e cancelli e il molo fiancheggiato di scafi, che per l’ospite costituiscono il limite fra questo mondo e Utopia, per l’estraneo tracciano altrettante serie di posizioni inassegnabili, rifrante da una soglia che ostenta l’esistenza di uno spazio inaccessibile.

L’effetto neutralizzante è intensificato da un nome che conserva e rafforza l’ambiguità fra appellativo e toponimo, fra un “tu” e un egli”. I nomi Roche Fiorì, Alessandra,Rocky, Il Tetto, Azzurra, La Rocca, Asterix (ville), Lady Moura, Shergar, Eclipse, Limitless, Omar, Azzam, Dubai (barche) compongono una lista di diciture singolari rese ambigue dalla co-occorrenza di denominazioni eterogenee che impediscono di stabilizzare un’isotopia di persona o di animale, di luogo o di cosa. Il nome proprio di villa nutre un effetto di presenza che non arriva mai a specificarsi in una figura, il nome di barca esibisce una forza non riconducibile a un individuo. Bandiere e guidoni assegnano la barca-spazio a stati nazionali e autorità portuali — Gran Bretagna, delle isole Cayman o dei Caraibi — che quasi mai coincidono con l’appartenenza nazionale e residenza giuridica del proprietario, e ci dicono solo che lo “spazio territoriale” racchiuso dalla carena è altrettanto fuori-coordinata rispetto al nostro qui che a quello dell’istanza giuridica a cui afferisce.

Se da dentro, Utopia costruisce un soggetto illimitato, de-condizionato dalla cultura e dalla natura, da fuori essa racconta di quello stesso soggetto cancellandolo dalla scena e non smettendo mai di annunciarlo, in un profano processo di transustanziazione del Signore nel corpo di casa e il corpo di barca. Villa e yacht si comportano come fossero, e dicono di essere, qualcuno e di qualcuno, ma non chi e di chi, attestano autologicamente il darsi di una singolarità e la presenza e la forza di un soggetto che cancellano e non smettono di annunciare.

3. Degli idoli e degli dei: regge invisibili e sobborghi borghesi

Nella sua ricognizione dei modelli di descrizione geografica conosciuti dalla cultura occidentale, Franco Farinelli (2003: 33-35) descrive il labirinto come l’esito dello schiacciamento di una struttura verticale sull’asse orizzontale. Il collasso di ambienti collocati a piani e livelli diversi su una stessa superficie piana incassa gli uni negli altri spazi i cui punti appartengono contemporaneamente a organizzazioni e articolazioni diverse ma non più distinguibili né separabili. Come nell’immagine del palazzo crollato al livello del mare, la Costa Smeralda riproduce ricorsivamente una medesima struttura spaziale “bina”, la casa-barca: il “borgo” (gli insediamenti arroccati visibili dalla strada provinciale che attraversa la Costa) e i due porti, ognuno dei quattro alberghi e il proprio porticciolo d’attracco e l’apparato di pedane e moli galleggianti, la villa e il molo privato, lo yacht e i tender e le altre imbarcazioni minori che contiene e utilizza per brevi spostamenti e per raggiungere terra ripetono a scale diverse l’eremo e il pontile, il riparo arroccato e la porta sul mare (Figg. 6-8). Il loro rapporto è verticale e gerarchico, ognuno ripete una stessa organizzazione discorsiva e attanziale progressivamente deprivata di esclusività, un campo morfologicamente identico in cui il diritto di proprietà e il potere di appropriazione si riducono progressivamente, finché l’abitare diviene puro attraversare e l’interazione mero guardare.

