III.4 – Giochi fanciulleschi

di Maria Azara

Sui giochi fanciulleschi, che un po’ si rassomigliano in tutte le regioni d’Italia, molto si è scritto e ben poco vi è da dire di nuovo. Per quanto concerne la Gallura una diligente raccolta di tali giochi è stata fatta dal Mari (87).

(87) Mari Giovanni, Per il Folk-lore della Gallura. Ninne nanne, filastrocche, giochi, indovinelli, proverbi ecc., Milano, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1900, pp. 25-42. Le successive note 88-92, 94, 96, 98-99, fanno riferimento alle specifiche pagine di questo prezioso libro, che Gallura Tour propone per la prima volta in versione digitale integrato da un profondo e non semplice lavoro di curatela].

 

Perché tuttavia possa aversene qui un quadro completo li indicherò tutti, mediante richiamo, svolgendo però quelli che, secondo le notizie da me raccolte, presentano qualche variante in confronto a quelli già editi.

«A lu piazzittu». «A lu piazzéddu». (Alla piazzetta).

A ogni angolo di un quadrato siede, su una pietra, un ragazzo. Un quinto sta dritto al centro. Quando quelli seduti cercano di scambiarsi il posto, il ragazzo del centro deve essere pronto a saltare su uno dei posti rimasti vuoti e ad occuparlo prima che vi arrivi uno di quelli che tentavano di fare il cambio. Chi arriva tardi passa al centro. E così via. Lo stesso gioco si fa, anche senza le pietre, col semplice scambio di posto specialmente nei boschi, scegliendo come punti di sosta quattro alberi non molto distanti uno dall’altro.

«A l’imbresti».

 L’imbrestia è un ciottolo di fiume, piatto a bordi tondeggianti, in modo che, lanciato, possa scivolare, non rotolare, facilmente sul terreno. In mancanza di ciottoli, si usano anche pezzi di mattone ai quali si levigano angoli e bordi sfregandoli in qualche pietra. Si mette in terra una pietra a una certa distanza da una riga segnata sul terreno e sulla quale ogni giocatore deve mettere un piede nel momento in cui lancia la sua imbrestia col colpo basso in modo che si avvicini strisciando alla pietra di segnale (lu mastru). Chi riesce a mettere la propria imbrestia più vicina alla pietra vince un pennino, un bottone, un nocciolo di pesca e altri oggettini simili.

«A la gherra». [Alla guerra]

I ragazzi si dividono in due gruppi, uno di italiani e l’altro di nemici, che sono a seconda del tempo abissini, austriaci, turchi, francesi, inglesi, greci ecc. Poiché nessuno vuole fare spontaneamente la parte del nemico, stabilito il numero, l’assegnazione di quelli che debbono sostenere l’ingrato ruolo avviene per sorteggio, mediante speciali mezzi, che, per sé stessi, costituiscono altrettanti giochi: a ca l’esci (88: Mari, ), a la murra» (morra), a paru e a disparu, a capu e e gruci (testa e croce), a lu palittu (piccolo palio: una corsa di poche decine di metri), a lu saltu (salto in lunghezza) ecc.

Una volta formati, i due gruppi si schierano lontani l’uno dall’altro. Vince il gruppo di cui anche un solo componente riesce a raggiungere la posizione dell’avversario. Per lo più i due gruppi fanno uso di spintoni; e se i guerrieri si infervorano nella battaglia, questa può trasformarsi in tante piccole risse a base di pugni e di qualche vergata se i combattenti sono armati di qualche bacchetta come fucile, spada o lancia. Di peggio può capitare quando gli avversari sono distanti e usano la fionda (la frùmbula) lanciandosi sassi gli uni contro gli altri in modo che l’avvicinamento diventa pericoloso. Un poco minore, ma sempre sussistente, è il pericolo quando i sassi sono lanciati a mano (a la battaddòla) (89).

In questi casi per lo più il combattimento si svolge in qualche campo aperto nei pressi del paese; ma se l’ardore della lotta spinge i contendenti a inseguirsi fin dentro l’abitato, avviene non di rado che le tegole dei tetti, o i vetri delle finestre delle case più vicine risentano gli effetti della guerra, e questa finisce per l’intervento dei grandi, che distribuiscono scappellotti ai primi ragazzi che capitano sotto mano.

«A lu baddaròcculu». (La trottola).

Si fanno vari giochi. Il Mari (90) ne indica uno: a li chiaroli (a spacca strombolo); ma ve ne sono altri. Per esempio a durà. I due ragazzi lanciano contemporaneamente ciascuno la propria trottola; vince quello la cui trottola dura di più (gira per maggior tempo).

Altro gioco fatto con la trottola è quello di li sbitticcàti (91) che si fa non solo col sasso e con la trottola contro sassi o noccioli, ma anche per spingere fuori di un cerchio disegnato sul terreno o al di là di una linea, soldini o bottoni o pennini messi a terra.

Nel gioco della trottola il ragazzo può dimostrare abilità nella scelta del giocattolo. La durezza del legno con cui questo è fatto; la tempra buona del chiodo che sta in punta e che i ragazzi arrotano con molta cura sfregandolo spesso sul primo stipite di porta che capita loro vicino; la lunghezza e la solidità dello spago, sono tutti buoni elementi perché si esca vincitori tanto dal gioco di li chialóri, quanto da quello a durà.

I più piccoli (e qualche volta anche i grandicelli in mancanza di trottole) infilano in una bacca di alloro o di quercia un pezzo dell’asta di fiammifero di legno, e facendolo energicamente scorrere, con un colpo deciso fra il pollice e l’indice o medio, gli imprimono il movimento rotatorio al momento in cui scende a terra, possibilmente su terreno uniforme o ben pulito, o meglio ancora su una tavola, oppure sul pavimento di cemento o di terra battuta e dura.

«A li caséddi». [Alle casette].

Con zolle di terra scavate mediante sassi puntuti, specialmente in primavera, oppure con sassi o con solo fango i ragazzi costruiscono piccole case, facendo sfoggio della propria abilità nella celerità, nella forma e nell’altezza della minuscola costruzione.

«A lu paliu». (Al palio).

Si gioca in due modi: o con la corsa libera fra due punti segnati, oppure inforcando li cabaddi (i cavalli) costituiti da manichi di scope o da altri bastoni, ma per lo più da li furruloni (duri e alti steli di ferula maschio), ai quali viene fatta una specie di testa di cavallo piegando, previo apposito incavo, per dieci o quindici centimetri la parte più grossa, che viene poi legata perché resti sempre piegata. In questa così detta testa vengono messi chiodi a capocchia dorata, spaghi, nastri o fiocchi che stanno a sostituire gli ornamenti di cui nei veri «palii» sono ornati i cavalli.

