Casino di lettura
di Vittorio Angius – a cura di Guido Rombi
Aprì nel 1846, dopo molte opposizioni, nella casa Misorro (Don Gavino), con una biblioteca formata dai libri donati dal conte San Felice ed altri mandati dal cavaliere Don Salvatore Villamarina, che fu eletto a presidente perpetuo. Vi erano anche molti giornali italiani e alcuni francesi. Vi si riunirono presto le persone letterate per leggere e conferire.
Sebbene un po’ più discreta l’opposizione però continuava, poi ‒ essendosi fatte nello stato le riforme politiche, ed avendo i soci cominciato a discutere delle riforme che si sarebbero dovute fare nel paese, ed a segnalare e condannare gli abusi che vi dominavano ‒ si fece più forte il malumore delle autorità civili, ed anche di quella ecclesiastica. Ed era naturale che si sdegnassero contro il coraggio dei signori del casino, che non intendevano riverire la loro autorità, né si mostravano molto persuasi delle loro virtù.
Avendo compreso che ‒ se il casino fosse rimasto aperto ‒ avrebbe diffuso quelle idee, si congiurò per annientarlo e si mandarono alla scoperta alcuni caporioni, un Murino e un Luca Giua, attinenti del canonico penitenziere Muzzetto (creatura di monsignor Capece), con tale dottor Altea. [Nel tempo Tommaso Muzzetto si sarebbe invece distinto come un sacerdote liberale: divenuto vicario capitolare fu autore nel 1862 di una famosa supplica a Pio IX per la rinuncia addirittura del potere temporale].
Quei tre avendo raccolti gli uomini della loro parentela uscirono in pubblico armati di pistole e di coltelli e fecero una protesta pubblica contro alcuni dei membri più influenti del casino e peggio visti dal vescovo, dal prefetto Ena e dall’intendente Pinna-Delitala.
A seguito di queste minacce furono obbligati a fuggire il canonico Antonio Scano, l’assessore Manchia, il segretario della curia Vegni ed il sacerdote Gio. Battista Bacchiddu.
Una volta raggiunto questo primo obiettivo vollero tentarne un secondo contro altri venti, anche loro quasi tutti membri del casino; e lo avrebbero eseguito se le principali famiglie, a difesa dei propri parenti, non avessero minacciato vendetta contro i principali organizzatori.
Quelli stettero allora in attesa di un’occasione propizia per sorprendere alcuni del casino e i loro aderenti. L’opportunità si presentò nell’ultimo giorno del 1848, quando Martino Tamponi con Girolamo della stessa famiglia e il conte di San Felice, contro i quali erano maggiormente accesi gli odii, mentre passavano alle 10 e 3/4 di mattina nella piazza della cattedrale per andare all’ufficio fiscale a sporgere denuncia contro le minacce di morte subite poco prima a voce, furono assaliti da alcuni lì appostati.
Il conte di San Felice fu sottratto alla morte da due amici, Girolamo riuscì a scappare, Martino rimase solo a sostenere con un coraggio inaudito il furore degli aggressori, simili a cani rabbiosi, con una sola pistola. Accortosi infine che avrebbe avuto la peggio, fuggì nella chiesa inseguito dai sicari, e tutto grondante di sangue per le cinque ferite subite andò a rifugiarsi presso l’altare maggiore nell’ora della messa solenne.
Tamponi, mal guarito da quelle ferite, abbandonata clandestinamente la città, andò a Torino per chiedere giustizia, e la domandò con una petizione alla Camera, con la quale accusava del disordine e turbamento pubblico tutte le autorità, l’ecclesiastica, la militare, l’amministrativa e giuridica del paese, fatta eccezione il solo avvocato fiscale, venuto da poco a Tempio.
Come prova accennava che i cavalleggeri già da alcuni giorni erano a conoscenza di quello che doveva accadere, ma che fino a 20 minuti dopo il tragico agguato erano rimasti consegnati in caserma, e che le autorità non avevano preso alcuna misura per arrestare i responsabili e ristabilire l’ordine pubblico.
I gravi avvenimenti politici nazionali [la prima guerra di indipendenza] impedirono al governo di far luce su questo fatto e di risalire ai veri artefici di questi disordini che disturbarono la tranquillità di Tempio, addolorandola con alcune uccisioni; e pertanto siccome non risultano accertati i mandanti ufficiali, noi non diciamo altro che possa ledere il loro onore, soprattutto di colui che siede nella chiesa gallurese padre e pastore del popolo, e che deve supporsi mite, mansueto e caritatevole, come dovrebbe essere un vescovo.
Dopo questi avvenimenti il casino restò deserto, e fu chiuso; cosicché i suoi avversari, se intendevano con la violenza raggiungere questo fine, poterono dirsi felici di aver avuto successo in questo modo. Così accade dove il governo è mal servito dai suoi funzionari.
Emigrati da Tempio o decisi a non farne più parte quelli che erano stati malvisti, il casino di Tempio fu riaperto con una presidenza e direzione di carattere diverso della prima, come si può vedere nel calendario generale.