OLBIA
di Alberto La Marmora
Itinerario dell’isola di Sardegna
Torino 1860
traduzione e cura di Maria Grazia Longhi
Nuoro, Ilisso, 1997 (Bibliotheca sarda, 16)
in francese:
Lo scenario è animato da un roccione granitico isolato, che sorge in mezzo alla pianura e sul quale rimangono i ruderi dell’antico castello Pedreso, detto in altri tempi Pedrès o Detrès. La roccia in questione forma alla sommità tre prominenze, sulle quali si trova ancora una torre quadrata alta e abbastanza ben conservata; le altre cime erano ugualmente fortificate e provviste di mura.
Ai suoi piedi, a settentrione, scorre il torrente detto Padrogiano, la cui foce si trova nel porto stesso di Olbia: è questa una delle principali cause dell’insabbiamento e dell’interramento del porto. Non lontano dalla base del castello Pedreso passa la strada che porta a Posada lungo la costa orientale. Il cammino lascia ad est, sulla stessa costa, il capo Coda Cavallo, i porti naturali di San Paolo e della Taverna e più lontano le due isole di Tavolara e Molara. Infine, è ancora ai piedi di questo castello che passa il cammino che conduce direttamente da Olbia ad Alà.
Il nome più antico, e dirò addirittura il più classico della città nata in questo posto, è quello di Olbia (“La bella”). Secondo tutti gli storici che hanno parlato della sua origine, a partire da Pausania, sarebbe stata fondata da Iolao; lo scrittore greco, dopo aver fatto menzione di Norace e della sua colonia in Sardegna, aggiunge «Questa popolazione (di Norace) fu seguita da un’altra comandata da Iolao e composta di Tespiesi, ai quali si erano aggiunti alcuni popoli dell’Attica. Essi fondarono le città di Olbia e di Agylé. Si vedono ancora oggi in Sardegna dei luoghi che portano il nome di Iolei e i cui abitanti rendono grandi onori a Iolao».
[… In seguito i Cartaginesi conquistarono l’Isola e] si può supporre che il regime cartaginese fosse divenuto più tollerabile per gli indigeni, dato che questi ultimi si schierarono con loro contro i Romani. D’altro canto vediamo che gli stessi Cartaginesi adottarono il culto degli eroi e dei semidei dell’Isola, poiché Iolao, l’eroe sardo menzionato sopra, fu invocato e preso come testimone da Annibale nel famoso trattato con Filippo di Macedonia (Polibio, VII, 9).
Nell’anno di Roma 499, Lucio Cornelio Scipione sconfisse l’ammiraglio cartaginese Annone nelle acque di Olbia. Quest’ultimo restò ucciso e le sue spoglie mortali, trasportate nella città, vi furono sepolte in gran pompa.
Nel 697 di Roma Quinto Tullio, fratello di Cicerone, risiedeva a Olbia come legato di Pompeo. Tra le diverse lettere che l’illustre oratore gli inviava, ce n’è una nella quale gli consiglia di fare attenzione al clima insalubre «anche durante l’inverno», e ciò sembra provare che la località fosse già reputata tanto malsana quanto lo è oggi. Infatti Olbia è ancora considerata uno dei luoghi dell’Isola in cui la malaria è più temibile. […]
Ciò non ha impedito che anche in questi ultimi anni si siano rinvenuti degli oggetti importanti, tra l’altro gioielli e soprattutto pietre incise che sono, in generale, le più belle e le più raffinate tra quelle ritrovate fra le rovine delle antiche città dell’Isola. Questo prova che le arti fiorivano in special modo a Olbia, e denota la ricchezza e il lusso dei suoi antichi abitanti.
La chiesa è adesso officiata solo due volte all’anno; per il resto del tempo è frequentata solo da una moltitudine di uccelli simili a piccioni, piccole cornacchie (Corvus monedula), rondini e altri volatili diurni e notturni. Così il Valery, quando vi entrò, la paragonò a una voliera «tanti erano gli uccelli che facevano un chiasso spaventoso coi loro gridi e con lo sbattere delle ali nel tentativo penoso di uscire dalle lunghe e strette finestre».
Il colto viaggiatore […] forse non dice completamente il vero quando attribuisce alla chiesa un’origine pisana. Stando infatti a quanto afferma lo storico Fara questo tempio cristiano, o piuttosto questa basilica, risalirebbe a un’epoca molto più remota.
La chiesa è costruita con pietre lavorate, o meglio tagliate in cantoni nel granito del luogo e dei dintorni, tenute con la calce; nell’insieme dell’edificio è pesante e tetro.
Eccone una veduta presa in passato con la camera chiara:
Dopo quest’epoca, e cioè dopo le devastazioni operate nell’Isola e soprattutto sulla costa dai Saraceni, il nome di Fausania scomparve, il che sembra indicare che la città non si riprese tanto da esser soggetta a nuove distruzioni.
È solo in seguito che comincia a comparire col nome di Civita, in esclusiva relazione alla presenza del seggio episcopale o in documenti di carattere religioso, in quanto dovette chiamarsi invece Terranova il sito della residenza dell’autorità laica […] molto probabilmente è in questo luogo che dimoravano anche i giudici di origine sarda. […]
All’epoca dei giudici Terranova doveva essere una città, ed è questa, penso, l’origine attendibile del nome alternativo Civita dato al luogo per antonomasia; in seguito, fu ridotta alla condizione di semplice villaggio, perché cessò di essere la residenza dei giudici di Gallura, e più tardi dei vescovi omonimi. Alle sue disgrazie bisogna aggiungere le devastazioni subite da parte dei Genovesi e dei Pisani che si disputarono spesso il suo territorio, e infine quelle provocate dalle frequenti incursioni dei pirati musulmani.
