Associazioni

di Silla Lissia

Dalla Presentazione di Guido Rombi

Il nono capitolo, ASSOCIAZIONI, ci riferisce l’inconsistenza della realtà associativa in Gallura a partire dalle prime associazioni civili (il Casino di lettura di matrice liberale, fondato nel 1846 e sciolto dopo che i capi, minacciati di morte, furono costretti alla fuga e all’esilio; la prima Società di mutuo soccorso tra operai, sorta a Tempio nel 1869 e scioltasi a causa di contrasti tra i suoi membri per motivi politici intorno al 1883[25] ), fino alle sei società di mutuo soccorso presenti nel 1903: 2 a Tempio (Società di mutuo soccorso e degli ex militari)[26], 1 a S. Teresa, 2 a La Maddalena (XX Settembre ed Elena di Montenegro) e 1 a Olbia (Fede e Lavoro)[27]. Tranne quella di La Maddalena, tutte conducevano però una vita stentata per la troppa eterogeneità politica e sociale dei membri, cosicché l’auspicio di Lissia era che il loro posto (così come quello dei Gremi, che definisce «pseudo associazioni»), fosse preso da quelle associazioni in cui il collante era dato dalla comunanza di interessi e dal principio della lotta di classe (in tal senso, intorno al 1903, segnalava una cooperativa di consumo fra gli operai dell’arsenale de La Maddalena, una cassa cooperativa rurale ed una società cooperativa di assicurazione sul bestiame fra i carrettieri a Tempio).

Quanto alle associazioni politiche socialiste esistenti in Gallura, Lissia menziona il Fascio operaio sorto a Tempio nel 1890, La Giovane Gallura nata ad Aggius nel 1893, la Sezione socialista di Tempio fondata sul finire del 1894[28] ma che ebbe vita breve. Povera di attività, costituita da alcuni elementi intellettuali, professionisti e studenti, era sorta due volte e due volte era morta «per anemia»: il socialismo, infatti, rappresentava — dice Lissia — ancora «una pianta esotica che mal si adattava al nostro clima»[29]. Il principale ostacolo alla sua diffusione in Gallura era la forte presenza nella popolazione dell’«anima proprietaria»[30] che faceva registrare, nel 1903, ben 10.500 proprietari fondiari (di cui molti assimilabili a dei «veri proletari»[31]) su 41.000 abitanti. E poiché non c’era da sperare che le cose potessero cambiare a breve, per Lissia occorreva puntare sulla diffusione del sistema cooperativistico, il quale avrebbe potuto rivelarsi «un ottimo tronco per l’innesto dell’idea socialista, perché rompendo l’isolamento e raccogliendo gli isolati in associazioni […], fondendo gli interessi isolati nella cooperazione, crea[va] al posto della vecchia e gretta coscienza individuale una coscienza sociale, che è[ra] la migliore preparazione alla coscienza socialista»[32].

Uscita da poco tempo dalle corporazioni di mestiere, che portavano una limitazione all’attività ed alla produttività dell’operaio, e dal quasi comunismo, che inceppava la produzione agricola, la Gallura vive oggi in pieno libero artigianato. La produzione non ha seguito il progresso dei tempi, non si è industrializzata ed è rimasta ancora semifeudale. È ancora una produzione patriarcale la nostra: ognuno produce per i bisogni domestici, concedendo solo il superfluo al commercio locale.

L’assenza quindi della vita moderna mantiene le abitudini e le istituzioni antiche e così quella sopravvivenza delle antiche corporazioni, che sono i gremi. Cessati ed aboliti tutti quei legami economici, che vincolavano la libertà del lavoratore, si è mantenuta, diremo così, la parte religiosa delle vecchie corporazioni. I gremi infatti raccolgono tutti gli addetti di un mestiere, all’unico scopo di celebrare la festa del santo patrono tradizionale della classe. Le antiche corporazioni avevano almeno una funzione economico-sociale, i gremi non ne hanno alcuna.

Essi non servono a cementare l’unione e l’accordo fra i vari membri del gremio, perché nessun vincolo di solidarietà e di mutualità lega i membri fra loro. I quali una volta all’anno, alla vigilia della festa patronale, si riuniscono per la nomina del cosiddetto capo-socio e poi non più. E queste pseudo-associazioni trastullano con l’orpello della divinità e con il rumore della festa la nostra popolazione lavoratrice, che si mantiene lontana dalle associazioni civili. Qualcuno di questi gremi, quello dei calzolai, ha qualche anno fa di svincolarsi dal pregiudizio religioso e di trasformarsi in associazione civile, ma il tentativo ha dovuto fallire contro l’ostinato rispetto della tradizione.