«A li mammi». (Alle mamme)

Le ragazze si ornano possibilmente di qualche vecchia gonnella delle madri o delle sorelle maggiori e, così camuffate, vanno a farsi reciprocamente visita imitando i discorsi che sentono fare dalle adulte e ripetendone i gesti; strette di mano e abbracci all’entrata e all’uscita.

Spesso questo gioco è collegato con quello che allora vengono fornite di mobili e utensili di cucina per bambole.

Allo stesso gioco si unisce pure spesso quello di li buatti oppure di li puppii (92) (bambole).

«A la manzunga» (93)

(93). Manzunga è l’osso (rotella) su cui girano la parte superiore e inferiore della zampa nel ginocchio dell’agnello.

 

Oltre i giochi indicati dal Mari (94), con questo osso i ragazzi sogliono farne un altro.

La manzunga viene legata con uno spago. In terra si mette, su una riga, spesso leggermente infitta nel suolo, una pallina, oppure un nocciolo di pesca o, in mancanza d’altri simili oggettini, una pietruzza. Il giocatore, inchinandosi o no a suo piacere, e facendo roteare la manzunga, deve colpire la pallina e farla scorrere fino ad un’altra linea segnata sul terreno a una certa distanza. La difficoltà del gioco consiste in questo: che la manzunga nel roteare non deve mai toccare il terreno. Data la piccolezza dell’oggetto che si deve colpire non è facile sfiorarlo e spingerlo innanzi senza urtare la terra.

Nelle zone verso il Coghinas la manzunga è chiamata tutti ed è un gioco fatto dalle bambine. Una bambina getta il tutti e, a seconda che cada in posizione di tutti (parte piena) o di nudda (parte vuota), perde o vince alcune spille. Il gioco è detto perciò anche sas aguzzas (le spille).

«A acchintàssi». (Ad afferrarsi alla cintola)

È una specie di lotta romana. I due ragazzi si afferrano reciprocamente cingendosi il dorso e mettendo ciascuno un braccio sopra e l’altro sotto l’ascella dell’avversario. Vince chi mette l’avversario con le spalle a terra.

Dopo la prima presa, di forma obbligatoria, i ragazzi possono mutare la presa, distaccarsi e riafferrarsi nel modo che trovano più conveniente per mettere a terra l’avversario.

Ma è vietato «fà l’anchetta» (fare lo sgambetto) considerato come mezzo sleale di lotta.

«A li pugni». (Ai pugni: sfida di pugilato)

I due ragazzi si mettono di fronte. Uno dice: «dammi muttiu» (motivo) perché non vuole colpire l’avversario senza motivo, almeno apparente, di reazione. L’altro risponde: «Nò dammillu tu» (dammelo tu) perché nessuno vuole figurare come provocatore. Finalmente uno si decide a toccare leggermente l’altro. Questi risponde con una piccola spinta, l’altro con uno spintone e arriva il primo pugno, che accende la zuffa, la quale finisce quando uno dei due si arrende o quando gli altri ragazzi, che fanno da spettatori (talvolta vi sono veri e propri padrini) non intervengono a separare i malconci contendenti.

«A sciaccià nóci». (A schiaccianoci)

È un gioco che richiede forza. Si intrecciano le dita delle mani e fra le palme che si chiudono (proprio come uno schiaccianoci) si mettono due noci. Stringendo fortemente una delle due noci si schiaccia. Il gioco si fa alternativamente. Chi ha maggiore forza schiaccia e vince più noci.

Ma soccorre anche la furberia. Se il ragazzo è abile nel valutare, dalla conformazione esterna, la maggiore o minore durezza della noce, egli offre allora all’avversario la noce che considera più dura e tiene per sé quella considerata meno dura.

«A ca ridi un pugnu e un pizzicu». (A chi ride un pugno e un pizzico)

I ragazzi si mettono in circolo. Roteano i pugni facendo mulinello e imitando con la bocca il ronzio del moscone. Non si deve aprire la bocca, ma può variarsi il tono del ronzio e si possono fare versacci col viso. Chi per primo si lascia trascinare dal riso nel guardare le buffe facce dei compagni, riceve come pena un pugno e un pizzico.

«A la caniòla». (Al cerchio)

Per lo più il cerchio è stato tolto a una carriola e non di rado anche a qualche ruota più grande di carretto o di carrozza. I ragazzi lo fanno roteare spingendolo con un bastoncino oppure semplicemente con la mano e gli corrono dietro. Spesso si fanno, anche, coi cerchi, gare di corsa.

«A cuà lu denti». (A nascondere il dente)

Quando i bambini perdono gli incisivi di latte, con l’aiuto della mamma si intende, cercano di nasconderli sotto qualche mobile o in altro posto con grande mistero. Dopo alcune notti passate invano – e le giornate di attesa acuiscono la curiosità del bambino – finalmente un topo, che aveva perduto il proprio dentino, trova quello nascosto dal bambino e, in segno di gratitudine, gli lascia nello stesso posto qualche soldino o qualche dolciume, che il bambino prende con grande sua gioia e con delizia della mamma; la quale si diverte ancora, quando il bambino, smaliziato, non crede più al topo, ma finge di credervi per prendersi i regalini.

«Li pidòni». (I trampoli)

Un altro gioco che si vede fare dai ragazzi, specialmente alla fine dell’autunno e al principio dell’inverno quando vien fatta la provvista della legna per i caminetti, è quello dei trampoli (li pidòni). I ragazzi si muniscono di due pezzi di ramo sufficientemente grosso, i quali abbiano qualche residuo di forcatura, su cui essi poggiano i piedi, accompagnando ritmicamente con la mano, che tiene la parte superiore del ramo, il movimento di ciascun piede. Finché dura il trasporto e lo scarico della legna essi continuano a divertirsi facendo anche gare di durata e di velocità su questa rudimentale specie di trampoli. E i proprietari della legna usano tolleranza perché, al momento del richiamo sono sicuri di riavere prontamente i pezzi di legno.

«La zirriola». (La raganella)

Le raganelle [o tric trac: strumento musicale idiofono in legno], si usano nel periodo delle feste pasquali. Durante la settimana santa, tanto prima che si inizi la funzione dei vespri, per chiamare i fedeli quanto nel momento in cui si spegne l’ultima candela del candelabro a sette candele, non potendo suonare campanelli o campane che figurano legate (chi sò liati) in segno di lutto per la morte del Signore, i sacristi fanno un particolare strepito mettendo in moto la matracca (una specie di cassettina in cui è chiusa una grossa raganella, il cui manico esce fuori) oppure lu batti batti o ciocca ciocca, (il batti batti). Quest’ultimo è costituito da una spatola di varie dimensioni a seconda della maggiore o minore intensità del rumore che si vuole produrre.

Nel punto in cui comincia il manico della spatola sono fatti due buchi attraverso i quali passa un grosso spago, che congiunge, ma non strettamente, alla spatola altre due tavolette di uguali dimensioni; soltanto per la parte larga.

