IV.4 – Cerimonia del fidanzamento: pricunta e abbracciu
di Maria Azara
Nella città e nei villaggi il fidanzamento ha carattere di festa familiare intima, che si svolge fra le due famiglie con i rispettivi amici; ma negli stazzi la cerimonia, detta di l’abbracciu (dell’abbraccio), che si svolge in questa occasione, è fra le più caratteristiche e interessanti (161).
(161). Qualche volta la cerimonia di l’abbracciu è detta abbracciu di l’assigurùgnu (assicurazione) perché i fidanzati sono siguri mediante questa cerimonia con la consegna di l’anéddu di l’assigurùgnu o militaria, o anéddu a cascitta (cerchio d’oro nel quale è posto un cuore pure d’oro in cui sono incise le iniziali del fidanzato). Qualche volta viene anche regalata la rasuggjédda timpiesa (coltellino tempiese).
Sono fatti tempestivamente gli inviti agli amici delle due famiglie. Nel giorno stabilito gli amici della famiglia della fidanzata, che costituiscono la palti di la fèmina (la parte della donna), convengono per tempo in casa di questa. A una certa ora un ragazzo, messo di guardia su un pino o su un alto albero, annunzia che la palti di l’ómu (parenti e amici del fidanzato) è in vista. Le donne immediatamente rientrano nello stazzo di cui sono chiuse le porte e finestre. Fuori restano gli uomini; il padre della fidanzata, col poeta a fianco, se egli stesso non sa poetare, sta presso la porta; gli altri fingono di stare a guardia delle finestre.
Ben presto arriva il corteo del fidanzato, a galoppo frenato fra gli spari delle fucilate, che devono simboleggiare quasi l’assalto a una fortezza. I cavalli vengono fermati sullo spiazzo innanzi alla casa; tutti, uomini e donne, smontano, ma si fermano a una certa distanza della porta. A questa si avvicinano soltanto lo sposo, il padre e il poeta (l’ómu di la pricunta, l’uomo della domanda) e si inizia, appunto, la pricunta (162).
(162). Pricunta derica dal latino percuntari.
Se non si hanno due improvvisatori di grande bravura, e non si trovano facilmente, la pricunta si svolge in prosa e consiste in un dialogo che comincia molto alla larga. Il padre della fidanzata, o chi per lui, mostra grande meraviglia nel vedere tanta gente e nel sentire tanto strepito nel suo stazzo e chiede quale ne sia il motivo. Il contraddittore, prima ancora di dare risposta al riguardo, avvertendo che egli ed i suoi sono là pa bisògnu bònu (per bisogno buono), si informa sullo stato di salute della famiglia e si compiace di saperlo ottimo. Dopo uno scambio di frasi su questo argomento, decide finalmente di far conoscere il motivo della sua scorreria.
Dal suo stazzo – dice – è mancata una colomba, o un’agnellina, o una capretta o una vitellina (a tutte viene attribuito il colore bianco simbolo di virtù) che aveva tutte le più belle qualità che Dio possa donare a così cara bestiola. Nello stazzo non si vive più se questa non si ritrova, perché chi più profondamente ne è colpito è il fidanzato, anche lui ricolmo di ogni più eletta qualità. Soggiunge che si è avuta notizia che la capretta è stata vista nei dintorni dello stazzo e tutti si sono precipitati là per farne ricerca: se si fosse rifugiata in questo stazzo e fosse restituita si ridarebbe la pace al giovane e gli si offrirebbe la più grande felicità del mondo.
L’altro risponde che non ha visto alcuna capretta estranea al suo stazzo.
La schermaglia dialogata continua a lungo e nessuno si dà pensiero se il sole arde oppure se d’inverno il vento gelido penetra nelle ossa.
Alla fine il rappresentante di la palti di la fèmina ammette che è possibile che, senza che alcuno se ne sia accorto, la capretta possa essersi confusa con quelle dell’ovile e, poiché sa che ha a fare con gente onorata, ordina che si apra la porta di casa e che gli ospiti possano personalmente vedere se, per caso, fra le altre non si trovi la loro capretta.
Egli presenta una ad una tutte le donne di casa. Ad ognuna l’ómu di la pricunta rivolge qualche parola gentile o di sarcasmo e ottiene adeguate risposte. Finalmente, ultima, è presentata la fidanzata, che è riconosciuta come la ricercata. Si chiede al fidanzato se sia sicuro che sia proprio questa che gli ha ferito così profondamente il cuore, ed egli, rispondendo affermativamente con frasi sonanti, le salta vicino e l’abbraccia, mentre tutti innalzano grida di gioia e quelli che sono all’esterno sparano nuove fucilate.
