VI.10 – Proverbi e credenze sulla morte
di Maria Azara
Lu mòltu non si n’anda sènza pientu. (Il morto non se ne va senza pianto).
Lu riccu móri a denti strinti. (Il ricco muore a denti stretti).
Di li inuliati pochi ni campa. (Di quelli che hanno avuto l’estrema unzione pochi campano).
L’anima anda a lu lócu di lu só distinu. (L’anima va al suo destino).
Ca móri chizzu no faci nòtti. (Chi muore presto non fa notte).
Vènghia la mòlti chi scusa no falta. (Venga la morte che scusa non manca).
Ca campa midduriggja, ca móri fracichiggja. (Chi vive migliora, chi muore marcisce).
Mòlti tóia vita méa. (Morte tua vita mia).
Biàtu lu colpu chi móri in sabatu ed è intarratu in duminica. (Beato il corpo che muore il
sabato ed è seppellito la domenica).
La mòlti ni scòncia e n’accòncia. (La morte guasta e accomoda).
Déu cjudi una gjanna e abri un balcòni. (Dio chiude una porta e apre un balcone).
A la mòlti li preti cantani a gloria. (Alla morte i preti cantano a gloria).
Ca prima nasci prima mori. (Chi prima nasce prima muore).
La mòlti è sipultura, la tarra è cupaltura. (La morte è sepoltura, la terra è copertura).
La mòlti no figgjula in cara a nisciunu. (La morte non guarda in faccia nessuno).
Ca nasci déi murì. (Chi nasce deve morire)
Tuttu si rimidiggja, ma la mòlti nò. (Tutto si rimedia fuorché la morte).
Lu tèmpu passa e la mòlti s’accosta. (Il tempo passa e la morte si avvicina).
Mòlti disiciata, vita longa. (Morte desiderata vita lunga).
Vita disiciata, mòlti celta. (Vita desiderata, morte certa).
No s’ha paci che i ‘lu fòssu. (Non si ha pace che nella tomba).
Li bòni gjà morini e li mali gjà arrestani. (I buoni muoiono e i cattivi restano).
Nisciunu déi sta pa semini. (Nessuno deve restare per seme).
Candu l’ora è sunata bisogna paltì. (Quando l’ora è suonata bisogna partire).
La mòlti ’eni candu mancu s’aspetta. (La morte viene quando meno si aspetta).
A la mòlti sèmu tutti gali. (Alla morte siamo tutti uguali).
A ca è bucatu mòltu cresci ’ita. (A chi è dato per morto cresce vita).
Anche sulla morte le credenze sono numerosissime.
Riproduco quelle più frequenti. Il canto del gufo o del barbagianni (puciòni di stria), dell’upupa (pupusata) e della civetta (ciònca) sul tetto di una casa indica sventura per quelli che l’abitano.
A Santa Teresa Gallura quando passano corvi (anche uno solo), proprio sopra una casa, bisogna dire: Datti a lu multoggju (gettati sulla carogna) se si vuole evitare disgrazia.
Ad Olbia tre cantate isolate di gallo, prima della mezzanotte, portano disgrazia a sette case del vicinato; ma se il gallo canta di più le case sono immuni. Ad Aggius si domanda da lontano al cucolo che canta:
Lu mòltu non si n’anda sènza pientu. (Il morto non se ne va senza pianto).
Lu riccu móri a denti strinti. (Il ricco muore a denti stretti).
Di li inuliati pochi ni campa. (Di quelli che hanno avuto l’estrema unzione pochi campano).
L’anima anda a lu lócu di lu só distinu. (L’anima va al suo destino).
Ca móri chizzu no faci nòtti. (Chi muore presto non fa notte).
Vènghia la mòlti chi scusa no falta. (Venga la morte che scusa non manca).
Ca campa midduriggja, ca móri fracichiggja. (Chi vive migliora, chi muore marcisce).
Mòlti tóia vita méa. (Morte tua vita mia).
Biàtu lu colpu chi móri in sabatu ed è intarratu in duminica. (Beato il corpo che muore il
sabato ed è seppellito la domenica).
La mòlti ni scòncia e n’accòncia. (La morte guasta e accomoda).
Déu cjudi una gjanna e abri un balcòni. (Dio chiude una porta e apre un balcone).
