L’invenzione della Costa Smeralda:

la costruzione di un simulacro come embrione di un’inedita realtà urbana

di Lidia Decandia

 

in «Archivio di Studi Urbani e Regionali, XLVIII, 118, Franco Angeli Editore 2017

Per gentile concessione dell’Autrice e dell’Editore

Introduzione

«Comincerò con la seguente ipotesi: la società è stata completamente urbanizzata» (Lefebvre, 1970, p. 7). Così Lefebvre, recentemente ripreso da Brenner (2014, p. 17), annunciava nel 1970 una rivoluzione, che allora egli vedeva allo stato virtuale, ma che avrebbe portato, nel giro di solo pochi decenni, a trasformare l’intero mondo in una realtà completamente urbanizzata. Nel partire da questa ipotesi nel suo quanto mai attuale e interessante testo Lefebvre mostra come gli effetti prodotti dalla rivoluzione industriale sarebbero arrivati a un tale punto critico da produrre una vera e propria ristrutturazione socio-spaziale di scala planetaria, determinata da un processo di riorganizzazione del capitale[1]. Una riorganizzazione che avrebbe intessuto in un unico «tessuto urbano […] diversi luoghi, territori e scale» (Lefebvre, 1970, p. 10) comprese quelle zone «situate molto lontano dai tradizionali centri delle agglomerazioni, dell’urbanesimo e della vita metropolitana» (ibid.).

In questo senso Lefebvre, tuttavia, non intendeva riferirsi ad un processo di espansione «del regno del costruito delle città» (ibid.) che avrebbe portato ad un’unica area urbanizzata senza interruzioni, ma piuttosto all’affermazione del predominio di «una inedita realtà urbana» (ibid.)[2] sulla campagna.

Una realtà urbana insieme amplificata ed esplosa che – come lui stesso afferma – avrebbe perso con questo movimento i tratti che l’epoca anteriore le attribuiva; totalità organica, pertinenza, immagine esaltante, spazio misurato e dominato dagli splendori monumentali. Essa si sarebbe popolata dei segni dell’urbano nella dissoluzione dell’urbanità (ivi, 20) divenendo «stipulazione, ordine repressivo mediante segnali, codici sommari di circolazione (percorsi) e di riconoscimento» (ibid).

In questo senso, sviluppando il pensiero di Lefebvre, in una direzione un po’ diversa, Merrifield (2014), avrebbe in seguito interpretato più specificatamente questo processo di urbanizzazione planetaria come una strumentalizzazione e simultanea trasformazione della precedente campagna all’interno di una maglia non integrata in modo uniforme e fittamente urbanizzata in cui gli spazi precedentemente marginali, sussunti all’interno di questo mondo urbano, sarebbero diventati «parti integrali della produzione post-industriale e della speculazione finanziaria, inghiottite da una fabbrica urbana in continua espansione» (ivi, p. 125) capace di corrodere «costantemente i residui della vita agraria», di mangiare «avidamente qualsiasi cosa e ovunque, prima di tutto per aumentare la ricchezza e accumulare capitale» (ibid.).

È all’interno di questo sfondo problematico che intende collocarsi questo saggio dedicato ad una vicenda molto particolare: quella della fondazione della Costa Smeralda. Un particolarissimo insediamento turistico, realizzato proprio negli anni ’60 – periodo in cui Lefebvre aveva visto nascere i primi embrioni virtuali di questa vera e propria rivoluzione urbana – in Gallura: una sub-regione storica del Nord Sardegna.

Obiettivo del saggio è mostrare come l’invenzione di questo insediamento, inteso come portato di un più ampio processo di riorganizzazione economica e territoriale planetaria determinato dal processo di implosione-esplosione della città, abbia contribuito a far entrare questo territorio, in cui non era presente alcuna città, intesa nell’accezione classica del termine, all’interno di questo inedito orizzonte urbano.

Nel rileggere all’interno di questo quadro interpretativo la già nota vicenda dell’invenzione di questo insediamento, il saggio intende ricostruire le operazioni e gli strumenti attraverso cui questo lembo di terra, scollato dal resto del territorio e riplasmato per rispondere ai bisogni e ai desideri di una nascente società urbana, venga sussunto all’interno di questa inedita dimensione planetaria, contribuendo in questo modo a innescare la trasformazione degli assetti fisici e sociali di tutto il territorio gallurese.

Per comprendere meglio i contorni di questa vicenda, la fondazione di questo particolare insediamento d’invenzione viene riletta inserendola all’interno del più ampio processo di ristrutturazione capitalista in atto in quegli anni che stava determinando il passaggio da una società industriale

«ad una società burocratica di consumo pilotato» (Lefebvre, 1970, p. 10). È proprio in quest’ambito, infatti, che si creano le premesse perché alcuni territori, precedentemente emarginati o remoti, possano diventare, infatti, grazie ad un processo di reinterpretazione e ricodifica delle loro stesse peculiarità storico-ambientali, materiali preziosi per supportare la continua agglomerazione del capitale, all’interno di grandi città mondiali (Brenner, 2014).

[1] Secondo Lefebvre (1970) il processo di industrializzazione, arrivato al suo punto critico, avrebbe determinato un processo di implosione-esplosione tale per cui, come lui stesso afferma, «la non-città e l’anti-città conquisteranno la città, la penetreranno, la faranno esplodere, e di conseguenza estendere smisuratamente, sfociando nell’urbanizzazione della società, nel tessuto urbano che ricopre i resti della città anteriore all’industria» (ivi, p. 20).

[2] Più che concepire l’urbano come uno specifico assetto spaziale in contrasto con la periferia, la campagna e altre presunte aree non urbane Lefebvre (1970) sosteneva, infatti, che l’urbanizzazione capitalistica avrebbe «formato una maglia irregolare di varie densità, spessori ed attività» (ivi, p. 1) che si sarebbero diffuse su tutta la superficie mondiale.

1. Gallura: i caratteri di un territorio marginale

La Gallura costituisce una sub-regione storica della Sardegna situata nella parte nord-orientale dell’isola. L’elemento che contribuisce a strutturare, in maniera determinante, l’unicità di questo territorio è il carattere pervasivo che assume la dimensione ambientale. In questo territorio, infatti, la bassissima densità insediativa e la grande estensione delle superfici dei territori comunali conferisce a questa regione un particolare carattere di vuotezza che connota in maniera preponderante il suo aspetto fisico[1].

In questo territorio la natura si presenta in forme “prepotenti”, drammatiche, per certi aspetti cariche di tensioni, veicola sensazioni forti. La stessa struttura morfologica dà origine a paesaggi di enorme suggestione e di grande solitudine: vaste distese, potenti e suggestionanti forme di rocce, bucate dalle elementari forze della natura, picchi perentori lavorati dal vento e dall’atmosfera. Con la drammaticità di queste forme naturali l’uomo ha dovuto fare i conti per costruire, nel tempo, la propria struttura d’insediamento.