Riproduco qui, in originale, una pricunta che mi è stata favorita dal canonico don Salvatore Pes, di Nuchis.
Indico con U il rappresentante dell’uomo, e con D il rappresentante della donna.
UOMO – Ben vinuti li stragni.
DONNA – Ben agattati.
UOMO – Còmu vi la passeti?
DONNA – Bè, grazi a Déu- E Voi?
UOMO – Ancóra nói stému bè. E li di casa tutti còmu si cumpòltani?
DONNA – Pal mala chi sia l’annata, si Déu vò, gjà si la passani bè.
UOMO – Nisciuna nuitái a chisti perri.
DONNA – Chi sappia éu nudda. Vói, più apprestu, com’anda chi séti vinuti in tanti,
UOMO – Sèmu junti pà un bisògnu, ma gjà è bisògnu bònu –
DONNA – Minori, però, non dei esse chistu bisògnu pa scunsaltà tanta gjenti.
UOMO – Lu bisògnu è mannu, fratéddu caru.
DONNA – Uhai! Non mi feti assuccunà. Si vi pòssu aggjutà éu, gjà lu sapeti chi sòcu prontu a lampammi in un riu.
UOMO – Tu sólu ci pói aggjuta!
DONNA – Tandu ditimi lestru cal’è lu bisògnu
UOMO – Da tanti dì èmu paldutu un’agnunédda, bianca còmu lu latti, lisgia di pilu còmu la seta, maseda e chieta, la più bella di tutta la cussoggja, credu chi non n’esistia cussì bona.
DONNA – Ohi! chi lástima! e non l’éti cilcata?
UOMO – S’è giratu mari e mònti e non l’èmu agattata
DONNA – E undi arà présu?
UOMO – Ariséra unu ci ha dittu d’aélla vista a chistu filu e pó dassi chi si sia unita a lu tó taddólu.
DONNA – Illu mé taddolu sò guasi tutti agnoni e pecuréddi angèni no vi ni sò di siguru – E vói tu chi no mi n’avvidissia?
UOMO – Unu sbagliu di ’ista pó dassi sèmpri. Éu ti précu di turrà a figgjulà.
DONNA – Aìa calchi signali l’agnunédda ̓òstra?
UOMO – Signali? Lu só signali era la só biddesa, la bunitai, la grazia, ch’era l’incantu di ca l’ammiràa.
DONNA – Ebbè, unu sbagliu pó capità a tutti. Vói séti bòni passòni; intrému insembi e figgjuleti vói mattessi. O di casa! abriti la gjanna. Figiúla chista.
UOMO – Chista póltala a la cóncia.
Ragazza. A la concia ti pòltini
DONNA – E chista?
UOMO – Chista pónila a macinà?
Ragazza. A asinu tolghi da chici a dumani
DONNA – Chista no sarà?
UOMO – Bèdda gjà è ma pa punilla a arrustu
Ragazza. Illu spitu ti pònghini (continua la presentazione delle ragazze…).
DONNA – Si non è chista non n’àggju alta
UOMO – E chissa è idda, la nòstra stélla Diana. Finalmenti l’ému agattata. Mirella, mirélla! Viniti a figgjulalla! E tu, lu mé fiddólu, dì tu siddu è chista la tóia
Fidanzato. Idda è la mé cara, la mé cioia dunosa. Abali è méa e nisciunu più mi la pó piddà (163).
(163). UOMO – Ben arrivati gli ospiti.
DONNA – Ben trovati.
UOMO – Come ve la passate?
DONNA – Bene, grazie a Dio. E Voi?
UOMO – Anche noi stiamo bene. E tutti quelli di casa come si comportano?
DONNA – Per cattiva che sia l’annata, se Dio vuole, se la passano bene.
UOMO – Nessuna novità da queste parti?
DONNA – Che io sappia nulla. Voi, piuttosto, come va che siete venuti in tanti.
UOMO – Siamo venuti per un bisogno, ma è un bisogno buono.
DONNA – Piccolo, però, non deve essere questo bisogno per sconvolgere tanta gente.
UOMO – Il bisogno è grande, fratello caro.
DONNA – Ahi! Non mi fate spaventare. Se vi posso aiutare io, lo sapete che sono pronto a gettarmi in un fiume.