Afferrando la spatola per il manico e alzandola e abbassandola ritmicamente col movimento che si usa per scuotere un campanello a mano, le tre tavolette si urtano fortemente tra loro, a causa della lentezza della cordicella di congiunzione, e producono un rumore simile a quello di un forte battimano. Gruppi di ragazzi aiutano i sacristi in questa faccenda, servendosi di propri zirrioli, matracchi e batti batti in genere di dimensioni più piccole di quelle usate dai e durante tutta la settimana santa e quella successiva alla Pasqua si sente spesso il caratteristico rumore dei detti arnesi, che, dopo, i ragazzi ripongono per riprenderli alla prossima Pasqua. È cosa straordinaria sentire rumore di raganelle in altro periodo dell’anno.

«A li palmi». (Alle palme)

Altro gioco pasquale è quello delle palme. I ragazzi si divertono molto a intrecciare palme, che nella domenica precedente la Pasqua sono benedette in chiesa e poi conservate. Gli intrecci sono molto numerosi e qualche volta dimostrano vera ingegnosità da parte degli autori. Gli intrecci più comunemente fatti sono, si intende, i più semplici.

Eccone, come esempio, alcuni: la gruci (la croce) oppure «la stélla» o «la luna». La palma è intrecciata in modo da formare una croce o una stella, al centro della quale è inserita, qualche volta, nell’intreccio, una medaglietta sacra o una piccola immagine sacra.

La nóci (la noce). Un rametto di palma di piccola dimensione e di quattro, sei o otto foglie, viene intrecciato piuttosto strettamente in modo che se si togliesse il peduncolo potrebbe, alla lontana, rassomigliare ad una noce.

La zirrulia (lo sparviero). Un ramo di palma di media dimensione è mantenuto, nell’intreccio, diviso in due parti. Le foglie tanto di una, come dell’altra parte, sono intrecciate di piatto, in modo che alla fine si presentano come le due ali dello sparviero quando spazia a volo librato, con le ali tese. La testa e il becco sarebbero rappresentati da una delle foglie ripiegate in avanti e la coda dal peduncolo del ramo di palma.

Vi sono, poi, gli intrecci complicati delle grandi palme, che fanno così bella figura in chiesa, e che non mi risulta che abbiano nomi particolari. Queste grandi palme sono, in genere, regalate ai sacerdoti, e quanto maggiore è il loro grado ecclesiastico altrettanto più grande dovrebbe essere la palma. Quando, poi, vi è scarsezza di palme, che sono portate in Gallura da luoghi di mare – specialmente dall’algherese – si provvede con semplici rametti di olivo, più o meno infioccati.

«A alzà». (Ad alzare).

Fra i giochi che si fanno con le monete ve n’è uno detto a alzà. I ragazzi mettono ciascuno un soldino e poi sorteggiano, in uno dei molti modi sopra indicati, l’ordine di gioco. Il primo giocatore mette, sull’indice e l’anulare distesi e riuniti, le monetine che sono al massimo cinque o sei, con la parte del rovescio in su. Lancia, poi, in alto tutte le monete. Può raccogliere soltanto quelle che si presentano cu lu capu (dal lato in cui è incisa la testa del sovrano). Le altre sono raccolte dal secondo giocatore, che, a sua volta, le mette in ordine e le lancia. E così via.

«A li carruléddi». (Ai carretti).

I ragazzi costruiscono essi stessi, ma più spesso si fanno costruire dai genitori o da fratelli o parenti, carri in miniatura. Qualche volta ho visto far funzionare come ruote del carruccio perfino torsi di pannocchie di granturco, collegati da un bastoncello, sul quale è legato il carruccio. Le pannocchie intere funzionano spesso anche da buoi, quando sono legate davanti al carruccio e trascinate insieme a questo.

I ragazzi imitano nei gesti e nelle parole gli adulti, con grande sussiego che spesso diverte molto anche quest’ultimi, che dal modo con cui i ragazzi si comportano traggono buoni auspici per farne capaci lavoratori.

Qualche altra volta i carrelli sono più grandi e più solidi, possono contenere, non soltanto pietre e pezzi di legno, (ordinaria merce trasportata) ma anche uno dei ragazzi, che vi si rannicchia alla meglio mentre un altro spinge il carrello oppure lo trascina mediante una corda. Ho visto, poi, spesso giocare con un carrettino caratteristico, formato da una o due tavole piatte di una trentina di centimetri di larghezza e di circa mezzo metro di lunghezza. Le tavole poggiano su due assi e quattro robuste rotelle, piccole di diametro (una decina di centimetri), ma grosse, qualche volta cerchiate di ferro. L’asse anteriore, che è mobile, sporge dalle ruote quanto basta perché, attraverso un buco da una parte e dall’altra, possa farsi passare una cordicella. Con questa il ragazzo, che sta sopra il carrello, tirando da un lato o dall’altro, guida il carrello stesso, che è spinto, a turno, da uno degli altri ragazzi, fino a che si trova un pendio sul quale, ricevuta una buona spinta iniziale, il carrello scende una certa velocità. L’abilità del guidatore consiste nel tenersi in equilibrio nel più lungo tratto possibile. In mancanza di compagni il ragazzo porta da solo il carrello fino al pendio e là lo lancia. Quando poi ci sono più possessori di carrelli si fanno anche le gare.

Soltanto per eccezione i carrelli di questo genere sono usati come piccoli mezzi di trasporto, ai quali si prestano poco perché sono privi di tavole laterali.

«A lu tirelasticu». (Alla fionda elastica).

Ad una forchetta di legno sono assicurati due elastici congiunti con un quadratino di pelle o di stoffa. In questo il ragazzo mette una pietruzza, prende la mira, distende gli elastici al massimo e lancia.

Qualche volta gli elastici, invece di essere fissati a una forchetta di legno, hanno al bordo, ciascuno un anellino di pelle o di stoffa in cui il ragazzo infila la punta del pollice e dell’indice della mano sinistra che, allargati, fanno la funzione della forchetta. Vi sono ragazzi così abili che, con un sistema o con l’altro, riescono a uccidere uccelletti, per colpire i quali vanno piano piano sotto gli alberi, quando non preferiscono appostarsi e attendere pazientemente che gli uccelli si avvicinino.

Qualche volta il «tirelastico» serve ad usi crudeli, come quando i ragazzi lo maneggiano per sfondare i nidi delle rondini sotto le gronde dei tetti, oppure quei nidi che stanno in alto sugli alberi, sui quali essi non vogliono prendersi la fatica e correre il pericolo di salire.

Nelle battaglie di ragazzi è usata, come ho accennato sopra, ma per fortuna molto raramente, la vera fionda di corda, di cui sono soliti servirsi i pastorelli per richiamare in distanza qualche bestia del gregge che si sbanda, quando il richiamo alla voce non è ascoltato e quando col pastorello non vi è il cane per farlo eseguire.