[1] I comuni della Gallura sono caratterizzati da grandi estensioni territoriali: 130 kmq di media (le più grandi estensioni dell’isola) e da bassissima densità. Storicamente questo territorio, che costituisce gran parte della provincia di Olbia-Tempio, era il territorio provinciale meno densamente popolato d’Italia. Nel primo censimento del 1861 erano presenti 9,7 ab/kmq. Attualmente la densità è di 44 ab/kmq e la provincia di Olbia-Tempio è al 107° posto per densità di residenti sulle 110 province italiane. Al proposito, cfr. Cannaos (2013).

La montagna del Limbara, con i suoi aspri rilievi, costituisce l’elemento dominante, la struttura immanente, che segna sia da un punto di vista ambientale che storico culturale il carattere di questa regione. Da questa montagna nascono, infatti, i corsi d’acqua che scorrono in tutto il territorio, formando una ramificata ragnatela superficiale che costituisce la matrice dell’ambiente di vita e dell’insediamento. I principali, che alla sorgente sorgono incassati fra le pareti granitiche, segnano, nel prendere un andamento più sinuoso, grandi valli e pianure per arrivare al mare dove articolano profonde insenature costiere dette “rias” (Papurello, 2001, p. 17). Oltre a costituire uno scrigno prezioso di specie animali e vegetali, la montagna del Limbara costituiva il perno della struttura insediativa attorno a cui si dipanava l’organizzazione dell’intero territorio gallurese. Un territorio caratterizzato sin dall’800 da un’armatura di piccoli nuclei collegati fra di loro da una ragnatela di percorsi che, se si escludono Terranova, Longone (le odierne Olbia e Santa Teresa di Gallura) e la Maddalena, erano disposti in gran parte a corona della montagna[1]. Questi nuclei costituivano i perni di vasti territori, estesi, quasi sempre sino al mare, popolati esclusivamente dalla bianca e rarefatta presenza degli stazzi: dimore dei pastori-contadini e perni di una struttura poderale a maglie larghe, caratterizzata da una forma di popolamento sparso[2]. È proprio uno di questi territori localizzato vicino al mare, che alla fine dell’800 vede emergere il piccolo nucleo di Arzachena[3], a entrare negli anni ’60 nell’orbita degli interessi del capitalismo industriale italiano[4] e, soprattutto, di quello finanziario internazionale.

 

[1] «La Gallura – così documenta Angius nel 1841 – componesi di una città, di tre borghi e cinque villaggi. L’unica città è Tempio per il recente privilegio di municipio concedutogli da Carlo Alberto. I borghi sono Terranova, che riteneva il titolo di città sino a dopo la metà del secolo XVII, Longone che ristabilivasi verso il 1810 da molte genti diverse, e la Maddalena che cominciò ad avere un popolo verso il 1780, crescendo quindi rapidamente sopra quel numero che consentivano le sussistenze del suo territorio. I villaggi sono Calangianos, Agius, Bortigiadas, Luras e Nuches, che sono antichissimi nel Gemini, come lo è pure Tempio» (Angius, 1841, p. 503). Se Angius riconosce a Tempio lo status di città, concessogli da Carlo Alberto, non dobbiamo pensare che a questo termine corrisponda l’accezione classica che noi gli attribuiamo. A Tempio risiedevano, infatti, solo 4.500 abitanti (Angius, 1841, p. 1661): più che una città, dunque, un paese poco più grande degli altri.

[2] Questa forma di popolamento sparso, che costituisce una forma specifica del territorio gallurese, ha origine nel XVII secolo quando contadini e pastori, residenti sino a quel momento nei centri dell’alta Gallura, si allontanano verso la costa nel tentativo di sfruttare i vasti spazi vuoti dei territori costieri. Questi pastori, che originariamente esercitavano una pastorizia seminomade, appoggiata a degli insediamenti stagionali, cominciano lentamente a stanziarsi in queste aree a creare delle strutture insediative stabili: gli stazzi, che vanno a costituire i perni della gestione derivante da una presa di possesso individuale della terra. All’interno di queste estese proprietà, esito di questo processo di appropriazione dei terreni collettivi dei “Salti” (così erano denominate le terre indivise destinate al pascolo) questa figura ibrida di pastore-contadino comincia a esercitare un’agricoltura e una pastorizia di mera sussistenza. Sul popolamento degli stazzi cfr. in particolare Le Lannou (1941).

[3] Nel territorio in cui sarà realizzata, come vedremo, la Costa Smeralda sino all’800 non era presente un vero e proprio centro urbano, ma quella forma di popolamento diffuso, comune al resto della Gallura, caratterizzata dagli stazzi. È solo in questo secolo, infatti, che attorno alla chiesa campestre di Santa Maria della Neve, comincia a emergere per aggregazione di vecchi stazzi e di nuove costruzioni, un piccolo nucleo abitato, che agli inizi del ’900 raggiunge i 2.569 abitanti (Columbanu, 2004) e che solo nel 1922 si stacca dal Comune di Tempio per diventare comune autonomo.

[4] Il primo scopritore del territorio di “Monti di Mola”, così era chiamata l’area dell’attuale Costa Smeralda, fu Giuseppe Mentasti, ex giornalista, genero del proprietario dell’Industria San Pellegrino che per primo «fu disposto a spendere soldi per un’isola che non valeva nulla, in cui non si poteva piantare nulla» (Piga, 2012, p. 26). L’isola era quella di Mortorio: una pietraia inospitale situata di fronte ad una delle più belle baie dell’attuale Costa Smeralda.

2. Scoprire e banalizzare un territorio: da pietra scartata a materiale prezioso all’interno della nuova economia della vacanza

In questo territorio collegato con l’interno della Gallura da strade difficili, quasi impraticabili, e caratterizzato, soprattutto nella parte più vicina al mare, da terreni poverissimi e improduttivi, giungono, indirizzati da alcuni esponenti della politica regionale e nazionale[1]: John Duncan Miller, rappresentante della Banca Mondiale in Europa; Giséle Podbielski, economista all’Onu; Ronald Grierson, Direttore della Banca di investimenti SG Warburg & Co.; Patrick Guinnes, industriale della birra; Roy Tomson, magnate della stampa inglese (Gelsomino, 2012; Piga, 2012). Al loro arrivo scoprono una sorta di vero e proprio “paradiso selvaggio”. «Fu una vera e propria rivelazione – così racconterà Giséle Podbielski in una intervista – era una terra di incredibile di bellezza e di solitudine e allo stesso tempo così vicina al resto dell’Europa, poche ore da Nizza» (cit. in Gelsomino, 1912, p. 39). Da subito essi intuiscono che da quel paradiso avrebbero potuto trarre, proprio mettendo al lavoro le sue straordinarie peculiarità, immensi profitti.