A mie notizie la prima associazione civile sorta in Gallura è stato il casino di lettura, fondato nel 1846 a Tempio. Ebbe regalata dal conte di S. Felice e da Salvatore Villamarina una discreta biblioteca ed aveva in lettura vari giornali italiani e francesi. Ma quella medesima classe dirigente, che aveva sempre ostacolato il sorgere delle scuole elementari, vide di malocchio la costituzione di questo centro di coltura nel quale si raccoglievano i liberali d’allora. Preti e feudatari uniti ai funzionari governativi, paventando la diffusione delle idee nuove di libertà, che irradiavano dal casino, ne statuirono la soppressione. E non ebbero scrupoli di scegliere l’assassinio come il mezzo più spiccio e più adatto allo scopo. Furono prezzolati dei sicari e fu organizzata una banda che avrebbe dovuto sopprimere in piazza i capi del gabinetto di lettura. Di questi, alcuni dovettero salvarsi con l’esilio volontario, e gli altri nell’ultima giornata del 1848 furono aggrediti sulla pubblica piazza della cattedrale e ricercati dal pugnale prezzolato del sicario. Dopo questi dolorosi avvenimenti, che sporcarono di sangue anche l’altare per istigazione stessa del vescovo, il gabinetto di lettura si sciolse ma risorse qualche anno più tardi per opera dei nemici della prima ora[1].

Attraverso molte peripezie finanziarie il gabinetto vive ancora oggi sotto il nome di circolo di lettura e di ricreazione. In esso trovano modo di ammazzare il tempo i signori del paese con il giuoco, la lettura e le ricreazioni.

Dopo l’unificazione del Regno d’Italia e sotto l’impulso delle idee di fratellanza e di uguaglianza bandite dai democratici, anche Tempio parve assumere una vernice di modernità, è nel 1869 vide sorgere nel suo seno la prima società di mutuo soccorso. Scopo di essa era la mutua assistenza e la propagazione dei sentimenti d’ordine, di libertà e di lavoro santificati dal santo principio dell’universale fratellanza (art. 1. dello statuto sociale). La mutua assistenza doveva esplicarsi nello istruire i soci e nel soccorrerli ammalati. Doveva essere una società operaia ma ne facevano parte anche non operai. Aveva l’apparenza di una società di mutuo-soccorso pura e semplice, ma la politica presiedette alla sua costituzione con la nomina di Giuseppe Garibaldi a presidente onorario. Tuttavia essa non riuscì a scuotere l’inerzia e l’indifferenza della popolazione tempiese, e nel 1877, dopo otto anni di esistenza, contava ancora 27 soci!

La politica travolse la società nelle sue spire. La società aderì al fascio delle società affratellate e prese l’abbonamento alla «Lega della Democrazia» di Alberto Mario, trasformandosi così apertamente in una vera società politica democratica. Ma la politica doveva essere l’ultima causa dello sfacelo. Non avendo fin dal principio apertamente manifestato il suo intento politico, la società riuscì formata di elementi diversi e contrari. Quindi la politica democratica seguita dai capi non corrispondeva alle vedute ed alla volontà dei singoli soci, i quali una prima volta protestarono negando l’adesione al comizio dei comizi, che si sarebbe dovuto tenere in Roma per il suffragio universale, ed una seconda volta rifiutando la nomina di Aurelio Saffi a presidente onorario della società. Pure la società continuò ancora per qualche tempo a seguire un indirizzo democratico e riuscì anzi nel 1883 ad organizzare una festa democratica, cui prese parte anche la democrazia sassarese, per inaugurare una lapide-ricordo a G. Mazzini ed una a Giuseppe Garibaldi. Furono questi gli ultimi sprazzi di luce della società moribonda. La parte moderata non tardò a sopraffare la democratica e la società si divise: i democratici uscirono e si raccolsero nel «Circolo operaio» che ebbe la vita di un giorno: ed i moderati rimasero nell’antica società, la quale ancor oggi vive una vita che è sinonimo di morte.

Questa la storia sommaria della prima società di mutuo-soccorso sorta nella Gallura, caduta vittima prima di tutto dell’apatia e della inerzia della popolazione e poi della eterogeneità dei suoi componenti e quindi della politica.

Attualmente in Gallura esistono sei società di mutuo-soccorso: la società di mutuo soccorso e quella degli ex militari a Tempio; la società di mutuo soccorso a S. Teresa, la società Fede e lavoro a Terranova, e le XX Settembre ed Elena di Montenegro all’isola della La Maddalena. Ne fanno parte cittadini di ogni colore e di ogni classe la mutua assistenza si esplica nel soccorso medico e pecuniario ai soci ammalati; ma la società di S. Teresa arrivava anche alla pensione ai soci inabili al lavoro. Non mancano naturalmente nello statuto altri scopi secondari, come l’istruzione etc. ma in fatto tutto si riduce alla fornitura a buon patto del medico.