Il «tirelastico» mi è stato detto che non è mai usato nelle battaglie dei bambini perché sarebbe considerato come un’arma insidiosa. Se qualcuno se ne servisse sarebbe certamente picchiato dagli altri coalizzati contro di lui.

«A cal’à più fòlza». (A chi ha più forza).

Due ragazzi si mettono ad un tavolo sul quale ciascuno appoggia il gomito destro; uniscono, quindi, le mani spingendo in senso opposto, fino a che il più forte costringe l’altro a piegare il braccio. Il gioco è pericoloso perché produce, qualche volta, lussazioni o fratture al braccio del ragazzo più debole.

«A pultà li cabaddi a l’abbatoggju». (A portare i cavalli all’abbeveratoio).

A proposito di questo gioco, mi diceva, scherzando, un mio vecchio parente in Sardegna, che i sardi nascono a cavallo, per significare che da piccoli sono abituati a cavalcare. I genitori, infatti, fin da quando sono ancora in fasce portano i bambini in campagna, come ho accennato più sopra, parlando del battesimo, sull’arcione della sella (a dananzi alcu).

Appena si regge e può stare aggrappato, il padre lascia il bambino solo in sella tenendogli però il cavallo per la briglia e guidandolo egli stesso. Piano piano il bambino si abitua anche a tenere la briglia e riesce a guidare da solo il cavallo sul tratto, sempre breve, dalla casa alla stalla e col tempo lo guida dalla stalla all’abbeveratoio (abbatoggju).

Gradatamente, spesso in breve tempo, il ragazzo si regge benissimo e fa presto a far passare il cavallo dal passo al trotto e poi al galoppo. Quando non c’è il cavallo supplisce il somarello. Le inevitabili cadute non divezzano il ragazzo, che finisce per provare tanto entusiasmo per cavalcare, che si trova sempre pronto e servizievole col padre, con parenti e anche con estranei, pur di avere l’incarico che gli consenta di montare a cavallo. Quando, poi, gli adulti sono assenti e due o più ragazzi hanno la possibilità di poter prendere un cavallo, avviene quello che essi considerano come un gioco. Dopo l’abbeverata i cavalli sono lanciati al galoppo e spesso a corsa sfrenata in gara fra essi. È superfluo dire che l’abbeverata serve, spesso, soltanto di pretesto ai ragazzi per fare la cavalcata. Ne ho visto nelle campagne di Tempio montare il cavallo a dorso nudo e guidarlo con una semplice cordicella al collo, passante per la bocca dell’animale e tenuta per un solo capo dal piccolo cavaliere (95).

(95). Mi è stato detto che quando la corda passa così, libera nella bocca dell’animale, si chiama brunchili; se c’è un nodo si chiama achému. Si ha poi, lu murrali quando la corda è infilata e sostiene due pezzi di legno o di corno, che premono all’esterno sulle ossa mascellari della bestia se datore tira la corda dal capo che egli ha in mano.

«Lu tizzòni, ghirigoru, ghirigoru». (Il tizzo, ghirigoro, ghirigoro).

I ragazzi prendono dal fuoco un tizzo e lo fanno roteare in modo che descriva per aria figure luminose, gridando ripetutamente la parola ghirigoru. Nella zona contigua all’Anglona il gioco ha una significazione più simbolica. Il mercoledì delle ceneri si fa su fogu santu (il fuoco santo) per conservare la cenere con cui si compie in chiesa la cerimonia sacra. I ragazzi portano sul piazzale della chiesa ciascuno un pezzo di legno, contribuendo a fare il gran fuoco, che il sacerdote benedice. Finita la funzione ogni ragazzo riporta a casa il residuo del proprio pezzo di legno su tittone beneittu (il tizzone benedetto), che conserva per rimetterlo al fuoco soltanto nella sera del successivo Natale come segno di buon augurio per la festa.

«A li pitricéddi». (Ai sassetti).

Nella forma più semplice il gioco si fa così. Si inizia disponendo sul tavolo o per terra 5 pietruzze.

1° tempo. Una si lancia in alto, si raccoglie subito una delle quattro rimaste e poi quella che scende. Così si prosegue fino ad avere le cinque pietruzze in mano.

2° tempo. Si ripete come sopra, ma le quattro rimaste si raccolgono in due volte, cioè a due a due.

3° tempo. Come sopra, ma le quattro rimaste si raccolgono in due volte prima 3 poi una.

4° tempo. Come sopra, ma le quattro rimaste si raccolgono in una sola volta, sempre, si intende, mentre la pietra lanciata è ancora per aria.

Indi si inverte il gioco tenendo in mano le cinque pietruzze.

1° tempo. Una si lancia in alto, si posa subito una delle quattro rimaste in mano, e poi si riprende quella che scende. Così si prosegue fino a liberare la mano.

2º tempo. Si ripete come sopra, ma le quattro rimaste in mano si posano in due volte: cioè a due a due.

3º tempo. Come sopra, ma le quattro rimaste si posano in due volte: tre e una. 4º tempo Come sopra, ma le quattro rimaste si posano in una sola volta.

Se la pietruzza lanciata in alto non viene ripresa, oppure se nel raccogliere o posare una delle pietruzze se ne tocca un’altra, vicina, il gioco termina, e lo inizia un’altra compagna.

Vince chi esegue il maggior numero di combinazioni (96).

(96). Per varianti e per le non poche complicazioni del gioco con recitazione di filastrocche cfr. Mari G, op. cit., pag. 37.

«A zappi». (A zappare).

È gioco semplice. I ragazzi uniti di piccole zappe vanno nei campi fuori del paese (e purtroppo talvolta anche nelle stradicciole del paese) e imitano quello che fanno i contadini nella zappatura.

«A li gubbìni». (Alle palline).

Si gioca in vari modi.

1) A lu tusci a pó (non è traducibile).

Col tacco della scarpa ripetutamente fatto girare – con contemporanea pressione sulla gamba di tutto il corpo – si scava sul terreno un piccolo fosso, detto lu pò. Qualche volta, non per risparmiare la scarpa, ma per guadagnare tempo, lu pò è fatto con un sasso a punta o con qualche bacchetta appuntita.

Per stabilire l’ordine di gioco, a dieci-quindi ci metri di distanza da lu pò è messo un sasso (lu mastru il maestro). Ciascuno dei ragazzi lancia verso questo una pallina (gubbina) tenendo un piede nel fosso e cercando di farla avvicinare più che possibile a lu mastru.

L’ordine di gioco è determinato appunto dalla vicinanza delle rispettive gubbini al sasso.

Il primo giocatore raccoglie tutte le palline e con una sola manata le lancia verso il fosso. Se qualcuna vi cade dentro è sua.

Egli ha inoltre il diritto di «tusci», di «truccà», cioè di dare un tusciù, un truccu (un urto) alla pallina più vicina al fosso per farvela cadere dentro. Per far ciò si deve mettere un ginocchio a terra e puntare pure a terra l’indice sinistro al quale si appoggia la mano destra ripiegata a pugno.