Solo la villa, lo yacht da crociera e gli spazi e i mezzi di raccordo tra i due (molo, tender, elicotteri) descrivono un micro-cosmo che esclude in toto uno spazio condiviso e un soggetto estraneo. Gli hotel e i club sportivi costituiscono il piano intermedio, di accesso accuratamente selezionato ma già aperto all’altro, prevedono l’interazione con estranei e la condivisione di strutture e servizi comuni. È lo spazio sociale di Utopia, quello delle relazioni fra pari, in cui gli ospiti si ignorano o socializzano ma comunque si mostrano a vicenda. Il terzo e ultimo livello è costituito dalle strutture pubbliche della Costa Smeralda, ed è destinato alle funzioni più basse secondo la gerarchia valoriale smeraldina: ricovero dei mezzi, consumo di beni, scambio di denaro. Il centro amministrativo e commerciale della Costa Smeralda, Porto Cervo Centro, e i due porti, sede dell’autorità portuale e degli uffici connessi alla sua gestione occupano il piano-terra del palazzo e l’estrema periferia del luogo, accessibile a tutti ma che non contempla alcuna esclusività né proprietà.

Solo il primo genere di ospite ha libero accesso a tutti e tre i livelli, e se lo desidera può attraversarli senza incrociare mai lo stesso spazio di coloro che hanno accesso solo agli altri due. Il “nativo” smeraldino dispone di più ville e appartamenti, di più suite riservate in hotel, di più barche di cui almeno una con i tratti dello yacht da crociera, di più mezzi nautici e aeronautici, tender, jet ed elicotteri privati. Ubiquo e invisibile, nessuno sa mai quando arriva e quando riparte, dove risiede, se c’è anche lui o solo i suoi ospiti, vive la stagione senza limiti di tempo né di spazio ed è esso stesso irriducibile a un volto o un nome.

A partire da un tale vertice, discendono una serie di posizioni che a prescindere dalle loro relazioni relative sono indifferentemente in difetto rispetto a quella vacante: soprattutto a partire dagli anni Settanta, lo sviluppo edilizio, sempre all’interno degli stretti dettami del Consorzio, rende la Costa accessibile anche alla borghesia medio-alta, a famiglie in grado di acquistare un appartamento in condominio, o di affittare puntualmente una villa o una stanza in hotel per qualche settimana. La condivisione di spazi e strutture comuni, o il fatto di avere un tempo limitato in anticipo di permanenza, lo costringono nello spazio e nel tempo, offrono del mito fondativo una versione degenerata, in continuità con la vita di tutti i giorni e lo spazio del qui ordinario.

Parallelamente, la cartografia ed etnografia mitiche della Costa Smeralda, che i piani inferiori mostrano in versione progressivamente più “finta”, viene doppiata dalla ricerca di tutt’altro genere di amenità, di natura strettamente sociale: il “ricco”, il “potente” e il “famoso”.

Dalla pratica, consolidatasi fra numerosi villeggianti nei pressi della Costa, di “andare a guardare le vetrine di Porto Cervo”, alla proliferazione di paparazzi che la eleggono a “terreno di caccia”, il culto sociale scaturente dalla sua stessa natura di “ritrovo di star” offre spazio d’azione a un settore dell’economia turistica che la Costa Smeralda non ricopre e non contempla: l’intrattenimento notturno. A differenza di quanto ritenga la vulgata, i locali notturni sono esclusi dallo Statuto se non secondo eccezioni oggetto di minuzioso esame e nel rispetto di ristrette clausole a tutela della quiete dei consorziati. I luoghi della festa, ovvero dell’estesia culturale e collettiva, si situano da sempre ai suoi margini, nei “vuoti” lasciati dalle isole abitative e commerciali possedute e gestite dal Consorzio e a patto di non incrociare a nessun livello il “contro-luogo” disegnato da ognuno dei suoi piani.

In particolare, almeno a partire dagli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, la Costa Smeralda diviene terreno di self-branding da parte di celebrities che a partire e in virtù del proprio volto pubblico si cimentano nella ossimorica impresa dell’“intrattenimento d’élite”, saldando platealmente i poli che con tanto sforzo il congegno architettonico e giuridico-amministrativo del Consorzio lavora a divergere. Pubblico e privato, esperienza estetica e facoltà economica, corpi e beni si fondono in una recita di sé che lo sguardo del “celebrante” è costantemente invitato a valutare e giudicare. Quando, nel 1998, Flavio Briatore inaugura nei pressi di Porto Cervo il Billionaire, il valore numerico con cui viene battezzato il nuovo vip-club sembrerebbe sufficiente a dissolvere definitivamente la logica del sottinteso costitutiva del mito smeraldino nella fin troppo palese esplicitazione del fondamento economico dei “quarti di nobiltà” di cui godono i suoi “nativi”.