Quasi tutte queste società sono al loro declino, e si mantengono su ancora per forza d’inerzia. Una lodevole eccezione bisogna fare per la XX Settembre di La Maddalena, che, sorta nel 1893 con soli 20 soci, oggi ne conta 376 ed ha un fondo di cassa di 24.317 lire, e per la sua organizzazione ha avuto varie medaglie in diverse esposizioni nazionali ed internazionali. Le peculiari condizioni di La Maddalena permettono ancora una vita operosa e florida a queste società di mutuo soccorso ermafroditi.

Le società di mutuo-soccorso sono società senza sesso e la politica ne è perciò bandita, siccome quella che porta la discordia negli animi e la dissoluzione della società. Questa anticipata difesa contro la politica rivela infatti il lato debole delle società di mutuo-soccorso; esse temono la politica non per sé stessa, ma perché una politica esse non possono averla omogenea, essendo costituite da elementi di vario colore, di cittadini delle varie classi, cioè di gente, i cui interessi non sono omogenei. In queste società dovrebbero fondersi tutte le differenze di classe e di partito, e invece nella vita contrastata di oggi, quando la politica per un verso o per l’altro vi entra, vi porta la dissoluzione. L’omogeneità dei soci è la prima condizione di vitalità per un’associazione anche mutualista, le società di mutuo soccorso che non hanno questa omogeneità sono destinate a scomparire più o meno presto od a trasformarsi. Nei luoghi infatti a civiltà avanzata, dove i contrasti di classe sono più sentiti, le società di mutuo-soccorso ermafroditi hanno dovuto soccombere per dar luogo ad altre società di mutuo-soccorso intonate al principio della resistenza e della lotta di classe. Ormai non è possibile ammettere che possano esistere delle società, nelle quali si fondino gli interessi del lavoratore con quelli del capitalista grande o piccolo, in cui proletari e borghesi possano trovare un terreno neutro di coesistenza politica.

Già nei congressi di Mantova (1885) e di Alessandria (1888) il partito operaio, che raccoglieva una parte delle società di mutuo soccorso italiane, aveva deliberato che le società fossero costituite di soli operai e fossero esclusi i soci onorari, patroni e bene-meriti, indirizzando così le associazioni all’emancipazione degli operai e alla lotta di classe. Poche società aderirono dapprima, ma a poco a poco il numero delle società aderenti alle nuove idee si allargò ed al congresso della Previdenza del 1900 a Roma ne aderirono 874 e si formò la Federazione delle Mutue, sulla base delle idee del congresso di Alessandria.

Il soccorso medico a buon mercato è troppo debole legame per tenere uniti tanti elementi contrastanti, per far tacere idee e sentimenti, che non siano quelli indefiniti di indifferenza e di inerzia sociale. Ed in Gallura queste società di mutuo-soccorso trovano ancora modo di vivacchiare alla meglio, perché vi manca la vita politica e non vi è sentita ancora la lotta delle classi. Quando la politica riscalderà l’animo della popolazione gallurese, e l’industria metterà in evidenza gli interessi antitetici delle classi, allora queste larve di società ermafroditi cederanno il posto ad altre associazioni politiche e di resistenza e per lo meno aderiranno alla Federazione delle Mutue.

Comincia ora a sorgere qualche associazione economica propriamente detta: una cooperativa di consumo già funziona da qualche anno fra gli operai dell’arsenale di La Maddalena; una cassa cooperativa rurale ed una società cooperativa di assicurazione sul bestiame fra i carrettieri sono da poco sorte a Tempio.

La cooperativa di assicurazione non ha ancora, mentre scrivo, cominciato le sue operazioni, mentre la cassa rurale è già in funzione da qualche mese.

