III.3 – Giochi dei bambini
di Maria Azara
La madre, che segue con ansiosa aspettazione le prime manifestazioni dell’intelligenza del suo bambino, comincia essa stessa a insegnargli i semplicissimi giochetti, che piano piano interessano e poi divertono il bambino.
Nelle stesse ninne-nanne talvolta vi è un gioco di parole, che il bambino finisce per afferrare e allora la mamma sospende al punto giusto la dizione e il bambino la continua storpiando le parole a modo suo e procurandosi i baci cari della mamma.
I giochetti di questo primo periodo sono, si può quasi dire, infiniti, perché l’intelligenza della mamma acuita dall’affetto (e le donne del popolo hanno spesso molto dell’una e dell’altra) trova ogni giorno nuovi mezzi per attirare su di sé l’attenzione del bambino e per divertirlo. Ma vi sono alcuni piccoli giochi che la tradizione tramanda da madre in figlia e che nessuna mamma omette di fare almeno qualche volta con il suo bambino (80).
(80). È per esempio graziosa una strofetta (cfr. MARIELLI Francesco, La Sardegna, Torino, Paravia, 1926; e si veda anche nel testo), che le mamme recitano ai bambini, che, battendo le ciglia e sgranando poi gli occhi, dimostrano di avere molto sonno, ma si impuntano a non volersi coricare. La strofetta ha varianti, a seconda dei vari luoghi ma il contenuto è sempre identico. A Tempio è detta così:
Ambrosciu pédi pal pédi
Ambrogio piede per piede
In cilca di dammi a tarra
Cerca di buttarmi a terra
Pa li pinnuli mi affarra
Per le ciglie mi afferra
E mi pidda li puderi.
E mi piglia i poteri
Ne indico alcuni fra i più comuni.
Lu coricéddu (il cuoricino) oppure Lu córi córi (il cuore cuore).
La madre, mentre il bambino giace nella culla, comincia a far muovere alternativamente l’indice e il medio della mano destra sul bordo della culla, come se si trattasse di due gambe che facessero il passo, e a ogni passetto pronunzia la parola córi (cuore) prima lentamente poi più presto fino a che, dicendo rapidamente coricéddu méu (cuoricino mio) fa saltare le due dita dal bordo della culla al petto e alla gola del bambino e delicatamente gli fa il solletico, rialzandolo, poi, e facendolo succhiare.
Lo stesso gioco si fa anche quando il bambino è più grandicello e sta seduto nel suo seggiolino. Le dita allora, si fanno (camminare) sul bordo della tavola ripetendo le parole e il gesto surricordati.
Suggj Suggj lepparéddu (succhia succhia leprotto).
La madre tiene chiuso nella propria mano il polso del bambino e leggermente stringe, come se pizzicasse piano piano e ripetutamente, dicendo le parole:
Suggj, Suggj, lepparéddu
Succhia succhia leprotto
Aggj tu tanca e cappéddu
Abbi tu tanca e cappello
Suggj, Suggj, lepparéddu
Suggj, Suggj, lepparéddu
Gjà sé’ bèddu lu mé stéddu
Già sei bello il mio bambino
Suggj, Suggj, lepparéddu
Suggj, Suggj, lepparéddu
T’àggju a dà un bèdd’anéddu
Ti darò un bell’anello
Suggj, suggj, lepparéddu
Il verso centrale della terzina varia sempre e contiene ora un augurio, ora un complimento, ora una promessa al bimbo. Anche questo gioco si fa pronunziando, prima, le parole molto lentamente e poi, a mano a mano, affrettandole e accelerando contemporaneamente il movimento della mano, che finisce per fare il solletico al bambino.
Quando poi i bambini già grandicelli lo fanno fra loro il verso centrale è omesso.
Il bambino, che stringe il polso, continua a rendere sempre più forte la stretta e il pizzico fino a che l’altro con uno strappo si sottrae al piccolo supplizio. Si scambiano quindi le parti.
