ALGHERO
SULLE COSTE DELLA SARDEGNA
di SALVATORE CAMBOSU
foto di BRUNO STEFANI
in
LE VIE D’ITALIA
Rivista mensile del TOURING CLUB ITALIANO ⇒
Organo Ufficiale dell’ente nazionale per le industrie turistiche
Agosto 1952
(pp. 1028 – 1022)
Una delle maggiori singolarità della Sardegna è stata e resterà sempre quella di poter offrire al visitatore un pezzo autentico di Catalogna. Chi poi volesse accontentarsi d’un pizzico soltanto di Catalogna, sempre in Sardegna, visiti Teulada, villaggio della provincia di Cagliari.
Andava la tracca (carro ornato per le feste e le gite), la tracca teuladina, alla festa di Santa Greca in quel di Decimomannu (Cagliari): e la fanciulla, incurante dei motteggi della splendida via urbana e dell’allegria dei marinai stranieri, anzi sfidandoli, spalleggiata dalle amiche e dai bei ragazzi che facevano parte della comitiva festaiola del suo paese, cantava per vantare il costume dell’innamorato e insieme avviare il coro del trallalèra: «Chi viene a Teulada? Grande e grigio sombrero la pipa alluttonada (pipa locale di terra rossa rivestita di decorazioni in ottone e rame) uose d’orbace nero: risvoltoni di lino ricamati a punto riccio eccovi il teuladino o catalano, a capriccio…».
Ma Alghero, siamo giusti, è ben altra cosa. È tutta Catalogna. Figuratevi che ce n’è tanta che gli Algheresi chiamano gli altri isolani: I Sardi, quasi che essi non lo fossero (d’accordo, in questo almeno, con i Sassaresi; e persino con quei di Gallura).
Comunque, non c’e Sardo che quando dice d’Alighèra non si senta un po’ nobile, un po’ caballero anche lui. E là ragione, c’è; di ragioni, ce n’e anzi più d’una.
Rammentiamo a chi l’avesse dimenticato il capitolo sesto del Don Chisciotte: quello del curioso inventario generale che il curato e il barbiere fecero nella libreria dell’ingegnoso gentiluomo: i cento volumi grossi, molto ben rilegati, e altri più piccoli, che la governante ingenua raccomanda al curato di esorcizzare per che il suo signor padrone sia liberato dagli in cantatori. In mezzo a quei libri, di geste e geste l’una più meravigliosa dell’altra, è ben collocato quello intitolato I dieci libri della Fortuna d’amore che fa esclamare al curato: «Per l’ordin sacro che ho ricevuto, da che Apollo fu Apollo, muse le muse, e poeti i poeti, non è stato mai composto libro tanto spiritoso e tanto bizzarro come questo… e chi non lo ha letto può dire di non avere mai letto cosa di gusto… fo più conto di aver trovato questo libro, che se mi avessero regalata una sottana di rascia di Firenze».
Opera, come è noto, di Antonio Lofraso, poeta sardo, nativo di Alghero. Il Cervantes lo menziona, per condannarlo, anche nel Viaje al Parnaso, capo III.
Questo non sarebbe di certo avvenuto se nel 1354 il re Don Pedro il Cerimonioso non si fosse impadronito della città e, dopo avere costretto i Sardi ad evacuarla, non vi avesse in loro vece stabiliti i Catalani.
Va da sé che da allora la Sardegna ha il suo pezzo autentico di Catalogna; un’isola nell’isola. Il catalano però è stato mantenuto in quarantena: sicché a tutt’oggi, se gli Algheresi vogliono farsi comprendere dai Sardi, bisogna bene che parlino in logudorese, in quanto se non c’è Algherese che il logudorese non sappia, rarissimi sono invece i Sardi che conoscono o comprendono l’algherese. Ed è avvenuto anzi che gli Algheresi abbiano finito con l’accettare molti termini dell’interno, tanto che quelli riferentisi all’agricoltura e alla pastorizia li hanno presi a prestito, e ciò è spiegabile quando si tenga conto che gli Algheresi sono dediti per lo più alla pesca, al commercio e all’industria; ma anche molti oggetti domestici e utensili si designa- no con parole mutuate al sardo, non solo, ma anche nella sintassi, nella fonetica, nell’intonazione e persino nella flessione si fa sentire l’influsso sardo (vedi: H. Kuen, El dialecto de Alguer y su posición en la historia de la lengua catalana, I, Barcelona, 1934, p. 5 e vedi anche M. L. Wagner, La lingua sarda, ed. Franke, Berna).