Fra il pollice e l’indice della destra, incrociati, il ragazzo tiene un’altra pallina, che viene lanciata facendo scattare il pollice. Per lo più questa pallina è più grossa delle altre e si chiama gubbinòni oppure carrulantòni.

Se con l’urto la pallina, che stava in terra, entra nel fosso, il ragazzo ripete il gioco con l’altra meno lontana, fino a che l’urto non produce l’effetto voluto. Allora passa a truccà il secondo giocatore e così via.

Il primo giocatore è avvantaggiato sugli altri perché se è abile a lanciare la manata di palline in vicinanza del fosso e sopra tutto se è abile nel tusci o truccà può guadagnare varie palline. Ma è difficile regolare la forza dell’urto, che se è debole non fa arrivare la pallina a lu pò; se è violento o non bene diretto glielo fa oltrepassare.

2) «A lu pò». [Buchetta scavata per terra]

Si svolge come nella prima forma fino al lancio della manata di palline. Poi, invece, di tusci le palline sono, una ad una, lanciate verso lu pò mediante l’urto diretto del pollice destro, che poggia a terra per lungo e che scatta dopo essere stato trattenuto dall’indice. Il gioco diviene così più facile,

3) «A la gubbinédda». (Alla pallinetta).

Il primo giocatore, designato mediante uno dei molti modi su indicati, mette a terra, a pochi centimetri da un muro, una pallina. Il secondo cerca di colpire mettendo il piede su una linea distante da un metro e mezzo a due metri, e leggermente rialzando e piegando il ginocchio, sul quale poggia l’indice sinistro per fà lu truccu come nel gioco n. 1. Se colpisce la pallinetta sostituisce il primo giocatore, che gli deve inoltre dare una pallina. Se non colpisce, perde a sua volta, una pallina e il suo posto è preso dal terzo giocatore. Chi tiene la pallinetta a terra ha maggiori probabilità di vincite perché è difficile coglierla al primo colpo.

 

«A cuccu miau». (A cuculo miao).

I ragazzi mettono i pugni l’uno poi uno dei giocatori, che ha mantenuto la destra libera, picchia sul pugno più basso e domanda: «E c’è cuccu miau?» (C’è il cuculo che miagola?). Gli altri rispondono «più in su». Domanda e risposta si ripetono fino al pugno più alto. Allora il richiedente dice: «Beh! a ca ridi un pugnu e un pizzicu» e i ragazzi fanno mulinello e versacci (97: cfr. il gioco sopra).

Il gioco ha una variante quando è fatto dalla mamma o da un adulto con un bambino.

Toccati i tre pugni con la solita domanda e risposta, invece di dire a ca ridi un pugnu e un pizzicu, la mamma dice «Accollu, acollu a cuccu miau ch’è isciuto, cu, cu, cu» e nel pronunziare queste ultime parole tocca leggermente il petto e il ventre del bambino per fargli il solletico.

«A cresci cresci». (A cresce, cresce).

Due ragazzi si rotolano per terra gridando «Cresci! Cresci!»; gli altri accorrono e si buttano disordinatamente anch’essi sopra i primi accrescendo il groviglio col numero e il chiasso con l’urlio.

«A li cabaddi lònghi». (Ai cavalli lunghi).

Un ragazzo sta seduto. Un altro curva il dorso mettendogli le mani sulle ginocchia. Un terzo, presa la rincorsa, deve saltare a cavalcioni del secondo, gridando al momento del salto una parola convenuta.

Qualche volta è stabilito che il salto deve essere compiuto senza mettere le mani sul dorso, qualche volta è permesso poggiarvi le mani. Il ragazzo che fa da cavallo può anche dare una sgroppata.

Se il cavaliere non prende giusto lo slancio oppure se anche, messosi sulla schiena, perde l’equilibrio per la sgroppata o se, comunque, tocca, anche con un sol piede, in terra, deve accodarsi al primo cavallo inchinando anch’egli il dorso. Un quarto giocatore compie il salto. Se riesce, resta a cavallo altrimenti si accorda per fare da terzo cavallo. Se i giocatori sono numerosi si forma una fila di quattro o cinque cavalli (e perciò cabaddi lònghi) e di alcuni cavalieri.

Dopo il salto dell’ultimo giocatore le parti si invertono e i due primi giocatori (quello che stava seduto e quello che faceva da primo cavallo) saltano per primi (98).

«A lu céli a l’infarru» (99). (Al cielo e all’inferno).

Si fa mettendosi in fila seduti sulle proprie ginocchia e con le braccia avvinte sotto come a sostenere il corpo, finché due dei ragazzi, precedentemente scelti, non vengono a prelevare ad uno ad uno i bimbi che stanno in attesa in quella incomoda posizione, prendendoli, appunto per le braccia come se queste fossero manichetti di brocche: l’abilità dei due bimbi prelevatori sta solo in uno sforzo fisico, mentre per gli altri consiste in una resistenza a tenere sempre fortemente intrecciate le mani il più a lungo possibile.

Dalla maggiore o minore resistenza dipende l’entrata nel Paradiso o nell’inferno. La zona segnata come inferno è infatti vicina al punto in cui i bambini sono seduti, mentre il paradiso è in zona più lontana. Se quindi il bambino cessa presto il suo sforzo cade nell’inferno; chi invece resiste al proprio peso arriva fino in paradiso.

È superfluo dire che quelli ai quali è toccato l’inferno sono scherniti come più deboli degli altri che sono arrivati fino al Paradiso.

«A la bancicarédda». (All’altalena).

Se i ragazzi trovano un carro, senza buoi, lasciato incustodito, mentre uno di essi si mette a cavalcioni sul punto in cui si attaccano i buoi, gli altri montano sulla coda del carro, che s’abbassa sotto il loro peso facendo andare in alto il primo ragazzo. Qualcuno poi si sposta verso il centro e, quando si è raggiunto un certo equilibrio, il primo ragazzo, appena tocca terra, puntando i piedi e scattando mentre si tiene fermo con le mani al carro, costringe questo ad alzarsi e ad abbassarsi bilicando sull’asse delle ruote.

Un altro modo, pure comune, per fare a bancicarédda è il seguente: i ragazzi bilicando una trave sopra ad una certa altezza da terra; poi montando in due a cavallo delle due estremità, si vanno per la gravità rispettiva spingendo in su, bilicandosi l’un l’altro (100).

[Le successive note 100, 102-124, 126, 128-129 fanno riferimento a pagine dell’«Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», talvolta a Mari, il quale lui stesso offre ampi riferimenti all’importante rivista. Nel libro di Mari sono presenti anche i link agli stessi giochi riassunti dall’Azara. Pertanto non le si riporta nel corpo del testo ma alla fine].