UOMO – Tu solo ci puoi aiutare.
DONNA – Allora, ditemi presto quale è il bisogno.
UOMO – Da tanti giorni abbiamo perduto un’agnellina, bianca come il latte, liscia di pelo come la seta, mansueta e quieta, la più bella di tutta la «cussorgia», credo che non n’esista così buona.
DONNA – Ohi! che peccato! E non l’avete cercata?
UOMO – Si è girato per mari e monti e non l’abbiamo trovata.
DONNA – E in quale direzione sarà andata?
UOMO – Ieri sera uno ci ha detto d’averla vista da questa parte e può darsi che si sia unita alle altre del tuo ovile.
DONNA – Nel mio ovile sono quasi tutti agnelli, e pecorelle altrui non ve ne sono di sicuro. E eredi tu che io non me ne sarei accorto?
UOMO – Uno sbaglio di vista può darsi sempre. Io ti prego di guardare di nuovo.
DONNA – Aveva qualche segno particolare questa agnellina vostra?
UOMO – Segno particolare? Il suo segno era la sua bellezza, la sua bontà, la grazia, ed era l’incanto di chi l’ammirava.
DONNA – Ebbene, uno sbaglio può capitare a tutti. Voi siete buone persone, entriamo insieme e guardate voi stessi. O di casa! Aprite la porta. Guarda questa.
UOMO – Questa portala alla concia.
Ragazza. Alla concia ti portino.
DONNA – E questa?
UOMO – Questa mettila a macinare.
Ragazza. Asino diventi da qui a domani.
DONNA – Non sarà questa, forse?
UOMO – È bella, ma per metterla arrosto.
Ragazza. Nello spiedo ti mettano.
DONNA – Se non è questa non ne ho altra.
UOMO – E questa è lei, la nostra stella Diana. Finalmente l’abbiamo trovata. Guardatela! Guardatela! Venite a guardarla! E tu, figlio mio, di tu se è questa la tua.
Fidanzato. Ella è la mia cara, la mia gioia preziosa. Adesso è mia e nessuno più me la può prendere.
Talvolta l’ómu di la pricunta non segue la tradizione di ricercare l’agnellina o la colomba ecc., ma trae ispirazione da persone o da cose di attualità.
È ricordata sempre a Luogosanto (come mi assicura il parroco don Paolo Pintus, che me l’ha cortesemente inviata) la seguente pricunta, fatta alcuni anni or sono da un autorevole proprietario pastore di San Francesco d’Aglientu, che vive tutt’ora.
La fidanzata si chiamava Margherita, il fidanzato aveva il soprannome di Zinnìa (164). Nella pricunta la novità, che fece impressione, fu il richiamo fatto dall’improvvisatore alla bonifica compiuta nel zinniàggju, cioè all’adeguata preparazione morale dell’uomo e materiale della casa, perché potesse, sul terreno divenuto fertile, crescere rigoglioso un giardino di magnifici fiori, fra i quali doveva primeggiare una margherita della migliore qualità.
Ometto la prima parte di la pricunta, che contiene i consueti convenevoli, e riproduco la parte centrale, omettendo anche l’ultima, sulla presentazione delle ragazze.
UOMO – Tandu, gjà chi lu vuleti sapé, v’àggju a di chi un cioanu bèddu e fòlti, di bona familia e bòn trabaddadóri in un só pussessu aía un zinniàggju mannu – Ebbè, cu li só mani n’ha tiratu l’alba mala, lu zinniàggju l’ha tuttu diccipatu e abali lu tarrènu è divinutu tarra affattenti pa cialdinu – E un gran cialdinu iddu vi ’o fa e lu disignu è tuttu prontu e pronti sariani li fióri; ma lu più bèddu li manca; chiddu chi vó mèddu cultivà; chiddu chi vó piantà pal primu; li manca una malgarita; però chi sia di rara galitai còmu n’ha vistu una chi alta non si n’agatta illu mundu.
DONNA – Ed éu cosa vi pòssu fa?
UOMO – Tuttu, palchì ci hani dittu chi chici si pò agattà chissa malgarita (165).