E chi mai potrà sottrarsi alla tentazione di parlare di Alghero senza rammentare Carlo V, Re e imperatore? E chi al fascino della finestra murata, alla quale si affacciò, pare, l’augusto monarca, e che sarebbe stata murata proprio perché non era persona tanto degna da potersi affacciare là dove si era affacciato il potente signore?
Chi voglia un documento autentico e sugge stivo che lo informi di questa visita tanto celebre che, andando all’impresa di Alghero, Carlo V fece nel 1541 (5, 6, 7 ottobre) alla città «bonita por mi fé y bien assentada», lo richieda in visione all’Archivio municipale di Alghero; o lo legga nel Codice diplomatico del Tola; o si accontenti della testimonianza della lapide… Carolus Quintus divina favente clementia, ecc. ad portam huius civitatis Algueris feliciter per venit et in ea duobus diebus permansit, ecc. M. D. XXXXI.
L’innocente boria delle origini si riflette ancora in quel loro canto che manda un saluto alla terra lontana come a una patria perduta: De la banda de ponent: hi ha una tera llunya llunya lontana es la nostra Catalunya bela forta.…
E quale terrore non spira a ogni notte di Natale il canonico che con un chierico al fianco, legge dal pulpito judici (II Giudizio). Sarà che i bambini d’Alghero aspettino quella notte anche per la festa del Presepe; ma la loro attenzione si ferma quasi tutta sopra la spada d’argento donata da Carlo V al Capitolo, e che l’assistente durante quella lettura tiene in mano come simbolo della Giustizia, Parole terribili piovono dal pulpito in quella notte di dicembre. E il mite Bambino è già nella immaginazione di ognuno, già fatto terribile Giudice, come se ad Alghero non ci fossero innocenti. La terra tremira de por (paura) del cel gran fac devallarà (discender) après vindrà terribilment lu Fill de Deu onnipotent qui morts i vius judicarà….
Così si direbbe che Gesù non nasca ad Alghero quella notte. Aria piuttosto da Antico Testa- mento: che, per associazione d’idee, può trasportarvi al convento di San Giusto in Estremadura, proprio con l’imperatore Carlo V, che, nella ballata del Platen, reclama a quella porta una bara e uno scapolare; e che, ricevutovi asilo, ivi ebbe a lottare con i ricordi dei suoi ventidue regni, arrivando persino a farsi fare i funerali da vivo. Frati spagnoli, apritemi il convento…. Questo si può sentire ad Alghero, anche nelle notti di maestrale e tramontana.
Poco invece raccontano ormai le potenti mura e i bastioni e le torri. Più parlano al visitatore le case alte, le vie strette della vecchia città. E più ancora la città nuova che splende e si guarda incantata allo specchio. Sempre un po’ desolata è certo la Nurra che si traversa per andarle in contro sotto un volare di corvi. E le stazioncine sono romite, e quasi inverosimili come garitte abbandonate.
Ma ecco il sorriso dell’oasi di Olmedo, a dispetto dell’accigliato Monte Rosso, ecco, al fiato salso si rianima il trenino paralitico; e vigne e orti e oliveti e giardini e pascoli e palme nane invitano a cantare. Alghero, Alghero. Olio sopraffino e grano e rame e vini. Sia lodato eternamente il torbato, color giallo dorato, di vena dolce e amara. Squillano sonagliere: ed è l’allegria delle donne; risuonano ancora le incudini, schioccano le fruste, le reti asciugano al sole. Il sole illumina gli ordigni, le paranze e le vele, accende le acque che danno, più che altre mai, nel verde, da figurare un prato eternamente giovane. Ancora pellegrini vanno come per voto alle grotte incantate di Nettuno e dell’Altare. Ancora i pescatori vanno di rada in rada e forniscono aragoste a Genova, a Marsiglia, a Barcellona, per ritornare dopo le lunghissime traversie e gli interminabili esili meno poveri e più contenti.
Ma quanta malinconia quel ramo di corallo nel vostro stemma, o Algheresi! È mesto persino Porto Conte, talvolta, senza i vostri pescatori di corallo. E che accorato vedere fanno le vostre tartane con l’ordigno a croce e argano senza le ciurme d’una volta, al comando della nave ammiraglia, per la pesca dei rami meravigliosi. Ridateci pietre per anelli, ciondoli, orecchini, fermagli, monili, rosari, collane da zingare. Il mondo vi ringrazierà; come oggi vi ringrazia dei vostri garofani stupendi che vanno oltre i monti e oltre il mare e gridano il nome molle e patetico della terra.
Il chiostro della chiesa di San Francesco.
Il campanile della Cattedrale di forme sardo gotiche catalane (seconda metà del XVI secolo). La cuspide è ricoperta di ceramica policroma.
Il portale catalano sottostante il campanile della cattedrale.
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