Nel 1138, volendo il papa Innocenzo II risarcire l’arcivescovo di Pisa dei diritti da lui perduti in Corsica, mise le chiese di Galtellì e di Civita sotto il suo dominio; di conseguenza egli divenne il loro metropolita. […] Poiché con bolla di Giulio II del 3 giugno 1506 il vescovado di Civita fu unito a quello di Ampurias, il suo pastore cessò di risiedere a Terranova; l’unione sussiste ancora ai nostri giorni.
Quanto ai giudici di Gallura mi limiterò a dire che l’ultimo di questi piccoli sovrani residenti a Terranova fu Nino Scotto, signore pisano, che ereditò il giudicato nel 1280 e che morì nel 1298, secondo gli storici più accreditati. Questo principe lasciò solo una figlia, come dice lo stesso Dante:
“Quando sarai di là dalle larghe onde,
Dì a Giovanna mia che per me chiami
Là dove agl’innocenti si risponde.
Non credo che la madre sua più m’ami,
Poscia che trasmutò le bianche bende,
Le quai convien che, misera! ancor brami.
Per lei assai di lieve si comprende,
Quanto in femmina fuoco d’amor dura,
Se l’occhio o ‘l tatto spesso nol raccende.
Non le farà sì bella sepultura
La vipera che ’l melanese accampa,
Com’avria fatto il gallo di Gallura.”
Qualunque sia l’interesse che questi bei versi fanno nascere per il giudice Nino, di cui al grande poeta piace anzitutto porre in rilievo la nobiltà di carattere, non ci si potrebbe impedire di perdonare alla vedova di aver sostituito il biscione dei Visconti al gallo di Gallura, per quanto glorioso e onorato possa essere apparso all’orgoglio offeso del primo marito: certamente il castello di Milano doveva sembrare a Beatrice d’Este una residenza preferibile al torrione di Terranova.
È dopo la morte di Nino che la sua terra cessò di essere governata dai giudici. All’indomani, infatti, i Doria si impadronirono di una parte delle sue province e i Visconti di Milano, che ancora per qualche tempo si fregiarono del titolo di giudici di Gallura, non poterono rimanervi. Infine tali pretese cessarono nel 1447 con la morte di Filippo Maria Visconti, che non lasciò eredi legittimi, e allora l’eredità di Nino in Sardegna, tranne alcuni centri occupati ancora per qualche tempo dai Doria, toccò di diritto e di fatto ad Alfonso, re d’Aragona.
Esistono ancora oggi i resti dell’antico castello di Terranova, compreso nell’abitato attuale, verso nord e vicino alla costa: era un edificio quadrato, abbastanza spazioso, con torri, una delle quali aveva una porta verso il mare. Si tratta evidentemente di una costruzione medioevale, ma è difficile stabilire se risalga in parte ai tempi della città di Fausania, oppure all’epoca in cui sulle sue rovine fu edificata Terranova.
Il castello e forse anche il borgo furono fortificati nel 1322 dai Pisani al pari del castello Pedreso. Nel 1323 il luogo fu assediato dall’ammiraglio Carroz che si impadronì solo di una torre, probabilmente isolata rispetto al castello. Nel 1324 i Pisani lo cedettero agli Aragonesi. Nel 1335 il borgo e il castello furono presi dalle forze congiunte dei Genovesi, dei Galluresi e dei Doria.
Nel 1553 l’abitato fu messo a ferro e a fuoco dal celebre corsaro Dragut.
Nel 1710, durante la guerra di successione, il conte di Castillo vi sbarcò con quattrocento uomini che furono sconfitti vicino a San Simplicio dalle truppe dell’ammiraglio Norris – mille uomini – che combatterono a terra. Schiacciati dal numero soverchiante dei difensori, gli Spagnoli dovettero capitolare e consegnarsi prigionieri. Nel 1717 un battaglione di truppe austriache forte di 420 uomini sbarcati sulla costa di Olbia, essendosi avventurato in una gola dell’interno, fu costretto alla resa da sessanta miliziani di Gallura.
Le case sono costruite come la chiesa di San Simplicio con cantoni di granito estratti sul posto o nei dintorni; questa roccia assume una colorazione rosata simile al più bel granito dei monumenti egizi.
FONTI DELLE ILLUSTRAZIONI
Disegni, dipinti e litografie
Immagine nel libro
Craveri, Golfo di Terranova, 1739
Rubens D’Oriano, Ricostruzione di Olbia antica
William Light, 1829. (Gli acquerelli di William Light sono stati ritrovati dall’olbiese Aurelio Spano; un articolo ampio e ricco di interesse gli ha dedicato l’archeologo e studioso Prof. Marco Agostino Amucano: si veda QUI. Su William Light QUI).
Cartoline e foto dell’800 e primi ’900
Collezione Marella Giovannelli
Foto contemporanee
Savatore Zizi – Flickr, Luca Farneti – Flickr, Shardan – CC by-SA wikimedia commons, museo archeologico di Olbia, Mauriziolbia – CC BY-SA 4.0 wikimedia commons,
G. Padula – Flickr, Christophe Dayer – Flickr, Sascha Fiori – Flickr, Aurelio Candido – Flickr
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