(165). Allora già che lo volete sapere, vi dirò che un giovane bello e forte, di buona famiglia e buon lavoratore, in un suo possesso aveva un giuncheto grande. Ebbene, con le sue mani ne ha tirato l’erba cattiva, il giuncheto l’ha tutto sradicato e adesso il terreno è diventato terra adatta per giardino. E un gran giardino egli vi vuole fare e il disegno è tutto pronto, e pronti sarebbero i fiori; ma il più bello gli manca; quello che vuole coltivare meglio; quello che vuole piantare per primo; gli manca una margherita; però che sia di qualità rara come ne ha visto una che altra non se ne trova al mondo.
DONNA – Ed io cosa ci posso fare?
UOMO – Tutto, perché ci hanno detto che qui si può trovare quella margherita.
Indico ora, con poche righe, il contenuto centrale di altre due pricunte, che escono dal normale, e in cui si fa ricerca di una bandèra (bandiera).
Nella prima (favoritami dal parroco Pintus) si tratta di una bandiera religiosa.
UOMO – Sèmu priparèndi una bandèra pa’ la festa di Nòstra Signóra bèdda. Tuttu è prontu, ma ci manca la màgina, palchì nisciun pintóri la pudia pintà cussì bèdda com’é e còmu la ‘ulému nói.
DONNA – Fratéddu caru e a chici tu vèni a cilcà pintóri? No lu sapii chi sèmu bòni pastóri e chi di tinta non n’usému?
UOMO – Gjà lu sapému; ma ci hani dittu chi la màgina più bèdda chi Déu ha volutu crià la tiniti voi. Deticilla pa la nòstra bandèra e pal Nòstra Signóra biniditta (166).
(166). UOMO – Stiamo preparando una bandiera per la festa di Nostra Signora bella. Tutto è pronto, ma ci manca l’immagine, perché nessun pittore la poteva dipingere così bella com’è e come la vogliamo noi.
DONNA – Fratello caro e qui tu vieni a cercare pittori? Non lo sapevi che siamo buoni pastori, e che di colore non ne usiamo?
UOMO – Lo sappiamo; ma ci hanno detto che l’immagine più bella che Dio ha voluto creare l’avete voi. Datecela per la nostra bandiera e per Nostra Signora benedetta.
Nella seconda (favoritami dalla signora Franco Michelini) si tratta invece della bandiera nazionale. La pricunta è del periodo irredentista della Dalmazia.
UOMO – Incuntrèndimi patrònu d’un bastimentu chi naicàa in gròssu mari, essèndi a la palti opposta di la distinazioni, da me pruposta, chi saria illu mari Adriaticu (la fidanzata si chiamava Adriana) finalmenti sòcu arriatu a lu pòltu cu li mé parenti e amichi e sòcu statu bè cultiggjatu (Colti si chiamava la località dove abitava la fidanzata). Ma da una palti e da l’alta di chissu gran mari si facíani signali e s’intindíani colpi di cannoni. Pa battaddà vi ho la bandèra e a noi ci manca.
DONNA – E nói còsa vi pudému fa?
UOMO – Vói ci la déiti dà. Lu nòstru scopu è di piddacci divintà patròni di la bèdda disiciata bandèra (167).
(167). UOMO – Trovandomi padrone di un bastimento che navigava in grosso mare, essendo dalla parte opposta della destinazione da me proposta, che sarebbe nel mare Adriatico, finalmente sono arrivato al porto coi miei parenti e amici e sono stato ben corteggiato. Ma da una parte e dall’altra di quel gran mare si facevano segnali e si sentivano colpi di cannone. Per combattere ci vuole la bandiera e a noi ci manca.
DONNA – E noi cosa vi possiamo fare?
UOMO – Voi ce la dovete dare. Il nostro scopo è di prendere e diventare padroni della bella e tanto desiderata bandiera.
Qualche altra volta la pricunta si presenta con caratteri di finta violenza.
Eccone una favoritami dal Prof. Francesco Marielli, di Santa Teresa Gallura. Gli ambasciadóri di l’ómu tentano di aprire la porta e di entrare in casa attraverso le finestre. Gli altri oppongono resistenza.
UOMO – Una culumba è scappata: era bèdda com’è lu soli; tinia tutti li doni; è ministeri agattalla palchì un cioa nu chi la ’o bè non ha paci: è tantu chi no la ’idi e ha paldutu la saluti. Da l’insigni ch’ému autu sapému chi la culumba è da chisti lati. Siddu no abriti la gjanna, nilla lampému cu la folza; vulému intrà a dugna costu.
Una colomba è scappata: era bella come il sole, aveva tutti i doni, è necessario trovarla perché un giovane che le vuole bene non ha pace. È tanto tempo che non la vede e ha perduto la salute. Da le indicazioni che abbiamo avuto sappiamo che la colomba è da queste parti. Se non aprite la porta la gettiamo giù con la forza; vogliamo entrare ad ogni costo.