A parte tutte le difficoltà di ordine tecnico e di ordine interno, la cassa rurale non può in questo momento dare tutti quei benefici, che potrebbe, alla piccola proprietà. I piccoli proprietari nella grande maggioranza sono dati da proprietari di vigne. Ora questi, dopo che la fillossera ha distrutto il loro vigneto, non hanno nel momento bisogno di un piccolo prestito, che dovrebbero restituire a fin d’anno, ma piuttosto d’un anticipo a lunga scadenza per poter ricostituire i loro vigneti ed attendere comodamente che questi diano frutto per estinguere il loro debito. Ma la cassa, specialmente ora che sorge, non può fare di queste operazioni a lunga scadenza, e però nessun giovamento può arrecare ai piccoli proprietari bisognosi di danaro. Ma essa, se sarà modificata nel suo statuto, è destinata a dare un grande aiuto alla piccola proprietà ed a salvarla dalle grinfie del fisco e dell’usura. Perciò non bisogna guardare ad essa con diffidenza e con incredulità, ma bisogna invece sorreggerla ed incoraggiarla in vista dei benefici che più tardi darà ai piccoli proprietari di Tempio. E sarebbe desiderabile che una cassa rurale si costituisse in ogni comune per sovvenire nei momenti difficili ai piccoli proprietari sia con aiuti pecuniari e sia con somministrazione di materie prime necessarie all’agricoltura.

Sono tuttavia queste piccole vittorie dello spirito moderno sull’indifferentismo e sull’apatia della nostra popolazione vittorie ottenute mercé lo sforzo delle autorità e la buona volontà e tenacia di alcuni individui. Per cui è possibile che rallentata o mancata quella forza individuale che serve ora di cemento a tenere uniti quei pochi, che più per deferenza all’autorità od all’individuo che per coscienza dei propri interessi si trovano in dette società, queste si sfascino per l’inerzia dei loro soci. Ma è da sperare che l’evidenza dei vantaggi susciti oltre che nei soci, anche in quelli che non lo sono, quella forza di unione e quel sentimento di socievolezza, che costituiscono la caratteristica della civiltà presente.

La Gallura non ha oggi alcuna associazione politica, ma ha avuto la Giovane Gallura di Aggius ed il Fascio Operaio e la Sezione Socialista di Tempio. Nel 1893, in contrapposto al Circolo Coghinas, dove si raccoglievano i maggiorenti del paese, sorse in Aggius la Giovane Gallura, che riuniva tutti i proletari ed i malcontenti del paese. Sorse con intenti amministrativi ed inalberò la bandiera della lotta di classe. Fu una lotta della classe povera contro la classe ricca, una ribellione del malcontento proletario, ma non fu una lotta di classe cosciente diretta all’innalzamento del proletariato. Questo malcontento riuscì ad organizzarsi in una forma solida di associazione proletaria e forse, meglio guidato e sorretto, avrebbe potuto metter capo alla costituzione di un partito vitale di classe. E come in un impeto di reazione conquistò il comune sgominando i signori, così la Giovane Gallura avrebbe potuto consolidare un’amministrazione popolare, che avrebbe costituito il nucleo cristallizzatore della massa proletaria di Aggius.

Sennonché l’ignoranza e la debolezza dei capi determinarono tale stato di cose che fu facile ai signori la rivincita. Ed oggi la Giovane Gallura è caduta nel discredito e nella dissoluzione per opera stessa di quelli che la guidavano. Essa è passata sulla popolazione lavoratrice di Aggius come una meteora luminosa, che ha per un momento abbarbagliato con una vividissima luce, lasciando poi negli animi lo stupore e lo spavento.

Né miglior sorte è toccata al Fascio operaio di Tempio. Sorto nel 1890 sotto l’influsso di una ventata di entusiasmo proletario, sotto l’influsso di uno scoppio di energia imitativa, richiamò intorno a sé un rilevante numero di operai. Assunse le parvenze di una società pura e semplice di mutuo-soccorso, ma nello intendimento dei fondatori doveva rappresentare l’unione di tutte le forze proletarie per combattere le lotte politiche ed economiche che interessano i lavoratori. Si interessò ben presto alla politica municipale e combatte e vinse una lotta amministrativa sul nome di falsi democratici, che più tardi si rivelarono in tutta la loro essenza di istrioni. Ma ai soci del fascio operaio mancava la coscienza di classe, quella coscienza che rinfranca e tiene saldi e compatti nella lotta i lavoratori, ed i giovani studenti, che si erano messi a capo del movimento, non ebbero il tempo di dargliela, ché la bufera reazionaria crispina del 1893 travolse l’associazione nello sgomento e nella paura.

Pure quel breve periodo di vita vissuta dal Fascio operaio è stato pieno d’insegnamenti per la classe lavoratrice tempiese. Esso ha dimostrato quanta forza ignorata esista nell’unione operaia, e quanto questa sia necessaria al raggiungimento dei fini immediati e lontani dalla causa proletaria. Finché gli operai stettero saldi ed uniti attorno al loro labaro, combatterono e vinsero; quando rimasero sciolti e disuniti, furono alla mercé dei politicanti, che gareggiarono nel lusingarne le vanità personali e nell’ingannarli. Ma alla classe lavoratrice di Tempio l’esperienza ha giovato poco: essa ha ancora gli occhi chiusi al vero è crede di difendere la propria causa, difendendo quella dei suoi padroni. Gli operai s’illudono ancora che, a migliorare la foro posizione, basti di cambiar padrone; e non s’accorgono che affidare la difesa della propria causa alla generosità dei signori, si dicano essi conservatori o democratici, è lo stesso che affidare la vita dell’agnello alla generosità del lupo.