«A la pampana». (Letteralmente significa «pampino» foglia di vite)

Corrispondente al gioco del mondo della campana.

I ragazzi fanno per terra disegno come questo:

 

IMMAGINE

 

Gli spazi da 1 a 7 corrispondono ordinariamente ai giorni della settimana (così 1-lunedì, 7-domenica) e il numero 8 è detto mundu (mondo o céli (cielo) (101).

(101). La numerazione è indicata da me per spiegare meglio il grafico, ma non è mai fatta dai ragazzi, che, naturalmente conoscono bene il significato di ciascuno spazio.

 

Si mette un’imbrestia (piastrella di pietra) a terra, fuori del disegno, davanti allo spazio indicante il lunedì (n. 1).

Il primo giocatore, saltellando su una sola gamba (a la pédiscianca), spinge la piastrella successivamente nei primi tre spazi senza mettere l’altro piede a terra e facendo in modo che la piastrella, per l’urto del piede. non vada al di là di ogni singolo spazio; che non si arresti su una delle righe, e che queste egli non tocchi col piede nel dare l’urto all’imbrestia o nel saltellare.

Quando la piastrella entra nel quarto spazio (giovedì) il giocatore vi salta dentro battendo entrambi i piedi; fa poi un salto a gambe larghe mettendo il piede destro nello spazio del venerdì e il sinistro in quello del sabato; appena toccata la terra deve fare un altro salto, girandosi nel frattempo, per ricadere col piede sinistro nello spazio del venerdì e col destro nello spazio del sabato; con un altro salto ritorna nello spazio del giovedì e, rimessosi in posizione di pédi scianca riprende a spingere l’imbrestia prima nello spazio del venerdì, poi in quello del sabato e infine in quello della domenica.

Qui giunto, può omettere l’altro piede a terra e riposarsi un poco.

Riprende ancora a spingere alla pédi scianca l’imbrestia facendole fare lu gjru di lu mundu (il giro del mondo) (n. 8) e riportandola nello spazio della domenica. Qui fa i salti e girate come all’andata, e, gradatamente, respinge fuori l’imbrestia passando per i vari spazi, ma senza concedersi più alcun riposo.

Se riesce tutto bene, il giocatore vince la posta (un pennino, un bottone, un nocciolo di pesca, o di albicocca ecc.); e la perde in caso contrario.

Se il ragazzo non è svelto e pratico, il gioco è meno facile di quel che possa apparire, perché non è agevole misurare bene la forza dell’urto da dare all’imbrestia, né fare il salto incrociato senza perdere l’equilibrio e senza toccare qualcuna delle righe.

 

«Lu ngingì» (non traducibile) o lu mundu (il mondo).

È una variante di la pámpana e meno usato perché presenta minore difficoltà.

Il disegno a terra è come questo:

 

IMMAGINE

 

La numerazione corrisponde anche qui ai giorni della settimana e il piccolo circolo interno al mondo.

L’imbrestia è spinta da destra a sinistra. Basta un solo giro senza riposarsi, ma anche senza alcun salto doppio.

 

[Altri giochi tratti da Giovanni Mari].

 

Mi limiterò ora a segnalare tutti gli altri seguenti giochi che possono vedersi nel MARI G. (op. cit., pagine 25-42).

«A l’ambasciadóri». (All’ambasciatore).

Gioco che si fa fra due schiere di ragazzi. Il gioco simbolizza una richiesta di matrimonio all’uso cavalleresco, una delle due schiere rappresenta lo sposo, l’altro i parenti della sposa. le due schiere si svolge un dialogo (102).

«A l’anéddu». (All’anello).

Un anello è messo occultamente nella mano di una fra parecchie persone in circolo. Quella che ha fatto il giro ricomincia dalla prima persona e chiede: «cal’ha l’anéddu?» l’interrogato indica il nome di uno dei giocatori. Se indovina, chi ha l’anello in mano si alza e va in giro a dispensarlo. Se l’interrogato sbaglia deve dare un pegno (103).

«A l’auci». (Allo spillo).

Si fa con due spilli voltandoli con la punta uno verso l’altro, poi spingendoli avanti con le dita per vedere quale cavalchi l’altro (104).

«A lu baddarócculu». (A la trottola) (105).

«A lu baddu tundu». (A giro tondo) (106).

«A li banditi». (Ai banditi)

I banditi scappano e i carabinieri li inseguono e li cercano da per tutto. Un luogo antecedentemente fissato serve di prigione per i ladri che vengono man mano arrestati (107).

«A babbài imbriacu s’ha bitu lu ’inu». (A babbo ubriaco si ha bevuto il vino).

Un ragazzo si finge ubriaco e gli altri gli vanno dietro gridando in coro le parole su riportate.

«A la bella lavandina».

Una ragazza sta al centro le altre le girano intorno dandosi la mano e cantando una canzoncina.

«A la buscicagiola» oppure «a buscicà». (A scivolare).

Si scivola su macigni lisci.

«A li cabaddi di la paddottula». (Ai cavalli della pallottola).

Cinque ragazzi si dispongono in cerchio a due a due. Previo sorteggio, uno piega il dorso e l’altro gli si mette a cavallo. I cavalieri si lanciano l’uno all’altro una palla. Quelli che fanno da cavallo compiono movimenti, al momento del lancio, perché l’altro cavaliere non riesca a prenderla. Il motivo è questo: se la palla cade a terra si invertono le parti: i cavalieri diventano cavalli e viceversa.

«A l’acu e a l’aùci». (All’ago e allo spillo).

Due ragazzi formano un arco sotto il quale sfilano gli altri pronunziando determinate domande e risposte in base alle quali sono assegnati a due diverse file.

«A l’alburi di la prugna». (All’albero della prugna).

Un ragazzo siede su di un sasso. Un altro curva il dorso, mette il dorso delle mani sulle ginocchia del primo e sulle proprie palme poggia la testa in modo che gli occhi restino chiusi, Deve indovinare e nominare chi dei compagni gli si è improvvisamente messo sopra a cavalcioni, Se non indovina deve sopportare il peso anche di quello che ha erroneamente nominato. Se indovina chi ha saltato passa a far da prugno.

«A Cagliarimpòlta». [A chi se ne prende? = Brilli quanti]

Si tratta di indovinare il numero di nocciole che uno dei ragazzi nasconde nella mano. Se l’interrogato indovina vince le nocciole, se non indovina deve dare la differenza fra il numero detto da lui e quello delle nocciole nascoste.

«A lu cani e a lu macciòni». (Al cane e alla volpe).

I fanciulli fan cerchio tenendosi per mano. Lu cani insegue lu macciòni che fugge dentro e fuori del circolo fra un giocatore e l’altro.

«A cant’ariccj pòlta la mé capra». (A quante orecchie ha la mia capra).