DONNA – Noi no ému nisciun timóri né di paráuli né di fusili, ma, gjà chi si tratta còmu diti, di ’ita o di mòlti, siati li binvinuti, intreti puru, cilcheti e si no l’agatteti rispitteti lu lócu e li passòni.
UOMO – Eccu la culumba! è falata da lu céli l’ha mandata Déu! (168).
(168). DONNA – Noi non abbiamo nessun timore né di parole né di fucili, ma, già che si tratta, come dite, di vita o di morte, siate i benvenuti, entrate pure, cercate e se non la trovate rispettate il luogo e le persone.
UOMO – Ecco la colomba! È scesa dal cielo, l’ha mandata Dio.
Gli ambasciatori prendono la giovane, la conducono fuori all’aperto e la presentano all’innamorato per il riconoscimento.
UOMO – Eccu la mé culumba egli esclama, «è idda, è idda la mé fata» (ecco la mia colomba, è lei, è lei la mia fata).
Sul piazzale i presenti si dispongono ad U col lato chiuso rivolto alle case. In questo stanno la giovane, la famiglia, gli ambasciatori, negli altri a destra la palti di la fèmina, a sinistra la palti di l’ómu.
Uno degli ambasciatori chiama il giovane – che esce dalla sua fila – e chiede prima a lui, poi alla giovane, si gjurani di fa una casa e un córi (se giurano di fare una casa e un cuore). Ottenute le risposte affermative dice al giovane: «Abbraccia la tó spósa». E durante l’abbraccio esclama: «Déu vi binidichia» (Dio vi benedica). Il fidanzato abbraccia e bacia delicatamente sulle gote la fidanzata. Seguono i famigliari dell’una e dell’altro, indi la palti di la fèmina e per ultimo la palti di l’ómu – Tutti depongono lu dònu sui vassoi tenuti dagli ambasciatori delle rispettive parti.
Anche quando la cerimonia si svolge con la pricunta fatta in uno degli altri modi prima accennati, seguono sempre, all’abbraccio del fidanzato, gli abbracci degli invitati dell’uno e dell’altra parte e l’offerta dei doni (169).
(169). Tutte le cerimonie che accompagnano la pricunta qualche volta non si svolgono nel giorno dell’abbracciu perché il fidanzamento può anche avvenire nell’intimità per varie ragioni, per esempio a causa di lutto recente di una delle due famiglie.
Le cerimonie si svolgono allora, prendendo, però, il nome di lu còju (il coniugio) nel giorno precedente quello delle nozze; ma sono accompagnate da altre cerimonie, di cui parlerò più innanzi trattando del matrimonio.
In qualche località (es. Luogosanto), mentre gli uomini invitati di la palti di la fèmina baciano la fidanzata, il fidanzato, a sua volta, può inseguire e baciare le ragazze invitate della stessa parte (170).
Finita la cerimonia dell’abbraccio cominciano le gare – corse a cavallo, a la miria (tiro a segno) e a li disputti (tenzoni poetiche) – e scherzi di ogni genere; infine, finalmente, i balli e il pranzo.
————————————————————————————————————–
(170). Altre descrizioni di pricunta si possono leggere in: DE ROSA F., Op. cit., pag. 80 e segg.; BRESCIANI A., Dei costumi dell’isola di Sardegna comparati con gli antichissimi popoli orientali. Napoli, 1850 vol. II pag. 138 e segg.; DEL MASTRO V., Le mariage chez les paysans d’Aggius, Naples, 1895, pag. 12 seg.: PIRODDA A., Gli sponsali ad Aggius in «Rivista delle tradizioni popolari italiane», 1894, anno I, pag. 560 segg.; CASU P., Notte sarda, Sassari, 1910, pag. 13 segg.; MALTZAN H. F., Reise auf der Insel Sardinien, Leipzig, 1869, pag. 57 segg.; VULLIER G., La Sardegna, Cagliari 1930, pag. 76; LUCIANO B., Cenni sulla Sardegna, Torino, 1843, pag. 69 e segg.; FACCIANI G., in «Usanze e feste del popolo italiano», raccolte da Dino Provenzal, Bologna, 1912, pag. 230 segg.; COSTA E., Il muto di Gallura, Tempio, 1912, pag. 32 e segg.