Vince tra i due bambini chi resiste di più al dolore (81).
(81). Cfr. MARI G. op. cit., pag. 41 per qualche leggera variante nel sistema del gioco.
Batti li mani (batti le mani) (82).
In principio è la madre sola che batte le mani con la stessa cadenza con cui pronuncia le parole dei due versi
Batti li mani chi vèni babbài
Batti le mani che viene papà
Batti li mani chi vèni mammài
Batti le mani che viene mammà (83)
(82). Cfr. MARI G., op. cit., pag. 19 con la versione:
Ciocca li mani chi vèni babbài
Ciacca li pédi che vèni Micheli
(83). Veramente «babbài» e «mammài» nell’uso gallurese, anglonese e logudorese significano, più che papà e mamma, un appellativo che si dà a persona anziana di riguardo. Per esempio qualche volta il padrino anziché nònnu è chiamato dal figlioccio babbài. E pure babbài (indicando per lo più il nome non il cognome) si dice anche al parroco o ad altri sacerdoti dove non si usa molto (come nella zona tempiese della Gallura) il don.
Quando, più tardi, il bambino ha imparato a battere insieme le manine, la mamma ripetendo sempre le stesse parole batte le mani e poi le presenta aperte con le palme rivolte verso il bambino che le batte con le proprie.
Più innanzi ancora, quando il bambino è cresciuto, si gioca a scaldi mani, facendo battere d’incontro ora entrambe le mani contemporaneamente, ora l’una, ora l’altra, variando i movimenti e ripetendoli con quanta maggiore velocità è possibile.
Il gioco si fa anche fra ragazzi e le mani, per i ripetuti colpi, si scaldano veramente,
Tai tai.
In principio è una ninna nanna, che la madre canta mentre culla il piccino. Col tempo, invece, il bambino sta seduto sulle ginocchia della madre, che le solleva e le abbassa facendo fare una rudimentale altalena al bambino, che impara più che le parole il suono, e le ripete senza capirle e, al solito, storpiandone la dizione.
Tai tai; lu tai tai
Lu tai murìscu
(Parole intraducibili)
Li fraticéddi di Santu Franciscu
I fraticelli di S. Francesco
Dròmmini bè, màgnani mali
Dormono bene, mangiano male
Tai tai, lu tai tai (84)
(84). Cfr. MARI G., op. cit., pag. 18. Il quarto verso è «Mágnami bè, invéntani mali».
Duru duru
Tai tai
Duru duru
Tai marìscu
Tai marìscu
Li galdiani di Santu Franciscu
I guardiani di S. Francesco
Li galdiani di petra di fócu
I guardiani di pietra di fuoco
Chistu stéddu mi faci lu gjocu
Questo bambino mi fa il gioco
Chistu stéddu mi faci la gjaca
Questo bambino mi fa la porta
Ticca bianca e mendula sbuccjata
Gallina bianca e mandorla sbucciata
Ticca bianca e mendula in fióri
Gallina bianca e mandorli in fiore
Duru duru
Duru duru
Stedducciu minóri
Bambinello
Sarra sarra.
Il bambino è afferrato per le braccia dalla mamma, la quale gli imprime, muovendo le proprie braccia, il movimento che fanno i segatori di tavole. Contemporaneamente essa canta questa filastrocca o altre simili:
Sarra sarra
Sega sega
Spaddi a tarra
Spalle a terra
Spaddi a muru
Spalle a muro
Razzu di muru
Topo di muro
Razzu e gjattu
Topo e gatto
Ponili in fattu
Mettigli (Vagli) dietro
A lu gjattulinu
Al gattino
Un barili di ’inu
Un barile di vino
Un barili di èa
Un barile d’acqua
Pizzichi e carri
Pizzichi e carne
Cun dui barri.
Con due carichi.