Subito il gruppo originario decide di coinvolgere Karim al-Husayni, Aga Khan IV – un principe ismaelita di 24 anni appena laureato ad Harvard perfettamente inserito nelle reti della politica e della finanza internazionale (Gelsomino, 2012). È lui che diventerà il principale azionista e coordinatore dell’intera operazione.

L’arrivo nelle coste del Nord Sardegna di questi importanti esponenti del capitalismo industriale e finanziario non era evidentemente un fatto casuale, così come raccontano le vicende favolistiche che narrano le origini della Costa Smeralda (Bandinu, 1980), ma si inseriva all’interno di un più ampio processo di riorganizzazione economica che stava investendo l’intero mondo occidentale. In quegli stessi anni, infatti, l’economia industriale, ormai vicina – come osserva Lefebvre (1970) – al «punto critico» comincia a capire che, utilizzando le possibilità di iperstimolazione sensoriale e simbolica offerte dai nuovi mezzi di comunicazione, avrebbe potuto trarre profitti dalla capacità di amministrare e sfruttare il desiderio rendendolo godimento, per farlo diventare produttivo e trarne quindi profitto (Recalcati, 2011; Magatti, 2012)[2].

Fra i diversi desideri a cui viene data la possibilità immediata di un godimento acquisiscono particolare significato quelli a cui la stessa forma di organizzazione del territorio, determinata dai processi di industrializzazione, non offriva più un orizzonte espressivo: da un lato il desiderio del festivo che costituiva uno degli elementi cardine della vita della città preindustriale, ridotto ai minimi termini dai processi di razionalizzazione, ingegnerizzazione e riorganizzazione del tempo operati dalla nuova macchina produttiva; dall’altro il vagheggiamento di quella natura che la civiltà industriale proprio attraverso la sua comparsa aveva contribuito, con l’implosione della città, lo spopolamento e lo sfruttamento della campagna a de-strutturare (Lefebvre, 1970).

Per rispondere a questi desideri il sistema produttivo, comincia a pensare di offrire dei surrogati: degli ambienti spettacolari in cui sostituire i luoghi da vivere ed esperire con degli sfondi da contemplare (Debord, 2002).

In particolare il desiderio del festivo, che costituiva uno degli elementi fondamentali del diritto alla città, considerato come «momento di partecipazione della comunità alla spesa lussuosa della vita» (ivi, p. 128) in cui dissipare per costruire beni relazionali, comincia ad essere reso godimento attraverso l’invenzione della vacanza (Bandinu, 1980)[3].

Per rispondere a questo desiderio da un lato si procede col delimitare rigorosamente, attraverso l’invenzione del diritto al tempo libero, lo spazio giuridico della festa moderna, e dall’altra, una volta deciso quali desideri dovessero diventare bisogni, si creano ambienti banalizzati in cui offrire immagini da consumare e in cui canalizzare, traendone evidenti profitti, alcune di quelle energie e di quei capitali simbolici che si esprimevano nel desiderio della festa e che, con la scomparsa delle società tradizionali, non trovavano più espressione nella città consolidata (ibid.). Mentre nella città continua, infatti, a permanere il tempo ordinario del lavoro e della produzione, con il conto complessivo dei suoi costi e con la sua conflittuale aderenza a una prassi storica, il tempo mitico della festa, confezionato come blocco di tempo interamente predeterminato, viene traslato in un altrove: esce dalla città e viene accolto dal territorio che comincia a popolarsi dei «segni dell’urbano nella dissoluzione della stessa urbanità» (Lefebvre, 1970, p. 20).

Allo stesso modo il desiderio di natura che la società industriale aveva contribuito a devastare viene amministrato attraverso la conservazione di antichi quadri di paesaggio che vengono mantenuti artificialmente per rispondere ai bisogni di un uomo urbano in fuga, a caccia di immagini archetipe di un passato che non è più e che, in queste forme, non è forse neanche mai esistito[4].

È proprio per rispondere a questo desiderio di un fiabesco mondo perduto – espressione di un modello artificiale creato a tavolino – che si creano ambienti in cui gli spazi della natura cominciano a trasformarsi da spazi di esperienza di produzione e di vita in scenari, popolati da tracce di «una vita finita, di una tradizione abbandonata, di una natura spenta e inodora» (Alvaro, 1958). Non più spazi da vivere, dunque, ma da contemplare come una sorta di territorio videomostrato in cui spettacolarizzare la storia e derealizzare la realtà.

È in questo nuovo quadro produttivo che prende l’avvio quel processo «estensivo e intensivo di banalizzazione» (Debord, 1967, p. 132) dei territori che annulla contemporaneamente i due termini della contrapposizione città-campagna e li sostituisce con una «eclettica mescolanza dei loro decomposti» (ivi, p. 136).

All’interno di questo processo sono proprio le diverse qualità dei luoghi, svuotate tuttavia del loro senso, ad assumere un ruolo importante. Quelle peculiarità, infatti, esito delle relazioni che gli uomini avevano stabilito con i propri ambienti di vita, rese autonome, staccate dalla vita che le aveva prodotte, cominciano, come le bucce staccate dai frutti, a diventare proprio quegli sfondi in cui l’uomo urbano, ormai saltellante tra più dimensioni, può trovare una risposta banalizzata a ciò che non trova più nella città come nella campagna. Una volta trasformate in immagini (Baudrillard, 1976) queste diverse realtà, confezionate come merce da vendere al miglior offerente, vengono infatti immesse all’interno del nuovo circuito estetico veicolato dai media e utilizzate come fonti preziose all’interno di questa nuova economia allo stato nascente.

I segni e le forme che avevano caratterizzato questi diversi ambienti, svincolati dall’esigenza arcaica che avevano di designare qualcosa, diventano in un certo senso liberi ed entrano in un nuovo gioco combinatorio di commutazione generale in cui poter essere scambiati fra loro, senza che tuttavia si scambi nulla di reale. In questo modo i paesaggi, sino a questo momento esito di storie singolari, che facevano sì che ogni segno potesse rimandare a dei significati, derivanti da specifici orizzonti economici, culturali e sociali, si trasformano in quinte, prive di qualsiasi rimando o spessore. «Finiti i referenziali […] che zavorravano […] il segno di una specie di carico utile, di gravità» (ivi, p. 17) essi diventano liberi e possono poter essere liberamente utilizzati come materiali, come risorse, da giocare all’interno di quella economia del consumo e dello spettacolo.