La sezione socialista, povera di vita e di attività, attraverso molti disinganni e molte di uomini e di cose, due volte è sorta e due volte morta per anemia. Essa rappresentava una pianta esotica che mal si adattava al nostro clima, e che la illusione e la inesperienza giovanile volevano assolutamente acclimatare. Era costituita da alcuni elementi intellettuali, professionisti e studenti, e di pochi operai coscienti. Lottò per qualche tempo, ma dovette soccombere nella lotta inane contro l’ambiente, se non ostile, indifferente. L’ambiente infatti non è adatto allo sviluppo delle associazioni in genere, e meno ancora alle socialiste. La Gallura vive in pieno artigianato, le industrie mancano e la lotta di classe non è ancora avvertita dalla coscienza dei lavoratori.

Su una popolazione di 41000 abitanti abbiamo oltre 10500 proprietari fondiari. Ciò vuol dire che poche sono le famiglie proletarie, che poche famiglie non hanno l’anima proprietaria. Ed è ben quest’anima proprietaria che vieta al socialismo di attecchire e di prosperare; è quest’anima che vela agli occhi dei più l’esistenza di interessi contrari fra chi lavora e produce e chi non lavora e raccoglie i frutti del lavoro; è quest’anima che accomuna tutti, grandi e piccoli proprietari, nella difesa e nel rispetto della proprietà privata.

I piccoli proprietari della Gallura sono dei veri proletari, che hanno bisogno di chiedere al lavoro salariato un supplemento per poter tirare innanzi la vita, e tuttavia non sanno vedere né conoscere la loro posizione reale. Attribuiscono la colpa della loro difficile condizione alla tristizia dei tempi. alle disgraziate vicende atmosferiche, alla vendetta del cielo, alla incuria del governo, e non vedono altro. Essi non arrivano a concepire che causa della loro miseria possa essere quello stesso ordinamento sociale, per il quale sono orgogliosi di potersi dire proprietari; e nella loro costituzione psicologica trovano quella pregiudiziale che chiude il campo alla visione netta del vero problema. Andare a dire a questa gente, che causa del loro stato è l’ordinamento privato della proprietà, è lo stesso che dire ad un credente che Dio non esiste; e tanto peggio poi se le dite che bisognerebbe abolire la proprietà privata. Se parlate ad amici vostri, vi risponderanno, sorridendo di quel sorriso che agghiaccia e che rivela una convinzione immodificabile, che le vostre sono ubbie da ragazzi, che la proprietà privata è una istituzione coeva al mondo e che col mondo dovrà finire.

A loro poco importa di sapere che la proprietà del suolo non è stata sempre privata e che la società ha anzi esordito con la proprietà comune della terra; che la proprietà privata fu opera della violenza o dell’astuzia e che ad ogni modo ciò che fu opera dell’uomo può dall’uomo essere distrutta per il suo meglio. La variabilità della società umana non entra nello scarso corredo intellettuale di questa gente, la quale ignorantemente ed in buona fede crede proprio che la società umana sia stata sempre così e ora debba continuare ad essere sempre la stessa. Essa non sa che l’uomo una volta è stato schiavo (e lo è ancora in molti luoghi) di un altro uomo, che su di lui aveva il diritto di vita e di morte; che questo schiavo ha più tardi acquistato il diritto alla vita ed è diventato il servo della gleba, il quale era annesso alla terra, che lavorava, come un immobile qualunque e non poteva libera-mente trasportarsi da un luogo all’altro, e che con la terra passava da un proprietario all’altro come un bove qualunque; che il servo della gleba ha acquistato oggi la sua libertà ed è diventato il libero salariato, padrone di lavorare quando ne ha voglia e sempre di morire di fame.

 La condizione sociale dell’uomo non è stata dunque sempre la stessa, ma è andata sempre modificandosi, sempre migliorandosi ed avvicinandosi sempre all’integrazione dell’individuo come uomo e come cittadino. Né il movimento progressivo d’integrazione si arresterà alla fase nella -quale viviamo noi, ma continuerà fino a raggiungere la piena indipendenza dell’uomo come individuo politico e come individuo economico; fino cioè a raggiungere quel grado di vera umanità, nel quale l’uomo avrà l’obbligo di lavorare ed il diritto che non gli manchi nulla di quanto i suoi bisogni fisiologici, intellettuali e sociali richiedono alla completa esplicazione della sua personalità.