A la mòlti li preti cantani a gloria. (Alla morte i preti cantano a gloria).
Ca prima nasci prima mori. (Chi prima nasce prima muore).
La mòlti è sipultura, la tarra è cupaltura. (La morte è sepoltura, la terra è copertura).
La mòlti no figgjula in cara a nisciunu. (La morte non guarda in faccia nessuno).
Ca nasci déi murì. (Chi nasce deve morire)
Tuttu si rimidiggja, ma la mòlti nò. (Tutto si rimedia fuorché la morte).
Lu tèmpu passa e la mòlti s’accosta. (Il tempo passa e la morte si avvicina).
Mòlti disiciata, vita longa. (Morte desiderata vita lunga).
Vita disiciata, mòlti celta. (Vita desiderata, morte certa).
No s’ha paci che i ‘lu fòssu. (Non si ha pace che nella tomba).
Li bòni gjà morini e li mali gjà arrestani. (I buoni muoiono e i cattivi restano).
Nisciunu déi sta pa semini. (Nessuno deve restare per seme).
Candu l’ora è sunata bisogna paltì. (Quando l’ora è suonata bisogna partire).
La mòlti ’eni candu mancu s’aspetta. (La morte viene quando meno si aspetta).
A la mòlti sèmu tutti gali. (Alla morte siamo tutti uguali).
A ca è bucatu mòltu cresci ’ita. (A chi è dato per morto cresce vita).
Anche sulla morte le credenze sono numerosissime.
Riproduco quelle più frequenti. Il canto del gufo o del barbagianni (puciòni di stria), dell’upupa (pupusata) e della civetta (ciònca) sul tetto di una casa indica sventura per quelli che l’abitano.
A Santa Teresa Gallura quando passano corvi (anche uno solo), proprio sopra una casa, bisogna dire: Datti a lu multoggju (gettati sulla carogna) se si vuole evitare disgrazia.
Ad Olbia tre cantate isolate di gallo, prima della mezzanotte, portano disgrazia a sette case del vicinato; ma se il gallo canta di più le case sono immuni. Ad Aggius si domanda da lontano al cucolo che canta:
Cuccu di bèddi anni
Cuculo di begli anni
Cuccu di bèddi dì
Cuculo di bei giorni
Cant’anni àggju a istà a muri?
Fra quanti anni morirò?
Si sta in ascolto e poi, quando il cuculo, che ha cessato di cantare udendo la voce di chi l’interroga, ricomincia a cantare, si contano i suoi cuculiati, ognuno dei quali significa un anno di vita (216).
Non si deve mai rivolgere la parola al prete quando porta l’estrema unzione ai moribondi, ché, altrimenti, morirà quell’individuo che viene per il primo appresso al prete.
Si crede che le anime dei buoni se ne vadano in cielo e che quelle dei cattivi vaghino per la terra. Per placare queste anime e renderle innocue, a Tempio e Luogosanto si usa preparare una cena, consistente in un piatto di maccheroni; e collocare il piatto sul davanzale di una finestra a piano terreno. Ciò si fa la notte del primo di agosto di ogni anno. Le anime sono placate se hanno in quella notte fatto baldoria. Questa fanno, in realtà, gli spregiudicati giovanotti nottambuli che, conoscendo l’uso, ne profittano per proprio conto.
Si crede che i morti ritornino sulla terra, alla loro casa nella notte dei morti e si preparano loro da mangiare li maccaròni senza posate, nulla che punga perché non faccia loro del male. Si accende anche la lampada perché gli spiriti vedano.
Molti credono che gli spiriti malefici possano ficcarsi nel sangue di una giovane e che, quando lo spirito vuol dettare qualche sua disposizione, faccia cadere in letargo la povera creatura che si mette a parlare, se è interrogata, di fatti passati o presenti che tutti pensano debbano esserle ignoti, e spesso anche prevede fatti futuri. Per liberare la ragazza dallo spirito occorre allora l’esorcismo.