[1] Come ricostruisce Gelsomino «la storia della Costa Smeralda comincia con una telefonata del consigliere regionale […] l’arzachenese Giovanni Filigheddu, democristiano, uno dei più illustri rappresentanti della Gallura […]. Fu lui che, saputo dell’arrivo in Sardegna di Jonn Miller, emissario della Banca Mondiale incaricato a esaminare un progetto di finanziamento in Sardegna, a suggerirgli di guardare anche quella parte della costa. Ad annunciargli l’arrivo di Miller in Sardegna era stato Gabriele Pescatore, presidente della Cassa del Mezzogiorno» (Gelsomino, 2012, p. 38). Già due anni prima, nel 1959, tuttavia l’idea di avviare una valorizzazione turistica di questo territorio era stata l’oggetto di un sopralluogo che aveva visto protagonisti, insieme all’assessore regionale, l’On.le Antonio Segni, allora presidente del Consiglio, e Giorgio Filigheddu, Sindaco del Comune di Arzachena (ibid.).

[2] Come osserva Recalcati (2011, pp. 43-45), nel commentare il pensiero di Lacan, «il discorso capitalista venuta meno l’esperienza del limite che aveva il compito di articolare il desiderio presente nelle società tradizionali, verso il raggiungimento di un altro irraggiungibile, di un vuoto impossibile da raggiungere, incarnato da un Dio o dalla stessa figura del padre, sfrutta lo smarrimento del soggetto, privo di bussola e di ancoraggi simbolici, per offrirgli, attraverso la produzione degli oggetti di consumo, la possibilità immediata di un godimento. La credenza che anima il discorso del capitalista è doppia: è la credenza che il soggetto sia libero, senza limiti, senza vincoli, agitato solo dalla sua volontà di godimento, inebriato dalla sua volontà di consumo, ma è anche credenza che l’oggetto che causa il desiderio […] possa confondersi con una semplice presenza, con una Cosa, con una montagna di cose […]. L’abbaglio sostenuto dal discorso capitalista consiste nel fare brillare illusoriamente l’oggetto, non per rendere possibile la soddisfazione, ma per mostrare il carattere avido, impossibile da soddisfare della spinta a godere […] il discorso capitalista si regge sulla fede idolatrica e feticistica nei confronti dell’oggetto di godimento. Si tratta della fede nell’oggetto come rimedio al dolore di esistere […]. La fede nell’oggetto che il discorso capitalista alimenta astutamente definisce il carattere artificiosamente salvifico dell’iperconsumo. La salvezza dall’angoscia dell’esistenza e dalla fatica del desiderare viene perseguita non per la via classicamente religiosa dell’abbandono delle cose terrene, ma per quella di una consumazione che sembra non conoscere più limiti […]. L’astuzia fondamentale del discorso capitalista consiste dunque nell’intrecciare la dimensione illusoria di salvezza dell’oggetto con la sua vacuità di fondo. Questo intreccio alimenta la macchina del discorso del capitalista come macchina del godimento. Il carattere vacuo dell’oggetto – il suo destino caduco, la sua obsolescenza costitutiva – alimenta l’insoddisfazione permanente alla quale il discorso capitalista risponde con l’offerta dell’oggetto come luogo di salvezza che però anziché salvare riproduce quella stessa circolarità che prometteva di spezzare».

[3] Come sostiene Bandinu «il turismo diventa una delle grandi macchine semiotiche attraverso cui il potere amministra la festa e mediante cui modella l’immaginario collettivo» (Bandinu, 1980, p. 39).

[4] Come osserva Lefebvre (1970) la campagna viene messa al servizio della città: «la città avvelena la natura; essa la divora ricreandola poi nell’immaginario perché duri questa illusione di attività» (ivi, p. 104).

3. Come trasformare una terra arcaica nello scenario estetizzato di un’inedita dimensione urbana: l’invenzione della Costa Smeralda

È proprio in questo quadro che si collocata l’operazione Costa Smeralda. Quando L’Aga Khan e i suoi amici giungono in Sardegna trovano a questo proposito un territorio davvero eccezionale: un territorio di pietre e di mare, segnato dai muri a secco e dalla rarefatta presenza degli stazzi, rimasto sino a quel momento in uno stato di profondo isolamento. Una sorta di luogo primigenio, in cui, ad uno sguardo esterno, il tempo sembrava essersi fermato, e in cui gli stessi pochi abitanti sparsi nelle campagne desolate sembravano provenire da antiche ere lontane: «hanno guance nere di barba; una fame ancestrale, la fame dei protosardi, vecchia di cinquemila anni, ha scavato le loro facce» (Monicelli, 1962, pp. 66-67). È proprio quel carattere di marginalità, di vuoto, di solitudine a suggerire la possibilità che questi territori possano diventare preziosi.

I nuovi esponenti del capitale finanziario intuiscono subito che proprio quella terra arcaica, quel mare, se inseriti all’interno di un nuovo sistema di relazioni e ricodificati attraverso un processo di risignificazione e di riterritorializzazione, si sarebbero potuti trasformare nello scenario perfetto di una vacanza eccezionale, da offrire ai miliardari in fuga “dalla vita caotica della città” e alla ricerca di un “luogo di pace assoluta”. Proprio in quanto tali avrebbero potuto garantire fonti di immenso profitto: oro.

Perché questo potesse accadere tuttavia erano necessarie alcune operazioni. Bisognava prima di tutto impossessarsi di quell’ambiente naturale e umano, svuotarlo e scollarlo dal resto del territorio. Quindi dotarlo di tutte le comodità che potessero garantire una vita urbana e riconfigurarlo nella sua totalità per far si che esso da territorio, esito di una relazione profonda tra una società e il suo ambiente, potesse diventare uno sfondo destoricizzato, una selezione di immagini, private del loro valore d’uso, da utilizzare come matrice di un nuovo insediamento di invenzione da “sposare”, con quel contesto. Questo tuttavia non sarebbe bastato.

Occorreva, infatti, proporre e fare circolare, per venderla, questa immagine banalizzata, nel circuito mediatizzato internazionale in cui si stavano elaborando proprio quei valori, quei sistemi di mentalità e di comportamento che avrebbero reso omologhi i luoghi dispersi di questo inedito mondo urbano. E soprattutto riconnettere fisicamente, una volta isolato questo segmento spaziale, rimasto per secoli in uno stato di profondo isolamento, dalla società locale, a quel mondo condiviso che il nuovo processo di riorganizzazione della produzione e del consumo, del lavoro e del capitale stava andando a riconfigurare.

Nel giro di pochi anni gli investitori compiono queste diverse operazioni. Subito, nei primissimi anni ’60, acquistano, per poche centinaia di milioni di lire, ben 3.500 ettari di terreno, considerati dagli stessi proprietari locali terre improduttive. Una volta ritagliato e sottratto quel territorio all’uso a cui la storia lo aveva destinato, alle norme e alle consuetudini che ne avevano per centinaia di anni regolato l’uso, lo confinano e lo rinominano simbolicamente per poi sottoporlo, ad un vero e proprio intervento di pianificazione. Attraverso l’elaborazione di propri strumenti di regolamentazione e di progetto avviano una vera e propria operazione di “ricodifica” territorializzante che avrebbe trasformato l’antica Monti di Mola in Costa Smeralda: quella che veniva chiamata la Valle dell’Infarru (la valle dell’inferno) in un vero e proprio paradiso di illusioni ad uso di altri abitanti provenienti dal mondo.