Questi piccoli proprietari poi, che così recisamente affermano l’eternità della proprietà privata, mostrano anche di aver dimenticato quello che essi stessi od i loro padri hanno conosciuto. Fino a circa cinquant’anni fa in Gallura, come in tutta la Sardegna, esisteva la proprietà quasi comune; ed ogni cittadino aveva il diritto di tagliarsi la legna per bruciare, di farsi il carbone, di tagliarsi i pali per la vigna, i manici per gli strumenti di lavoro, di far pascolare le sue bestie nella terra comune, ed ogni agricoltore povero aveva il diritto di avere la sua parte di terra, per la semina nella vidazzone. Ma l’anima proprietaria vieta a loro, vessati dal fisco, angariati dall’usura e torturati dai bisogni sempre crescenti della vita, di cercare il meglio nella soppressione di quel diritto privato alla terra, che li esaurisce fisicamente e non li eleva moralmente.

Il contadino non proprietario poi, ignorante e vivente fino a poco tempo fa una vita economicamente non troppo infelice e psichicamente quella stessa del proprietario, di cui lavora la terra a mezzadria e con il quale vive in famigliarità e qualche volta in intimità, non sente l’antitesi della sua condizione con quella del proprietario, al quale è grato perché gli fornisce il lavoro, gli dà il mezzo di vita. Egli non capisce che sul suo lavoro incompletamente rimunerato vive ed ozia il padrone; egli non capisce e non sa che è il suo lavoro che fa arricchire e vivere agiatamente il proprietario che non lavora. La terra non fecondata dal lavoro delle sue braccia non renderebbe quanto basti a pagar le imposte; mentre coltivata bene rende tanto da pagare le imposte, pagare il lavoratore, mantenere il proprietario e mettere anche qualche cosa in serbo per le eventualità. Dunque è il lavoro l’agente produttore delle ricchezze, e non è certo il proprietario quegli che col lavoro delle braccia feconda la terra.

Ma il contadino, religioso se proprio non superstizioso, crede all’equità dell’ordinamento sociale presente, crede alla immutabilità della sua condizione e paziente e rassegnato ringrazia il padrone che gli dà lavoro e spera nel regno dei cieli riserbato ai poveri. Il contadino ha dimenticato, egli pure, che un tempo aveva diritto alla sua parte di terra, che seminava per conto suo; e circondato e confuso nel numero dei piccoli proprietari o piccolo proprietario spodestato esso stesso, non osa né si crede in diritto di protestare contro l’usurpazione privata della terra.

Gli artigiani costituiscono un elemento più colto e più attivo, ma nella grande maggioranza sono anch’essi piccoli proprietari, ed hanno comune con gli altri l’anima proprietaria. Essi hanno un’idea esagerata della loro indipendenza economica, e nella lotta per la vita sempre più difficile cercano di tenersi amici i signori. Ma quando il progresso dell’industria li trascina nel mare magnum del proletariato, allora hanno l’impulso della protesta disordinata ed inopportuna, come è accaduto ai calzolai nell’agosto del 1902. Questi rappresentano l’elemento più numeroso e più povero dell’artigianato, e a causa del sorgere di piccole aziende industriali di calzoleria la loro condizione va sempre rendendosi più misera e più precaria. Ebbene, essi hanno voluto protestare contro la concorrenza che gli fanno queste piccole aziende, si sono dichiarati in sciopero, forse perché in quell’anno gli scioperi furono numerosissimi in tutta Italia, ed hanno chiesto… che venissero aumentati i prezzi delle calzature!

Per ora questi artigiani non sentono i contrasti di classe perché molti sono anche piccoli proprietari, ma quando l’industria li avrà proletarizzati costituiranno il nucleo dei lavoratori che nelle organizzazioni di classe cercheranno il mezzo di difesa.

E l’industria molto stentamente comincia a dar segni di vita. Ma finché questa non avrà preso largo sviluppo scacciando definitivamente l’artigianato e non avrà messo in maggiore evidenza i contrasti di classe e non avrà nel lavoro comune dell’officina o del laboratorio stimolato la coscienza della comunanza delle condizioni e del male, sarà opera molto difficile incanalare l’anima dell’artigiano che vive isolato e del lavoratore della terra verso il socialismo. Devono essere i bisogni a creare gli organi, e quando il bisogno sarà sentito delle associazioni di classe, sorgeranno allora le leghe di resistenza, le cooperative socialiste, le camere di lavoro etc. Ma quest’avvenire è molto lontano ancora: l’industria non sorge, la piccola proprietà si ostina a non voler scomparire, e metà della popolazione vive dispersa nelle campagne fungi dai rumori del mondo sociale.