Un ragazzo si china posando il capo sulle ginocchia di un altro che rimane seduto. Questo picchia leggermente coi pugni chiusi sulla schiena dell’altro e pronuncia una domanda in versi alla fine della quale spiega le dita. Se chi sta sotto ne indovina il numero prende il posto del primo (108).

«A li caprioli». (Alle capriole).

«A li castéddi». (Ai castelli).

I ragazzi mettono sopra un piano tre noci in triangolo e sopra di esse un’altra. Poi allontanatisi fino ad una certa distanza concordata, tirano al castelletto un’altra noce, e colui che coglie [colpisce] vince le noci che ha fatto cadere (109).

(109). Il gioco si fa anche con le nocciole, le castagne e i noccioli di pesche.

«A ca t’ha puntu?». (A chi ti ha punto?).

Un ragazzo si mette a sedere ed un altro gli si pone in ginocchio davanti cogli occhi bendati e pone il capo in grembo a quello che si siede. Un altro gli percuote la mano che tiene aperta dietro le reni e domanda:

  • Ca t’ha puntu? (chi t’ha punto?)
  • La lancia
  • Anda e piddala in Francia (vai e prendila in Francia)

«A lu coa coa». (A nascondersi).

Alcuni bambini si nascondono ed un altro li deve cercare.

«A lu coa coa miccalóri». (A nascondere il fazzoletto).

Quando il fazzoletto è nascosto si grida a coloro che lo devono cercare: «ora, ora» cioè, «venite, venite a cercare». Tutti vanno, quando qualcuno è vicino al posto in cui è nascosto il fazzoletto, i ragazzi che non fanno parte del gioco dicono brusgèndi, brusgèndi (bruciando) finché il fazzoletto è trovato.

«A còmu cusgi». (A come cuce).

Una bambina piega la testa sulle ginocchia di un’altra che sta seduta; una delle compagne domanda:

còmu cusgi mamma tóia?.

La prima risponde: – cu l’acu, cu lu filu e cu lu ditali (- con l’ago, col filo e col ditale).

Allora le compagne scappano e si nascondono; alla prima tocca cercarle; se ne scova una e la prende prima che essa tocchi la bambina seduta, quella subentra e si rinnova il gioco.

«A lu cuccarumméddu rittu». (Al fungo ritto).

I ragazzi stanno ritti col capo in terra e le gambe in aria (110).

«A cucc’o ’entu». (Al cucco/cuculo o al vento)

I bambini tengono nascosto in una delle due mani chiuse un oggetto. Uno degli altri, interrogato, deve indovinare in quale mano si trova (111).

«A la cumetta». (All’aquilone) (112).

«Allellellomba».

Fanciulli e fanciulle, dandosi a vicenda la mano, formano un gran cerchio e girando intonano una filastrocca alla fine della quale si inchinano.

«A lu fala fala». (A scendi scendi).

I fanciulli fanno rotolare una moneta su un piano inclinato sino al punto in cui ne viene posta un’altra, vincendo chi più si avvicina (113).

«A la ferrovia».

In una lunga fila di ragazzi, uno attaccato alla giacchetta dell’altro, il capo-fila corre, sbuffa, fischia e muove le braccia a mo’ degli stantuffi d’una locomotiva.

«A la gallina canta».

Le bambine tenendosi per mano girando in tondo cantano una filastrocca.

«A gruci e a griffu». (A testa e croce).

A testa e croce, con due monete (114).

«A lu gjaddittu». (Al galletto).

I ragazzi sono disposti in lunghe file attaccati uno all’altro. Pronunciando apposite frasi dialogate col capofila, il primo giocatore, separato dalla fila, cerca di correre a prendere l’ultimo gjaddittu della fila, che oscilla di qua e di là opponendosi all’inseguitore per impedirgli di prendere il galletto.

«A lu gualdianu». (Al guardiano).

È una variante di gioco con l’imbresti (115).

«A innarià». (A lanciare in aria).

Consiste nel lanciare a gara il più alto possibile pietre o altri oggetti.

«A la lampa e la lampa». (A getta e getta).

Un fanciullo stende la mano supina e, mentre gli altri vi puntano sotto l’indice della mano destra, piano piano recita una strofetta alla fine della quale stringe la mano tentando di afferrare qualche dito.

«A fa li luni di saòni». (A fare le bolle di sapone) (116).

«A li maggjni». (Alle immagini o figurine).

Si tratta di giochi vari che si fanno con le immagini delle scatole di fiammiferi o conficcandole nel terreno con un poco di terra o mandandole per aria.

«A li mandrioli». (Alle piccole dighe).

I ragazzi con dighe di terra trattengono l’acqua piovana che scorre in mezzo alla via; se ne fa un piccolo lago in cui si gettano pezzetti di sughero e barchette di carta; infine con grande chiasso si rompe la diga.

«A mani mòlta». (A mano morta).

Si prende il braccio al polso del bimbo in modo che la mano rimanga sciolta e penzoli e si dimena leggermente (117).

«A li milòni». (Ai meloni da vendere) (118).

«A la mirenda».

I bambini fanno finta di preparare la merenda (119).

«A la miria». (Al bersaglio).

«A li mizinéddi». (Ai bariletti).

Due ragazzi su una china erbosa si abbracciano strettamente e rotolano.

«A lu mummuccòni».

Lu mummuccòni è un insetto, l’afodio. I ragazzi lo prendono, lo rilasciano e gli cantano una filastrocca.

«A li muntunéddi». (Ai mucchietti).

Consiste nel ricercare i denari nascosti in alcuni monticelli di terra (120).

«A la ‘nzunzédda». (Alla figlia preferita).

Si tratta di un rapimento (molto complicato con dialoghi e precedenti rapimenti) che il demonio tenta per sottrarre la figlia preferita dalla madre che la difende più di tutto.

«A l’òccj». (A l’occhio).

Un ragazzo pone in terra una oppure noce ecc. Un secondo, avvicinandovi un’altra sua castagna all’occhio, prende la mira. Se riesce a colpire la castagna del compagno, la vince; altrimenti perde la sua.

«A li paddottuli». (Alle palle di neve).

«A lu palmu». (Al palmo).

Si gioca in due, uno dei giocatori mette un nocciolo di pesca o una pallina vicino al muro. L’altro ad una certa distanza tira la sua. Se la butta ad un palmo, o meno, dell’oggetto avversario, la guadagna, altrimenti perde il proprio.

«A paru e disparu». (A pari e dispari).

Gioco che si fa con le dita come la morra, solo che invece di chiamare i punti si chiama “pari e dispari”.

«A passa lu re di Francia».

I bambini corrono in torno in fila attaccati ai vestiti l’uno dell’altro; due con le mani alzano una porta, perché vi possa passare la fila a testa china, e l’ultimo che forma la coda dev’essere sollecito a fuggire per non rimanere prigioniero al chiudersi della porta stessa (122).

«A passalì». (A passare lì).