Quel paesaggio, espressione di un durissimo rapporto fra uomo natura, doveva, infatti, essere trasformato in uno sfondo esclusivo: ridotto, secondo un ben preciso programma di selezione, di smontaggio e rimontaggio, ad un quadro pittorico, in cui le rocce, il mare, la flora e persino gli stessi animali[1], così come i segni che la storia aveva depositato sul territorio, potessero essere utilizzati come delle quinte in cui disporre un particolarissimo insediamento di invenzione che avrebbe raggiunto diverse migliaia di metri cubi.

Perché questo avvenisse, come sottolinea ancora Bandinu (1980, p. 79) doveva essere inventata dunque «una messa in scena, una mostra mercato in cui incarnare il cielo dei desideri, confezionare un angolo di mare, coniugare una villa con un cespuglio o con una roccia». Impresa non facile, dunque: si trattava «di un’operazione sintattica di una civiltà superiore, raffinata interprete di tutte le scritture […] non è facile impresa, infatti sbriciolare un luogo e farlo dimora di un desiderio» (ivi).

[1] «L’Aga Khan salverà anche le capre nel paradiso della Gallura» così titolava un articolo della Stampa (cit. in Piga, 2012, p. 62), mostrando come lo stesso Aga Khan avesse affermato che le capre avrebbero potuto continuare a vivere in questo paradiso di Gallura e ad apparire fra le ville dei nuovi abitanti smeraldini «affacciandosi sugli scogli come sempre hanno fatto caratterizzando il luogo con la loro presenza» (cit. in Gelsomino, 2012, p. 69).

4. La creazione del simulacro

È per realizzare quest’operazione e per elaborare e gestire in maniera unitaria i codici che avrebbero permesso questa trasformazione dei sassi in oro che i nuovi proprietari dei terreni acquistati, compresi in gran parte nel territorio di Arzachena e in piccola parte nel territorio di Olbia, si riuniscono in un Consorzio che aveva tra gli scopi quello di «provvedere allo studio, al coordinamento ed alla direzione di tutti gli strumenti urbanistici idonei ad assicurare, sia in generale, che con riferimento alla singola proprietà, la migliore utilizzazione degli immobili appartenenti ai membri del consiglio» (Gelsomino, 2012, p. 61).

Da subito, come si legge nell’Atto costitutivo, il Consorzio si arroga il diritto di controllare, passo passo, ogni dettaglio. La creazione di questo ambiente del desiderio non poteva evidentemente essere lasciata al caso, ma era necessario prevederne ogni minimo particolare: «Tutti i progetti di costruzione di immobili, di piantagioni di alberi, di creazione di parchi e giardini, o di sistemazione dei terreni vincolati dalle disposizioni del presente statuto – così si legge all’art. 28 dell’Atto di costituzione del Consorzio – devono, prima di essere iniziati, essere sottoposti all’esame ed approvazione di una Commissione di Architettura, composta da architetti scelti dal Consiglio di amministrazione e da due membri del Consiglio di amministrazione medesimo.

Tale commissione valuterà le caratteristiche architettoniche e la dislocazione degli edifici, con riguardo al carattere del paesaggio e alla salvaguardia di questo. Essa potrà rivedere e modificare i progetti che le sono sottoposti, tanto dal punto di vista dell’estetica che, con riguardo a servitù a limitazioni particolari decise dal Consorzio. I partecipanti al Consorzio e i loro eredi aventi causa, si impegnano ad apportare ai loro progetti le modificazioni e gli spostamenti che saranno eventualmente suggeriti da tale commissione» (cit. in Gelsomino, 2012, p. 62).

Contemporaneamente viene formata una commissione, formata da un gruppo di architetti composto da Luigi Vietti, Michele Busiri Vici, Simon Mossa, dall’artista scultore Jacques Couelle, a cui, con il concorso dell’Architetto Raymond Martin, viene affidato l’incarico di redigere un pre-progetto del piano di urbanizzazione della zona (fig. 2). Contemporaneamente i proprietari si impegnano a «sottoporre al comitato di architettura un piano preliminare e approssimativo dello sviluppo dei loro terreni» (ivi, p. 59). Il pre-progetto, che verrà presentato in Regione e approvato rapidamente dalla Giunta, grazie alla mediazione di Giovanni Filigheddu (Piga, 2012, p. 64), doveva avere lo scopo di guidare lo sviluppo dell’intera area e di «proteggere – appunto – il carattere selvaggio e pittoresco della Costa Nord Est della Gallura» come si legge nella Relazione del Piano riportata da Gelsomino (2012, pp. 90-93).

In questo disegno[1], cui è allegata la relazione che costituirà la base dello sviluppo dell’insediamento, vengono tracciati: lo schema della viabilità, che prevedeva una spina centrale di collegamento su cui si innestavano i percorsi secondari, individuati utilizzando l’andamento degli antichi sentieri; i poli principali corrispondenti a quelle aree in cui erano ubicati i più importanti alberghi; le aree dello sviluppo urbano residenziale e alberghiero; i porti; la suddivisione dei lotti con le indicazioni della densità e della tipologia delle ville da realizzare; le estensioni di fasce verdi e di parchi ad uso pubblico, con le zone specifiche da destinare a rimboschimento; le zone e i centri sportivi. All’interno di quest’area vengono inoltre previsti anche dei piccoli nuclei abitati “per piccoli pescatori”, peraltro mai realizzati[2], e dei “villaggi residenziali” in cui la destinazione turistica avrebbe potuto integrarsi con una destinazione residenziale per la popolazione locale che avrebbe dovuto costituire il 20% rispetto a quella turistica non residenziale[3].

Una sorta di vero e proprio progetto integrato cui dare forma attraverso la creazione di un’architettura d’invenzione, che avrebbe dovuto mettere in scena una tradizione inventata, in uno stile neosardo totalmente artificiale, pensata con una particolare attenzione al rapporto con il paesaggio[4]. Come dirà l’Agha Khan in una bella intervista, «abbiamo fatto sei mesi di ricerca assieme al gruppo degli architetti, per conoscere la storia delle costruzioni in Sardegna, per vedere quali sono le caratteristiche architettoniche, vogliamo prendere le cose più belle e trasferirle nella nostra costa» (cit. in Gelsomino, 2012, p. 70). L’idea era di costruire un passato artificiale in cui alcuni elementi tipici, smontati dal proprio contesto – il comignolo a pergola di Oliena, i balconcini di Aritzo, gli archi delle lolle del Campidano (Bandinu, 1980, p. 54) – potessero essere rimontati in artificiali assemblaggi con dettagli di altre case, chiese o villaggi presi da altre tradizioni mediterranee. Una versione del passato sterilizzata e selettiva capace di mettere in scena la diversità culturale, ma solo per impossessarsene mediante la simulazione, adulterandola (Settis, 2014, p. 81). Attraverso questa mescolanza, tra ciò che è veramente antico e ciò che lo sembra, il nuovo contesto sarebbe dovuto apparire più vero del vero.