E dunque noi dovremo stare colle mani in mano, sento dirmi da qualche compagno, che fa il noviziato e che vorrebbe vuotare tutto il sacco delle cognizioni acquistate sui libri, aspettando che le condizioni per il socialismo maturino? Ce ne dovremo stare neghittosi di fronte a tanto male che dilaga, a tanto fango che scende?

Ecco: per ora la Gallura ha bisogno di uscire dallo stato semifeudale in cui vive, ha bisogno di arrivare all’industria, al capitalismo. A questo devono intendere le loro forze tutti quelli che nello stato presente del nostro paese trovano la ragione del suo malessere, del suo ritardo sociale. E poiché non si possono inventare né fabbricare gli industriali ed i capitalisti, così è dovere della democrazia di fare arrivare la nostra popolazione alla civiltà capitalista per la via indiretta delle associazioni economiche di produzione.

La via è più lunga e tortuosa, ma è l’unica capace di trasformare la Gallura feudale in una Gallura moderna. E la propaganda dei socialisti deve essere perciò rivolta al conseguimento di questo fine grazie alla trasformazione dell’anima vecchia del nostro popolo. Perché la questione gallurese, come la questione sarda, è fondamentalmente una questione psicologica. È necessario rendere più plastica, più volitiva, più sociabile e meno egoista l’anima del gallurese, è necessario sgombrare dal suo spirito tutto il bagaglio dei sentimenti primitivi che oppongono una barriera all’attecchimento delle forme nuove di vita.

Il nostro lavoratore, se anche ha la coscienza del suo stato, non ha però quella della possibilità di uscirne. E come lo schiavo non conquista il suo diritto alla vita se non quando ha acquistato la convinzione di poter uscire dalla schiavitù, come il servo della gleba non diventa il libero salariato se non il giorno che sente di potersi svincolare dai ceppi del feudalesimo, così il lavoratore odierno non conquisterà la sua indipendenza economica se non quando si sarà convinto della possibilità della conquista.

L’ufficio morale delle cooperative di produzione è appunto quello di facilitare l’acquisizione di questa coscienza mediante la lezione delle cose. Epperò il compito, secondo me, più immediato dei socialisti dovrebbe essere quello di stimolare la formazione di queste cooperative. Il frazionamento della proprietà e l’esiguità della produzione individuale costituiscono un terreno ottimo per lo sviluppo di queste cooperative ed una buona piattaforma di propaganda. Se si aspetta che la proprietà piccola sia assorbita dalla grande e l’artigianato soppiantato dall’industrialismo capitalista, si rischia di aspettare troppo e di perdere un tempo prezioso. Ed è discutibile poi se e quando la grande proprietà assorbirà la piccola, specialmente da noi ove manca la grande industria capitalista, ed oggi la tendenza della piccola proprietà ad associarsi, per resistere all’invadente capitalismo, minaccia di prolungare indefinitamente la lotta.

D’altra parte la propaganda pura e semplice delle idee socialiste, se troverà qualche proselite, non riuscirà mai da noi a scuotere le masse ed a far aderire a quell’organizzazione, senza della quale si potranno avere dei “malcontenti ribelli” (anarchici) non dei militi del socialismo.

Certamente il cooperativismo non porta direttamente al socialismo: ma nelle cooperative vi è tanto elemento di collettivismo che l’anima del socio individualista in capo a qualche anno si troverà completamente trasformata e disposta persino ad accettare quel collettivismo che una buona ed accorta propaganda politica deve saper presentare. È per questa via deve maturarsi il socialismo in Gallura e nella maggior parte della Sardegna. Là dove manca il capitalismo, scrive il Gatti[2], e dove non si abbia il caso eccezionale di uno speciale risveglio intellettuale, il cooperativismo è un ottimo tronco per l’innesto dell’idea socialista, perché, rompendo l’isolamento e raccogliendo gli isolati in associazioni, facilita diffusione ed il contagio della idea, e fondendo gli interessi isolati nella cooperazione, crea al posto della vecchia e gretta coscienza individuale una coscienza sociale, che è la migliore preparazione alla coscienza socialista. Il cooperativismo crea una corrente lentamente progressiva dal sistema individualista al sistema sociale ad interessi associati ed a proprietà collettiva. Ed è precisamente il caso nostro, ed è su questa via che dobbiamo avviare la nostra propaganda, lieti se quello scarso proletariato cittadino potrà essere organizzato in cooperative di consumo anzi che di produzione.