Lo spirito di un suicida o di un assassinato non va come gli altri per la propria via, ma avviene per esso la metempsicosi, che lo fa passare nel corpo di altra persona innocente, dal quale l’esorcismo lo caccia via e allora vaga per la terra finché, scontata la pena, ritorna presso la propria casa, specialmente in determinate circostanze di feste o di lutti. In considerazione di ciò, dopo la cena, si lasciano a tavola alcuni piatti con le pietanze (almeno uno) perché l’anima si sazi.
Le anime poi dei non battezzati si aggirano la notte sempre sulla terra. Esse sono chiamate animi bulatiggj.
Si crede anche che i bambini, che muoiono verso mezzanotte, formino una corona intorno alla Madonna.
A Luras credono che l’innocente che muore di venerdì salvi un’anima dal Purgatorio.
Se durante i funerali accade una disgrazia, si dice che l’anima del morto non possa accedere in cielo se non dopo un lungo periodo di penitenza.
Un vento furioso nel giorno della morte o del funerale è segno che l’anima è dannata.
Se si celebra un matrimonio o si battezza un bambino mentre entra in chiesa un corteo funebre, si pensa che debba capitare del male agli sposi o al bambino.
Ad Olbia si credeva, un tempo, che quando uno fosse stato assassinato, se l’assassino si presentasse per le condoglianze, la ferita che aveva causato la morte risanguinasse ed i parenti del defunto notavano questo particolare per trarne, poi, vendetta.
Se il morto era un avaro o, comunque, allontanato dai vicini, alla sua morte i corvi sorvolano il tetto del defunto.
Si crede, pure, che sia di malaugurio la vista di un morto di morte violenta. Per scongiurare il malaugurio si tocca la fronte del cadavere e ci si segna recitando una preghiera per l’anima del defunto.
Altri usano, invece, toccare il piede destro del defunto; e contemporaneamente fare lu prutestu dicendo:
A Gesù, Giuseppe e Maria
L’anima tóia intrigata sia
L’anima tua impegnata sia
Unu, dui e tre
Faeddia e dichia cal’è (217).
Parli e dica chi è.
(217). Questo prutestu si usa anche per chiamare gli spiriti. Nel caso che lo spirito non rispondesse subito si dice il «Pater» al rovescio, cominciando dall’ultima parola.
Se durante il trasporto del cadavere sul carro a buoi dallo stazzo alla chiesa, nell’attraversare un fiume, un torrente od un corso d’acqua qualunque, accade che un lembo del lenzuolo o il cadavere si bagni, i pastori dicono che il carro debba stare per sette anni acceso, in fiamme, e che ciò serva di espiazione per i peccati del defunto (218).
Ad Aggius e Luogosanto se piove per tanti giorni continuamente, si dice: un battisgimu a móddu c’ha (c’è un battesimo a bagno) intendendo dire che qualche cristiano battezzato è annegato e si trova ancora in acqua, e fino a che non sarà estratto fuori dell’acqua la pioggia non cesserà.
Ad Aggius credono che gli spiriti infernali prendano la fisionomia delle persone morte; che perciò appena uno muore vadano a studiare la sua salma e vi rimangano fino a tanto che non ne escano perfettamente uguali (219).
Se un’anima è condannata all’inferno, le preghiere che le si diranno per suffragio, le serviranno di aggravio accrescendone le pene.
Si crede pure in la réula cioè la schiera dei morti. Si dice che alla mezzanotte escano le anime dei defunti in vestito bianco con un cappuccio, come se appartenessero ad una confraternita; che in mano abbiano ceri accesi (secondo altri invece in mano hanno un osso di morto) e che girino per paese facendo penitenza.
Questo ritorno delle anime, che, non avendo finito la penitenza, tornano per schernire i vivi e si riuniscono fra loro in gran numero per implorare insieme misericordia, qualche volta serve per avvertire un conoscente di un’imminente disgrazia, che può essere sventata per mezzo di una offerta alla chiesa e ai poveri.
Si crede che presso la casa dei moribondi si fermi un carro pieno di spiriti. Questo carro esce a mezzanotte e senza essere tirato da nessuno procede pesantemente con gran fracasso, che però è avvertito soltanto dai parenti ed amici del moribondo, in ultimo si trasforma in un gran fuoco, intorno al quale riddano i folletti (220).
Si ha anche paura di lu traicoggju, che è uno spirito che trascina una pelle, un cuoio, dietro al quale va salmodiando una funebre compagnia (221).