Per rendere ancora più vero questo scenario gli stessi abitanti dell’area sarebbero dovuti restare, un po’ come comparse all’interno della scena, dopo aver venduto il loro terreno e il vecchio stazzo, magari “mascherandosi” da tradizionali artigiani o pescatori, per rendere più vero e fintamente autentico il paesaggio disneylandizzato del paradiso della vacanza[5]. «Nei villaggi – così riportava il giornalista Mino Monicelli (1962, p. 70) in un reportage sull’Espresso – i locali indosseranno i costumi sardi. E vi saranno centri artigianali, musei vivi, con botteghe operanti da dove usciranno ogni giorno prodotti dell’artigianato locale; e trattorie che offriranno tutti i vini e tutti i piatti della Sardegna. Un grande e permanente show fieristico per clientela di classe».

La precessione di un simulacro diventa realtà: non si distingue più il vero dal falso (Baudrillard, 2008). All’interno di questo programma ogni architetto, chiamato dal Consorzio per realizzare i quattro nuclei principali dell’insediamento, interpreta a proprio modo il compito, producendo diverse immagini simulacrali[6]. Luigi Vietti inventa Porto Cervo, il polo centrale dell’intero progetto, e realizza l’Hotel La Pitrizza. Porto Cervo, sottoposto subito dopo la sua realizzazione, ad un vero e proprio trattamento di invecchiamento, si presenterà come un vecchio borgo peschiero mediterraneo con i suoi elementi: la piazzetta, il vicolo, il pontile, gli archi, i loggiati, la chiesa. La Pitrizza assumerà, invece, i tratti di un “edificio paesaggio” perfettamente mimetizzato nell’ambiente naturale (Cappai, 2014, p. 124).

Jacques Couelle plasma invece, come una vera e propria scultura organica dalle masse plastiche, sapientemente inserita nel contesto, l’hotel Cala di Volpe che assumerà le sembianze di un antico borgo mediterraneo di pescatori con il suo pontile a cui attraccheranno non più le vecchie barche dei pescatori ma gli yacht dei miliardari. Michele Busiri Vici progetta l’hotel Romazzino e per farlo inventa un vero e proprio stile “neomediterraneo” in cui gli elementi della tradizione sarda si fondono, nel dar vita ad un linguaggio inedito, con alcuni tratti dall’architettura greca e araba.

Questi nuclei, cui nel tempo si affiancheranno gli altri interventi previsti dal piano, inventano uno stile. Come dei veri e propri quadri disegnati «ad arte in cui le ville e gli hotel sono case dalle forme dolci. Architetture di favola e l’arredo crea uno stile» (Bandinu, 1980) si collocano sul territorio volendo dare l’impressione di essere stati lì da sempre.

[1] Recentemente nel corso dell’elaborazione della sua tesi di Laurea, dedicata alla Costa Smeralda, la studentessa Francesca Camacci (2013/2014), in un Archivio privato, ha ritrovato i disegni del pre-progetto, illustrato dalla relazione riportata da Giovanni Gelsomino (2012). I disegni mostrano l’interessante articolazione integrata dell’insediamento che conferma quando descritto nel documento già pubblicato.

[2] La realizzazione di uno dei villaggi era prevista, come afferma lo stesso Aga Khan in un’intervista a Gastone Orefice (1962) sull’Europeo, nei pressi di uno dei più prestigiosi alberghi: il Cala di Volpe. Come lui stesso affermava nell’intervista «A Cala di Volpe in particolare […] sarà realizzato un vero e proprio villaggio con scuola, chiesa e botteghe, centro di pescatori e di artigiani. Già abbiamo avuto molte domande di persone che intendono stabilirsi nella zona, per svolgervi attività di pesca o artigianale del legno, del ferro e del cuoio. Selezioneremo le domande al più presto, dando naturalmente la precedenza alla popolazione locale» (ivi, 28). In realtà nessun villaggio fu mai realizzato.

[3] È in particolare presso gli stazzi l’Abbiadori che era previsto il centro maggiore in cui la popolazione locale avrebbe potuto continuare a «occuparsi delle attività tradizionali oltre a quelle nuove» (Orefice, 1962, p. 28).

[4] «Tutte le costruzioni delle zone residenziali – così recita la prima Relazione del Piano di sviluppo – dovranno sorgere con vincolo reciproco di mantenimento delle zone verdi circostanti che risulteranno così vincolate in perpetuo. Particolari norme saranno dettate infine, circa il carattere di architettura delle residenze private, affinché esso oltre ad inserirsi nel paesaggio sia espressione di un ritmo quasi unitario» (Relazione del Piano di sviluppo dei territori della Costa Smeralda riportata in Gelsomino, 2012, p. 92). Il piano prevedeva che i corpi delle costruzioni, sia delle residenze che degli alberghi, fossero pensati in armonia con la topografia del terreno evitando forme troppo rigide che non si sarebbero, secondo gli stessi autori, integrate armonicamente con il paesaggio costiero (Bandinu, 1980, p. 37).

[5] Già nel 1970, come riporta Piga (2012, p. 93), un reportage di un’importante rivista francese Le nouvel observateur parlava della Costa Smeralda come di una Disneyland per miliardari, o addirittura «di un villaggio da operetta per Topolino, Paperino e Zio Paperone».

[6] Per un’analisi del contesto culturale in cui si situano i diversi architetti, che vengono incaricati dal consorzio di redigere il Piano e realizzare i principali nuclei e per comprendere meglio i singoli percorsi e i differenti linguaggi utilizzati mi permetto di rinviare alla interessante tesi di dottorato di Cappai (2014). Il suo lavoro ricostruisce il processo di pianificazione che ha portato alla creazione del paesaggio e dello spazio turistico della Costa Smeralda, collocandolo all’interno del più ampio dibattito teorico e progettuale sulla pianificazione e l’architettura nazionale e internazionale, che si svolge a partire dal dopoguerra.