Lasciamo gridare i semplicisti del socialismo, quelli che vorrebbero trapiantare tutto in una volta il socialismo anche in quelle regioni che non sono disposte ad accettarlo. Costoro non conoscono che le vie dirette e disprezzano le indirette che, pur prolungando di qualche poco la strada, giungono più sicuramente e senza pericolo alla stessa meta. A voler prender di fronte una fortezza si rischia di lasciarvi inutilmente la carne a brandelli e di pregiudicare una causa buona, mentre che girando l’ostacolo la fortezza cede senza resistenza. Seguiamo le leggi della natura, che tutto matura lentamente ed a poco a poco senza fretta e senza impazienza, e noi avremo concorso a facilitare l’avvento del socialismo molto di più di quelli, i quali credono di aver conquistato un paese alla nuova idea, quando sono riusciti a costituire una sezione povera di vita od un circolo di intellettuali, nel quale si discute molto di tattica e di programma ma non si fa nulla di pratico, e nel quale giorno per giorno si segnalano le tappe fatte e quelle che mancano per arrivare al paradiso socialista. L’azione socialista non può creare il movimento proletario là dove mancano le condizioni opportune.

Politicamente la Gallura è rappresentata al parlamento da un deputato radicale, l’on. Giacomo Pala. Senza averlo coscientemente voluto, essa si trova ad avere il deputato più adatto e più rispondente alla sua fisonomia politico-economica. Essa è infatti costituita in gran parte da elettori piccoli e medi proprietari, i quali formano l’esercito naturale di quella democrazia sociale conservatrice che si formò sulla rovina della potenza aristocratica-feudale. In quel Patto di Roma, che avrebbe dovuto essere il programma della democrazia radicale, trovano esaudite molte domande e sciolti molti problemi che riguardano la loro esistenza, i piccoli proprietari e la magra borghesia, rappresentata dai professionisti e dai medi proprietari.

Ma poiché il deputato radicale non è l’espressione della coscienza politica democratica della regione, così non è certo che egli abbia a continuare a rappresentare politicamente la Gallura. Tanto più che finora il deputato radicale non si è preoccupato di dare al suo collegio quella organizzazione democratica, nella quale dovrebbe trovare la sua garanzia di vita e di sincerità politica. Perché l’uomo politico non è solamente il rappresentante del collegio, delegato a proteggere e difendere gli interessi particolari della regione (funzione che l’onor. Pala disimpegna in modo ammirevole ed encomiabile), ma è anche l’uomo di parte che ha il dovere della propaganda e della organizzazione politica di partito.

Io voglio sperare che come l’onor. Pala ha egregiamente compiuto il suo dovere di rappresentante del collegio di Tempio, voglia ugualmente compiere quello di uomo di partito, portando nei vari paesi la sua parola a persuadere i restii, ad incoraggiare i dubbiosi, a vincere l’inerzia dei più ed a determinare quella organizzazione politica, dalla quale scaturirà più agile e più fluida la vita morale della popolazione gallurese. L’organizzazione politica costituirebbe la migliore garanzia contro le piccole camorre municipali, ed in essa troverebbero la morte. naturale tutte quelle aspre fazioni che inquinano la vita municipale e politica del nostro paese. Le elezioni infatti non si fanno certamente su dei programmi chiari e determinati, ma sul nome delle persone. Ed il potere è cercato e contrastato non per un ideale di partito che sostenga gli animi e nobiliti la lotta, ma semplicemente per i vantaggi che da esso derivano alle persone. Ed il potere in mano di queste fazioni diventa strumento di favoritismi per gli amici e di vendetta e sopraffazione per gli avversari.

La mancanza del senso politico e del sentimento di partito determina poi le più strane e camaleontiche unioni di persone, le più ibride coalizioni, nelle quali vedi a braccetto gli avversari inconciliabili di ieri, e avversari pettegoli e maldicenti gli amici d’ieri. Or l’educazione politica avrebbe il grande immenso vantaggio di innalzare la lotta al disopra delle persone, imperniandola su programmi materiati di cose, e di sopprimere tutte le volgarità dell’astio e dell’odiosità personale, e soprattutto di dare alla lotta quella serenità e quella lucidità che sono necessarie nell’amministrazione della cosa pubblica.

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[1] Così l’originale: «bruttarono di sangue umano anche l’altare per istigazione stessa di quegli che presiedeva alle cose della religione, il gabinetto di lettura si sciolse ma risorse qualche anno più tardi per opera dei nemici suoi della prima maniera».

[2] Gerolamo Gatti, Agricoltura e socialismo. Le nuove correnti dell’economia agricola, Milano, Sandron, 1900, pag. 279.

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