Il gran fragore delle processioni dei morti oltre che dalle catene, massi e stanghe che essi trascinano può anche essere prodotto da lu suiddatu (il tesoro, cioè un prezioso carico d’oro, che talvolta essi lasciano, un po’ qua, un po’ là. Perciò i vivi vanno alla ricerca di lu suiddatu che credono che si trovi in un determinato punto della campagna o della casa o nel cortile).
Le anime si aggirano di notte nei nuraghi, nei crocicchi, nelle vicinanze e nell’interno delle chiese. Non sarebbe prudente passare in questi posti dopo la mezzanotte perché le anime dei defunti vi danzano una ridda infernale e offendono i vivi che capitano in mezzo a loro (222).
Sulle rive dei fiumi si può invece incontrare la paltuggjana (donna morta nel parto). Tutte le nòtti essa va ad un fiume per lavare i panni della sua creatura e canta una ninna nanna mestissima. Così fa penitenza per due anni (223).
(223). II BOTTIGLIONI (op. cit., pag. 31 e pag. 45 n .1) invece dice che le panas devono fare penitenza per sette anni, ma questa penitenza ricomincia ogni volta che esse vengono interrotte nel lavoro da qualche imprudente, che, senza riflettere, le avvicini e rivolga loro la parola.
Guai se la paltuggjana è disturbata mentre lava, perché si vendica spruzzando i panni sul disturbatore e le gocce d’acqua gli bruciano il viso e le mani.
Quelli che credono di vedere gli spiriti si fanno il segno della croce e chiudono le porte e le finestre. Qualche volta sparano col fucile, ma prima di sparare si fanno la croce con la punta della canna. Altri gettano contro le anime pezzi di legno in fiamme.
Per scongiurare il pericolo si dice: Si sei anima bòna anda in ora bòna, si sei anima mala anda in ora mala.
Invece a Santa Teresa Gallura dicono: Si sei anima bòna anda in ora bòna si sei anima mala anda a lu tó distinu. Perché, si dice, non tocca a noi condannarla, ma al Signore. Molto efficaci sono anche li dódici paràuli; e lu prutestu (224).
Anticamente a Loiri si diceva: No pudému ’inè, chi ému di misurà lu sali (non possiamo venire perché dobbiamo misurare il sale). E poi si faceva la croce per tre volte.
Dove è stato ucciso qualcuno o dove qualcuno è morto per disgrazia si incide una croce su un sasso o sul legno dell’albero più vicino. Se la disgrazia è avvenuta presso il mare la croce si incide su uno scoglio.
Gli uomini evitano sempre di calpestare quel tratto di terreno. Quando ci si passa vicino sia di notte, che di giorno ci si fa il segno della croce, e si butta un sassolino od altra cosa per reverenza verso il morto, per abbonirlo e evitare che in quel punto ne muoiano altri.
Anche in questi luoghi si vedono fantasmi, soprattutto dopo l’imbrunire, a mezzanotte, oppure anche a mezzogiorno, mentre suona la campana. Lo stesso ucciso ritorna sul luogo della sciagura e anche altri morti vi convengono.
Se avviene un’altra disgrazia si dice: «v’è sèmpri la tintaziòni» cioè vi è sempre il diavolo che può fare del male.
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(216). Cfr. PIRODDA A., Canto del cuculo in «Rivista per lo studio delle tradizioni popolari italiane», 1894, fasc. I, pag. 43.
(218). Cfr. CIUSA O., Credenze sarde in Gallura in «Rivista per lo studio delle tradizioni popolari italiane», 1894, fasc. VI. pag. 451.
(219). Cfr. PIRODDA A., Altre credenze di Aggius in «Rivista per lo studio delle tradizioni popolari», 1894, fasc. I, pag. 44.
(220). Cfr. BOTTIGLIONI G., Leggende e tradizioni di Sardegna, Genève, 1922, pag. 32.
(221). Cfr. BOTTIGLIONI G., op. cit., pag. 33.
(222). Cfr. BOTTIGLIONI G., op. cit., pag. 32.
(224). Per lu prutestu cfr. e per li dodici paraluli cfr. MARI G., loc, cit., rispettivamente pag. 271 e pag. 78.