5. Vendere l’immagine al mondo

Contemporaneamente all’impostazione del quadro che costituisce la scena della vacanza smeraldina, viene progettata la sua vendita al mondo attraverso un importante lancio mediatico. Subito alla posa della prima pietra viene invitata una televisione americana (Gelsomino, 2012, p. 70) che fa circolare le immagini della cerimonia in tutto il continente americano, presentando questo territorio come un nuovo eldorado che si stava per schiudere al mondo internazionale. Non solo gli investitori, ma anche alcuni importanti enti regionali, contribuiscono a lanciare nel circuito mondiale non solo la Costa Smeralda ma l’intera Sardegna, rappresentata come il più ampio sfondo geografico in cui andava a collocarsi il nuovo insediamento. La Regione Sardegna in compartecipazione con l’Istituto Smithsoniano delegato dal Governo americano[1], realizza negli Stati Uniti una mostra dedicata alle collezioni dell’Artigianato Sardo dell’ISOLA che gira per tre anni, tra il 1962 e il 1965, facendo circolare in diversi stati americani non solo gli oggetti, ma anche le immagini delle bellezze naturali e paesaggistiche dell’isola, sino a quel momento sostanzialmente sconosciute.

Oltre ai giornali nazionali (tutti i quotidiani e i settimanali più in voga) che dedicano ampio spazio alla fondazione di questo insediamento di invenzione, sono molte le riviste europee e americane ad interessarsi in questi anni della Costa Smeralda. Dal New York Times al Daily Express, solo per citare i più significativi, vengono commissionati diversi reportage nel corso di tutto il decennio del suo sviluppo (Piga, 2012). Alla fine degli anni ’60 alcuni film scelgono come scenario il contesto della Costa Smeralda[2], contribuendo a portarne l’immagine nell’Italia e nel mondo.

Il sistema mediatico non solo divulga le immagini di questo insediamento di invenzione e la bellezza delle sue cornici ambientali e paesaggistiche, ma mette in scena soprattutto gli “stili di vita”, i comportamenti e le mentalità dei nuovi abitanti che, come titola un interessante reportage della fine degli anni ’60, «Vanno a nascondersi sulla Costa Smeralda» (Rai, 1969)[3]. Espulsi i vecchi pastori le nuove scenografie diventano infatti un temporaneo rifugio esclusivo «meta di pochi privilegiati» (ibid.). Solo principi, regine, esponenti dell’alta finanza e dell’industria provenienti dalle più importanti capitali del mondo possono permettersi di «soggiornare qui in uno dei rari e costosissimi alberghi» (ibid.), alla ricerca del silenzio, della solitudine e della pace. Chi sono questi privilegiati? «È gente che vive solo sulle pagine dei rotocalchi» sottolinea Silvana Giacobini nel suo reportage. Chi meglio di loro poteva contribuire a veicolare nel mondo quei sistemi di mentalità e di comportamento, quegli pseudo bisogni e illusioni che il capitalismo intendeva alimentare per aumentare i suoi profitti?

Ma naturalmente non bastava solo lanciare l’immagine nel circuito dei media: era necessario, infatti, fare diventare questo lembo di terra parte integrante di quel nuovo tessuto urbano interconnesso, formato da diversi luoghi, territori e scale. Per questo in cooperazione con la Regione e lo Stato, viene realizzata dalla Cassa del Mezzogiorno, la strada litoranea Olbia Palau che, nel giro di pochi anni, riduce da otto ore a quaranta minuti il tempo necessario per raggiungere la Costa Smeralda da Olbia. Viene inoltre ristrutturato il porto di questa città e create nuove linee di traghetti con diversi porti nazionali. Ma soprattutto dopo una prima riattivazione, grazie al concorso dello stesso Consorzio Costa Smeralda, dell’aeroporto di Olbia Vena Fiorita, nel 1963 viene fondata ad opera dell’Aga Khan la compagnia aerea Alisarda con lo scopo di mettere in collegamento con voli di linea la Sardegna prima con l’Italia, poi con il mondo. Già nel 1964 nei mesi estivi esistevano ben due o tre voli giornalieri, nel mese di agosto, per Nizza, Marsiglia, Cannes, Parigi, Genova, Milano, Roma, Ajaccio e Bastia (Gelsomino, 2012, p. 109).

[1] L’Istituto Smithsonian delegato dal Governo americano si assume per intero l’onere della spesa per la circolazione all’interno del territorio degli Stati Uniti. Cfr. Gelsomino (2012, p. 70).

[2] Si vedano fra gli altri Vacanze sulla Costa Smeralda prodotto nel 1968 con la regia di R. Deodato e Le coppie, realizzato nel 1970 con la regia di M. Monicelli, A. Sordi, V. De Sica.

[3] Il servizio giornalistico, con svariate interviste, tra cui quelle effettuate alla modella Bettina, amica personale di Ali Khan, all’architetto svizzero Jacques Couelle, progettista dell’Hotel Cala di Volpe, e a Karim Aga Khan, viene edito dalla RAI e trasmesso il 7 ottobre 1969.

6. Il simulacro genera una nuova realtà: gli effetti sul territorio della Gallura

Il territorio non precede più la carta, né le sopravvive. Ormai è la carta che precede il territorio – PRECESSIONE DEI SIMULACRI – che lo genera e, se si dovesse riprendere la favola (di Borges), oggi sono nuovi brandelli di territorio che imputridiscono lentamente sull’estensione della carta. Qui e là sono vestigia del reale che sussistono, e non della carta, nei deserti che non sono più quelli dell’impero, ma i nostri. Il deserto del reale stesso. (Baudrillard, 2008, p. 60)

La creazione di questa particolare città delle vacanze, che trasforma il piacere e il godimento in una nuova merce di produzione del capitale internazionale, innesca un processo di profonda trasformazione del territorio gallurese.

Nel giro di poco più di cinquant’anni questo territorio si trova, con un vero e proprio balzo di tigre, a essere inserito all’interno dei nuovi flussi di quell’economia-mondo, che comincia a fare del turismo una delle principali fonti di profitto a livello internazionale. Il capitale investe e costruisce in questi territori creando una inedita realtà. Quelle coste inospitali, sino a quel momento difficili da raggiungere, cominciano a popolarsi di villaggi che simulano una tradizione inventata, dove la “vita è sogno”, come riporta l’iscrizione del finto municipio del finto villaggio fondato da Rafael Neville nella costa Nord della Sardegna. L’invenzione della Costa Smeralda si trasforma in una molecola che genera, come in un processo di miniaturizzazione genetica una nuova realtà iper-reale (Soja, 2000). Una vera e propria opera di fecondazione urbanistica di territori sino a poco tempo fa vuoti e silenti in cui «il reale è prodotto da cellule miniaturizzate, da matrici e memorie, modelli di comando – e a partire da questo può essere riprodotto un numero infinito di volte» (Baudrillard, 2008, p. 60).