È il gioco della cavallina o cavalletta, giocato in vari modi: passalì lòngu (o andendi) e passalì felmu (o aressu); e con contemporanea pronunzia di frasi e strofette più o meno sensate.

«A la petranquella».

È simile all’anello, ma invece dell’anello si adopera una pietruzza.

«A pillicchi pillocche».

Tutti i giocatori posano la punta dell’indice su di un tavolo; quando uno, destinato [indicato] prima, dice pillicchi alzano il dito per poi posarlo di nuovo; quando dice pillocche non lo devono muovere; ma quando dice pillicchi pillocche devono alzarlo alquanto e posarlo subito al posto di prima. Al trasgressore di tale regola viene data una punizione.

«A la piluttédda». (Alla pallinetta).

Si lasciano, di mezzo alle dita pollice ed indice, cadere dei centesimi in terra presso una pallina di fucile. Chi fa cadere il suo centesimo più vicino alla palla gioca per primo. I centesimi dei giocatori si mettono uno sopra l’altro, poi sulle monete si lascia cadere una pallina, se la moneta si rovescia si vince.

«A pultà a cabaddu». (A portare a cavallo).

Un ragazzo monta a cavallo sulle spalle dell’altro ed è per lo più una penitenza per chi ha perduto un altro gioco.

«A la pugnetta».

E una variante di cuccu miau (123).

«A lu pugni e fuggi». (A pugni e fuggi).

Alcuni fanciulli si prendono per le mani formando un cerchio. Un altro gira e rigira attorno ad essi e finalmente percuote con un pugno la schiena di un giocatore, il quale, abbandonate le mani dei compagni, correndo gira attorno al cerchio da una parte, mentre chi lo ha percosso gira dall’altra. Quello dei due che arriva per primo al posto del giocatore percosso vince.

«A la pupusédda». (Alla coccinella).

I fanciulli tenendo fra le dita una coccinella o altro insetto cantano una filastrocca.

«A schelma o schelsa o schelvia». (Allo sputo per la trottala) (124).

«A scianca pillanca».

Vari bimbi stanno a sedere. Uno in piedi passa pronunziando una filastrocca, alla fine della quale batte col pugno sul ginocchio di uno di quelli seduti dicendo «fuori questa». Il colpito si alza e ricomincia il gioco (125).

(125). In una variante i bambini mettono le mani sul tavolo ed uno tocca tutte le dita recitando la filastrocca e battendo alla fine su un dito. [La filastrocca la si legge in Mari, op. cit, pag. 39].

«A scilingati». (A siringate).

Consiste nello spruzzare d’acqua gli avversari con la scilinga (siringa).

«A la scóla». (Alla scuola).

«A siazzu ghere» (126).

(126). È detto anche toccaferro. [Si veda anche nelle note in fondo al libro].

«Siddu sedu sedu bè». (Se siedo siedo bene).

Si bendano gli occhi a una persona alla quale si fa fare il giro costringendola a sedersi man mano sulle ginocchia di questo o quello. Se indovina su chi è seduta vince e cede il posto alla persona di cui ha indovinato il nome (127).

(127). Per i giochi, come si vedrà in seguito per le feste, spesso i ragazzi ripetono i giochi dei bambini e questi imitano qualche volta i grandi.

«A lu sighi sighi». (All’inseguimento).

I bambini corrono ed uno cerca di acchiapparli. Quello che egli acchiappa prende il suo posto.

«A li suldati». (Ai soldati).

Un ragazzo (l’ufficiale) comanda e gli altri (i soldati) devono eseguirne gli ordini di marcia, di corsa ecc. (128).

«A tira tosta». (A tira e molla).

Due ragazzi tengono i capi di una corda e quando un dice tira bisogna che l’altro lasci e quando dice tosta l’altro deve tirare (129).

«A tiruturella».

Le ragazze girando intorno ad una di esse inginocchiata le sollevano il grembiule dicendo strofette.

«A lu tòppa tòppa». (A tocca tocca).

Si gioca in due. Uno posa in terra una pallina (o un nocciolo di pesca) e l’altro cerca di colpirla con la sua. Dopo che ha tirato e non ha colpito lascia la sua dove si è fermata; il primo raccoglie la propria e mira quella del compagno.

«A lu treppédi». (Al treppiedi).

Si piglia comunemente un troncone di vite con un nodo all’estremità e lo si apre in croce. Si ficca nell’apertura una pietruzza e si posa dritto in terra. Il gioco consiste nel rovesciarlo con castagne o con anime di pesca.

 

«A la ’ignarédda». (Alla vignetta).

Le ragazze e i ragazzi spargono della sabbia fingendo una vigna coi suoi filari, piantandovi ramoscelli e pezzetti di legno.

«A lu zilimbrinu».

I fanciulli tenendo fra le dita un cervo volante o l’altro insetto che si chiama «becchino» recitano: «Bola bola zilimbrinu chi t’àggju a dà una rota di mulinu».

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QUESTE LE NOTE OMESSE DAL CORPO DEL TESTO

(100). GASPARE UNGARELLI, Dei giuochi popolari e fanciulleschi specialmente in Bologna in «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», 1893, vol. XII, pag. 316.

 (102). Cfr. «Archivio», vol. XII, pag. 23.

 (103). Cfr. Archivio, vol. XII, pag. 309.

 (104). Cfr. Archivio, vol. XII, pag. 306.

 (105). Cfr. Archivio, vol. XII, pag. 477 e qui, più sopra pagina 112.

 (106). Cfr. Archivio, vol. XII, pag. 313.

 (107). Cfr. Archivio, vol. XII, pag. 469.

 (108). Cfr. Archivio, XII, pag. 34.

 (109). Cfr. Archivio, vol. XII, pag. 34. Il gioco si fa anche con le nocciole, le castagne e i noccioli di pesche.

 (110). Cfr. Archivio, XII, pag. 312.

 (111). Cfr. Archivio, XII pag. 457

 (112). Cfr. Archivio, XII, pag. 311.

 (113). Cfr. Archivio, XII, pag. 466.

 (114). Cfr. Archivio, XII, pag. 25.

 (115). Cfr. più sopra pag. 111 e anche MARI G., op. cit., pag. 32.

 (116). Cfr. Archivio, XII, pag. 28.

 (117). Cfr. Archivio, XII, pag. 316.

 (118). Cfr. Archivio, XII, pag. 34.

 (119). Cfr. Archivio, XII, pag. 315.

 (120). Cfr. Archivio, XII, pag. 466.

 (121). Cfr. Archivio XII, pag. 458.

 (122). Cfr. Archivio, XII, pag. 305.

 (123). Cfr. più sopra pag. 125 e MARI G., op. cit., pag. 39.

 (124). Cfr. Archivio, XII, pag. 114.

 (126). Cfr. Archivio, XII, pag. 464.

 (128). Cfr. Archivio, XII, pag. 473.

 (129). Cfr. Archivio, XII, pag. 307.

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