Qualche volta le mamme scherzano sul nome del bambino con graziose e talvolta strane poesie (85: Mari Giovanni, op. cit., p. 23). Esempio:
Peppi, Peppi
Peppe, Peppe
Bèdda in cullèttu
Bello in colletto
Bèddu in cuddani
Bello in cullana
No ti la dani
Non te la danno
La bèdda di Castéddu
La bella del Castello
Peppi niéddu.
Peppe nero.
Gjuanni, Gjuanni
Giovanni, Giovanni
Perra di gjanni
Metà di porte
Perra d’imbutu
Metà di imbuto
Gjuanni punziutu
Giovanni puntuto
Mariédda culurita
Mariella colorita
Tu sei bianca com’un fióri
Tu sei bianca come un fiore
Si mi dai lu tó córi
Se mi dai il tuo cuore
Éu t’intrigu la mé ’ita
Io ti consegno la mia vita
Dumani fòcciu lu pani
Domani faccio il pane
E fòcciu la cucciulédda
E faccio la focaccia
Bèdda còmu Mariantoniédda
Bella come Mariaantonietta
Non vi n’è in Caragnani
Non ce n’è in Calangianus
Il gioco di parole sui nomi è ripetuto anche dai bambini fatti grandicelli, i quali passano dagli scherzi sul nome alle zuffe vere e proprie.
A basgià a pizzichi in l’òccj. (Baciare a pizzichi negli occhi)
La mamma insegna al bambino (facendolo prima ella a lui) a prendere leggermente un pizzico di guancia con ciascuna mano e poi a dare il bacio. Sembra che dando il bacio in tal modo si dimostri una particolare e maggiore affezione.
A chist’è lu pòlciu. [A questo è il porco]. (86: cfr. Mari G., op. cit, p. 30)
Si fa mettere la manina del bambino sul tavolo, poi, toccando le dita, si dice a cominciare dal pollice:
Chist’e lu pòlciu (toc. il pol.)
Questo è il porco
Chist’e ca l’ha mòltu (l’indice)
Questo è chi l’ha ucciso
Chiste ca l’ha usciatu (il med.)
Questo è chi gli ha bruciato il pelo
Chist’è ca si l’ha magnatu (a.)
Questo è chi l’ha mangiato
A chistu piccirinéddu no ni l’hani datu (il mignolo)
A questo piccolino non ne hanno dato
Mentre si dice quest’ultima frase si stringe leggermente il dito mignolo.
Nelle zone presso l’Anglona è molto usato il gioco detto A picciccu, picciccu dindà. La mamma appoggia il pugno chiuso sul tavolo, e su questo fa appoggiare i pugni al bimbo, quindi con la mano rimasta libera comincia dal fondo a toccare ciascun dito recitando la canzoncina:
Picciccu, picciccu dindà,
Piccino, piccino, dindà
Pesad a voru e vai a magnà
Alzati a volo e vai a mangiare
A l’istrinta di Pigozzu
Alla stretta di Pigozzu
Mi chi v’è un cani moltu,
Vedi che c’è un cane morto,
Pigliadilu e fàttilu a cassola
Piglialo e fattelo in umido [nel testo “accomodato”]
Danni un pèzzu a tó figliola
Danne un pezzo a tua figlia
Danni un pèzzu a mamma tóia
Danne un pezzo a mamma tua
L’altru magnadìlu tu.
L’altro mangiatelo tu.
Si usa molto anche l’altro gioco detto A coghe coghe pazzichena (cuoci cuoci pasticcio). La mamma appoggia un pugno sul tavolo e il bambino vi mette sopra il proprio.
La mamma recita:
Coghe, coghe, pazzichena
Cuoci cuoci pasticcio
punta de ballena
punta di balena
punta de aldu réu
punta di cardo selvatico
Cottu est su pane méu
È cotto il pane mio
Assazzare, assazzare
Assaggiare, assaggiare
Mentre dice l’ultimo verso fa l’atto di prendere il cibo da questi pugni sovrapposti, che vorrebbero rappresentare la pentola e fa fare così pure al bambino.