Sul modello dei centri inventati dagli architetti del Principe ismailita, in copie sempre più sbiadite e sempre meno pianificate, ma influenzate piuttosto dal grado di permissività concesso delle singole amministrazioni comunali (Carta, 2007), si moltiplicano miriadi di villaggi sull’intera costa gallurese che occupano, intasandoli talvolta, i golfi e le insenature; si riproducono alberghi e lottizzazioni; si rafforzano i nuclei preesistenti. Prende forma una sorta di città lineare costiera, che lascia liberi pochi lembi di territorio, producendo un altissimo consumo di suolo.

Questo repentino processo di modernizzazione, generato da una intensificazione delle interconnessioni e delle interdipendenze globali e da un generale miglioramento dei sistemi infrastrutturali, modifica profondamente, in tutta la regione gallurese, le relazioni intessute dagli uomini e dalle donne con i propri ambienti di vita. Si tratta al contempo di un processo di de-strutturazione e ristrutturazione, di deterritorializzazione e riterritorializzazione (Raffestin, 1984; Soja, 1989) che determina l’affermarsi di un nuovo sistema insediativo in cui le frizioni tra scala globale e scala locale interagiscono in forme inedite ed originali, tutte ancora da indagare, producendo effetti straordinariamente peculiari.

La fondazione della città del turismo e della vacanza, nell’attrarre capitali e investimenti, genera nuovi mondi di impresa, determinando un notevole aumento di popolazione dei centri costieri che acquisiscono un ruolo trainante, rispetto all’entroterra (Cannaos, 2013). Come mette in rilievo Cannaos (2013), la popolazione dei centri costieri della Gallura, in gran parte corrispondente con l’attuale Provincia di Olbia – Tempio cresce tra il 1961 e il 2011 del 110%, il doppio della Provincia di Cagliari che costituisce la seconda realtà, in termini di crescita, del contesto isolano. Olbia in particolare, che alla fine dell’800 era un piccolo nucleo di poco più di 3.000 abitanti e che solo nella prima metà del ’900 era cominciata a emergere come modesto centro di scambi, si trasforma in pochi decenni in una delle più una delle più dinamiche realtà regionali.

Questo spostamento di attenzione dai territori dell’interno verso la costa, dove si concentrano gli investimenti e la localizzazione dei servizi, produce delle fratture potenti all’interno del territorio. Si passa da un modello d’uso sostanzialmente diffuso, imperniato su un complesso e minuto sistema di nuclei insediativi e di stazzi sparsi nelle campagne, ad un sistema in cui la città costiera, come una sorta di magnete, attrae le “polveri sparse” sul territorio lasciando nelle aree interne “buchi” di silenzio, “densi di natura e di storia”, che si stagliano sullo sfondo di una struttura insediativa policentrica che continua, seppur in maniera fragile, a costituire l’armatura di una sbilanciata città territorio tutta da comprendere e decodificare.

La creazione di questa città del turismo non produce tuttavia solo delle trasformazioni fisiche sul territorio, ma agisce potentemente sugli immaginari e sulle culture locali, contribuendo in maniera determinante a veicolare nuovi modi di pensiero e azione. L’arrivo nell’isola di un particolare turismo di élite, caratterizzato da un sistema di segni e di valori perfettamente inserito in un sistema di consumo di lusso, veicola nuovi modelli culturali che scardinano profondamente i tradizionali codici di riferimento culturali. Come osserva Bandinu «i modelli arcaici della tradizione si scontrano con quelli della festa e del consumo promossi dalla pratica e dall’ideale del turismo d’élite» (Bandinu, 1980, p. 136).

L’effetto di questa trasformazione viene potenziato dall’introduzione del nuovo medium televisivo, che in questi stessi anni costruisce uno spazio estetico mediatizzato, che scavalca i confini delle antiche patrie locali per andare a formare un vero e proprio circuito di comunicazione mondiale potenziato dagli ulteriori sviluppi delle comunicazioni.

All’interno di questo sistema, come osservava già Adorno (1967, p. 113) «vengono confezionati in modo più o meno massificato prodotti studiati per il consumo di massa e che tale consumo determinano in larga misura essi stessi». I «nuovi mezzi e messaggi del comunicare» (Bandinu, 1996), insieme all’invasione, anche nel contesto isolano, degli stessi “oggetti-segni” del mercato mondiale[1], contribuiscono, come molti autori hanno messo in evidenza (Bandinu, 1996; Pira, 1978; Cherchi, 1999; 2013) a veicolare nuovi codici di comportamento. Codici prodotti evidentemente per rispondere alle sollecitazioni volute da quell’industria del consumo che metteva al lavoro il desiderio per trasformarlo in profitto, ma che niente avevano a che vedere con gli orizzonti della vita e i valori prodotti negli universi locali. Questa marea “di oggetti-segni-messaggi” arrivati dall’esterno frantuma l’universo delle tradizioni e produce una potentissima omologazione di culture e comportamenti (Pasolini, 1975), moltiplicata in questi ultimi decenni dagli effetti prodotti dalla comunicazione informatica e dalla globalizzazione. Prende così corpo quel sistema che già negli anni ’90 Choay (1994), aveva descritto come:

un système opératoire, valable et développable en tous lieux, dans le villes comme dans les campagnes, dans les villages comme dans les banlieues”, e in cui “la dynamique des réseaux techniques tend à se substituer ainsi a la statique des lieux bâtis pour conditionner mentalités et comportements urbains. Un système de référence physique et mental, constitué par des réseaux matériels et immatériels ainsi que par des objets techniques, et dont la manipulation met en jeu un stock d’images et d’informations, retentit dans un circuit bouclé sur les rapports que nos sociétés entretiennent avec l’espace, le temps et les hommes, peut être appelé l’URBAIN.

È proprio grazie a questi processi, in larga parte innescati proprio dalla costruzione della Costa Smeralda, che, nel giro di pochi decenni, anche la Gallura – questa piccola regione storica della Sardegna che solo agli inizi del ’900 un viaggiatore inglese definiva «la più vicina delle isole lontane» (Lawrence, 1921) – entra, a far parte integrante di quel mondo-città e di quella città-mondo che, come Lefebvre (1970) e Brenner (2014), fra gli altri, sostengono, sembra abbracciare ormai, senza soluzione di continuità, l’intero universo. Un urbs diventata orbs che identifica, appunto, uno spazio di mentalità, di istituzioni, di poteri, di informazioni che viaggiano in una rete di flussi, che disarticola e riarticola, secondo nuove logiche e nuove gerarchie di poteri, i rapporti fra uomini e luoghi ridisegnando la faccia della terra (Lazzarini, 2014).

[1] Si vedano a questo proposito le interessanti osservazioni di Bandinu sugli effetti di omogeneizzazione culturale provocati dall’invasione delle immagini e degli oggetti veicolati dall’economia dei consumi. Particolarmente pregnanti a questo proposito le riflessioni di Pasolini (1975).

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