A ben guardare, però, il nuovo trand non solo non minaccia il valore primigenio del brand immobiliare ma ne rafforza la logica, acuendo la distanza fra “potenti” e “famosi”, ovvero fra il Sovrano che occupa i “piani alti” del labirinto, tanto più potente quanto più invisibile, e i parvenus che si agitano alle sue estreme periferie, coloro che devono mostrare e proferire, sedurre e spiegare, il cui valore sociale necessita di essere costantemente sanzionato dallo sguardo dell’altro.

Mentre i media si scatenano sistematicamente, ad ogni stagione, sul “privato del pubblico”, sull’intimità di personaggi politici, sportivi e televisivi che proprio sul terreno della sfera intima e privata della vacanza profilano la propria identità mediatica, la presa del loro sguardo decresce proporzionalmente all’aumentare del potere del suo oggetto, e l’attenzione si sposta progressivamente dagli individui ai loro beni, e in particolare a quello che più e meglio ne esprime la forza e nasconde il volto: lo yacht. Spesso lunghi oltre i cento metri, i mega-yacht privati espongono e impongono alla pubblica vista una mastodontica cittadella tecnica di cui non si sa e non si vede niente, che non dichiara altro che la presenza di un mondo infigurabile e inaccessibile le cui testimonianze sono rarissime, stringate e forbitamente istituzionali. Mentre il Billionaire si fonda sulla performance seduttiva di idoli mondani destinati ad essere presto rimpiazzati, sfidati, degradati o crudelmente dimenticati a favore di altri più prestanti, la Costa Smeralda continua a tratteggiare il ritratto impossibile di un “potente della Terra” la cui fama deriva dall’inenarrabilità della propria forza. Ritratto di qualcuno che può sottrarsi in toto al socium, alla presa individuante del nome e della figura: ovunque si diriga, lo sguardo del visitatore voyeur si rifrange su una parete invisibile in cui si addensa uno iato economico, tecnologico, giuridico e fisico che converte senza soluzione di continuità la soglia della visione nella cornice di un quadro.

Riferimenti bibliografici

ADDIS M.C. (2016), L’isola che non c’è. Sulla Costa Smeralda, o di un’utopia capitalista. Vol. 1, Quaderni di etnosemiotica, Esculapio, Bologna.

BANDINU B. (1996), Narciso in vacanza, AM&D, Cagliari.

BOURDIEU P. (1979), La distinction, Minuit, Parigi.

FARINELLI F. (2003), Geografia. Introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, Torino.

FOUCAULT M. (2001), Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, Mimesis, Milano.

MARIN L. (1973), Utopiques: jeux d’espaces, Minuit, Parigi.

———, Dégénerescence utopique: Disneyland (1973), in Marin 1973, trad. it. Disneyland. Degenerazione utopica, in M. Del Ninno (a cura di), Etnosemiotica, Meltemi, Roma, 2007.

——— (1975), Critique du discours, Minuit, Parigi.

……………………………………………………………..

[1] Sul rapporto fra mito e storia del turismo ideato e promosso dalla Costa Smeralda cfr. in particolare Bandinu 1ççz.

[2] Il video è consultabile sul sito dell’ente all’indirizzo  http: //www. consorziocostasmeralda.com.

[3] Il video è consultabile sul sito dell’ente all’indirizzo http: //www.consorziocostasmeralda.com

[4] «Gli uomini erano tutti contadini, perché lavoravano la terra».

[5] «Pugni sul tavolo, calci alle sedie, chi diceva cento, chi diceva cinquecento».

[6] «E ha sollevato molti dal bisogno».

[7] «Penso sia stato un colpo di fortuna. La prima volta che sono venuto non sapevo che questo posto fosse così bello».

[8] «La prima volta che venni qui pensai questo è il paradiso sulla terra, e venni senza sapere nulla sul posto, ma la bellezza del paesaggio, la purezza dell’acqua, l’atmosfera del luogo, pensai “questa diventerà la mia seconda casa durante l’estate”.

Condividi Articolo su: