GAVINO PES – DON BAIGNU (1724 – 1795)
a cura di Guido Rombi
INDICE
(cliccare sui paragrafi)
Per una immagine il più possibile storica e quindi realistica di Gavino – Don Baignu Pes
(Attraverso l’analisi e la riflessione storico-critica dei documenti concernenti sue notizie biografiche e la società in cui visse)
LE FONTI PRINCIPALI di questa biografia
(in ordine di soggettiva rilevanza)
Tutti li canzoni.
Le straordinarie rime d’amore e di gelosia del ‘Catullo gallurese’ del Settecento
Cagliari, Edizioni della Torre, 1981
La Letteratura gallurese
di Mauro Maxia
Condaghes 2022
Preti di Gallura
di Nanni Columbano Rum
Della Torre 2001
Biografia Sarda
di Pietro Martini
1837
Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna,
ossia Storia della vita pubblica e privata di tutti i sardi che si distinsero per opere, azioni, talenti, virtù e delitti
di Pasquale Tola
1838
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LA POETICA DI GAVINO PES – DON BAIGNU
Biografia Sarda
di Pietro Martini
1837
Pasquale Tola
Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna …
1838
Bernardin Biondelli
Sullo stato attuale della Sardegna
Considerazioni
1841
Giovanni Siotto-Pintòr
Storia letteraria di Sardegna
1843
Tommaso Pischedda
Canti popolari dei Classici poeti Sardi
tradotti ed illustrati per l’abate Tommaso Pischedda
1854
Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti
Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti
1878
Pietro Nurra
Antologia dialettale dei classici poeti Sardi G. Araolla…
Sassari, Giuseppe Dessì
1898
Giulio Cossu
Quel gallurese del Settecento così gentile, così raffinato
e
[presentazione a Il Canzoniere d’amore]
in
Tutti li canzoni.
Le straordinarie rime d’amore e di gelosia del ‘Catullo gallurese’ del Settecento
Cagliari, Edizioni della Torre, 1981
Franco Fresi
Antica terra di Gallura. Miti, riti, gente e tradizioni
Newton Compton Editori 1994
Nanni Columbano Rum
Preti di Gallura. Sette ritratti di sacerdoti indimenticabili
Della Torre, 2001
Giuseppe Marci
In presenza di tutte le lingue del mondo
Letteratura sarda
Cuec 2006
Eduardo Blasco Ferrer, Peter Koch e Daniela Marzo (a cura di)
Manuale di linguistica sarda
De Gruyter 2017
La Letteratura gallurese
di Mauro Maxia
Condaghes 2022
BIOGRAFIA DI GAVINO PES – DON BAIGNU
di Guido Rombi
PREMESSA
Il nome Gavino Pes oppure don Baignu si può dire che sia da tutti conosciuto in Gallura e forse in Sardegna. E non da oggi, da oltre 200 anni.
La sua poesia è stata però conosciuta a lungo solo a spizzichi. Certe canzoni di don Baignu, solitamente le più famose, hanno infatti cominciato ad essere pubblicate e a diffondersi fin dall’Ottocento, ma si è dovuto attendere a lungo, al 1981, per avere la sua complessiva e vasta produzione poetica raccolta in modo più ordinato e organizzato in un volume, quello a cura di Giulio Cossu dal titolo Don Baignu (Gavino Pes). Tutti li canzoni, edizioni Della Torre 1981. (Nel 2010 le stesse liriche del libro Don Baignu cit. sono state riproposte, con l’aggiunta di un altro paio supposte sue, nel volume La Canzona Timpiesa. Antologia della poesia gallurese Settecento – Primo Ottocento, a cura di Andrea Rasenti, edizioni Taphros, 2010).
Al contrario, a fronte di questi passi avanti nella raccolta poetica, regna ancora sovrana, oggi, l’indeterminatezza e la confusione nel campo della vita del grande poeta tempiese, tanto che tutte le sue biografie (non a caso brevi) risultano prive delle necessarie periodizzazioni e riferimenti cronologici. Infatti, al di là delle date di nascita e morte, nulla si dice nemmeno dei momenti cruciali: di quando egli si fece sacerdote, fin quando visse stabilmente a Tempio, quando si trasferì a Cagliari, quanto tempo più o meno stabilmente lì abitò, quando tornò a Tempio stabilmente per l’ultimo periodo della sua vita.
In nessun testo si troveranno chiaramente strutturate queste indicazioni, né certe e nemmeno supposte al riguardo. Eppure sono indispensabili a chiunque voglia approcciarsi alla conoscenza della figura e della poetica di don Baignu.
Tutte le biografie dicono che la sua vita ebbe due fasi: una prima mondana, libertina e sensuale, una seconda appartata e religiosa forse dopo una crisi interiore. Tentare di datarle queste fasi è assolutamente necessario, direi indispensabile. Invece ad oggi quando si discetta di don Baignu e si declamano le sue poesie della prima e della seconda fase, la sua figura risulta come diafana, senza contorni delineati, insomma non riusciamo a raffigurarcelo e nemmeno un po’ immaginarlo il poeta. Almeno sapere quanti anni aveva!
Certo per sapere con dovizia ci vorrebbero documenti al riguardo, dei quali in oltre due secoli, nonostante la fama del poeta, nulla si è visto, tranne l’atto di morte presso la Curia Vescovile di Tempio. Si sarebbe tentati di dire allora che non ci sia altro? No, affatto. Solo le ricerche negli archivi possono dirlo. E la mia convinzione è che don Baignu negli archivi storici non sia stato compiutamente cercato. Proprio in questi anni recenti stanno vedendo la luce ottime ricerche e pubblicazioni sulla Gallura (come altre località sarde) ben fondate su fonti archivistiche mai prima scandagliate: principalmente sull’Archivio di Stato di Cagliari e altri fondi un tempo non catalogati e accessibili come quelli ecclesiastici. La speranza perciò resta che si possa fare più chiarezza sulla vita di don Baignu Pes.
Per esempio: egli fu canonico a Tempio e canonico della Cattedrale a Cagliari. Per cominciare, si può sapere se nei fondi relativi ci siano dei documenti su di lui?
Nelle more del tempo necessario perché la speranza diventi realtà, il sottoscritto si è comunque proposto di vedere se qualcosa di più chiaro – se non con certezza, almeno con una certa approssimazione – si possa comunque dire riguardo ai momenti topici della sua vita e quindi della sua poetica, quella libertina e quella del rimpianto, attraverso le sole fonti edite, filtrate e vagliate con attenzione e con l’esperienza e il metodo miei propri.
E devo dire che dei risultati ne sono derivati. Quello che sotto segue è l’esito. Buona lettura.
GAVINO PES nasce a Tempio il 15 luglio 1724 da Antonio Pes e Maddalena Sanna. Apparteneva ad uno dei rami della vasta e ricca e nobile famiglia Pes, imparentata a sua volte con altre dell’aristocrazia tempiese (Valentino e Sardo fra le altre), che s’era conquistata – con la scelta di Francesco Pes, il capostipite, di schierarsi nella guerra di successione spagnola dalla parte dell’Austria contro la Spagna –, un lauto conto nobiliare da far valere, in modo diverso, per oltre un secolo a tutti i famigli.
Sebbene il padre Antonio Pes, che era «avvocato di qualche grido», voleva che il figlio si applicasse con precedenza al diritto, Baignu, come era più familiarmente chiamato, mentre studiava come tutti i rampolli dell’aristocrazia locale presso le scuole pie, o dei padri scolopi, di Tempio – subito distinguendosi tra i migliori pure negli studi teologici –, va invece maturando che due erano le passioni e gli scopi della propria vita: la poesia e le donne, due “filoni” esistenziali che furono poi a lungo la stessa cosa, due in uno.
Ed erano inoltre passioni da vivere ardentemente, a tempo pieno, e senza impicci come il lavoro professionale. La prima arte/passione – la poesia – richiedeva peraltro anche molto, molto studio. Ben a ragione il suo primo biografo Pietro Martini scrisse nel 1837: «conseguì poi dai lunghi suoi studi sopra le lettere amene ed i migliori poeti latini ed italiani quell’arte senza la quale non è dato di scrivere con giudizio e forbitezza di stile».
Coltissimo, talentuoso nella poesia, ricco, biondo, forse bello, insomma di farsi avvocato a don Baignu proprio non interessava; semmai prete per avere soldi facili (in quegli anni dominava nella Chiesa l’alto clero) e un qualche personale reddito da investire nelle spese che richiedevano fare l’artista-poeta e il “dongiovanni” o sinonimi vari (casanova, donnaiolo, playboy, puttaniere, rubacuori, sciupafemmine, seduttore, tombeur de femmes).
E così il nostro Baignu, dopo aver vissuto parte della giovinezza tra poesia e spensierati amori divenne due volte “don”: al “don” di nascita aggiunse il “don” sacerdotale. (Far parte del clero fu a lungo un ripiego di comodo per i membri della nobiltà parassitaria e spesso comunque di potere: sappiamo che come abate don Baignu godette di un «beneficio semplice»).
NOTA. Permane comunque dell’incertezza sul quando Gavino Pes diventò sacerdote: se ancora giovane o quando la situazione finanziaria si fece critica.
A leggere attentamente Pietro Martini sembra che il passo sia avvenuto in età adulta, comunque in un secondo tempo: «Pertanto dalla più fresca età si pose a verseggiare nel natio dialetto in diversi metri, e specialmente in sesta ed ottava rima. […] Finalmente si fece sacerdote, e venuto in età grave, cantò il pentimento delle terrene follie».
A leggere Pasquale Tola, invece, il passo del sacerdozio sembrerebbe collocarsi prima: «Ricco di beni di fortuna, e pel reddito di un beneficio semplice, di cui era abate, ottenne ancora [a mio parere da intendersi anche in questo caso come in un secondo tempo] una grossa pensione ecclesiastica sopra un canonicato della cattedrale di Cagliari rinunziato da D. Antonio Francesco Pes suo zio paterno.
E resta pure qualche dubbio sul significato profondo da dare alla sua poesia in rapporto con la reale figura e il reale vissuto di Gavino Pes: e cioè – in riferimento alle liriche amorose a lui attribuibili –, se le arti letterarie precedessero le amatorie, o viceversa; detto diversamente, se l’arte poetica, che Gavino sapeva di possedere fin da quando era ragazzo, fosse coltivata A) principalmente come piacere letterario, da tavolino; oppure B) come mezzo di seduzione; o, ancora, C) se coltivasse l’arte amatoria («bonu amanti», si autocelebra, scrivendo al cugino don Bernardino Pes) per alimentare la sua vena poetica.
La tesi A) è quella per cui propende Giulio Cossu, il curatore della prima ampia antologia di poesie a lui attribuibili. Così scrive nella introduzione: «io oso affermare che il nostro canzoniere d’amore è più opera di svago che di ispirazione vera, in altri termini più da poeta che da amante. Non è certo molto profonda la passione che possiamo descrivere a nostro bell’agio e sulla quale possiamo permetterci il lusso anche di ironizzare. E questo mi pare proprio il caso della massima parte della poesia di questo volume» (volume del quale «non garantisco, onestamente, che tutte le poesie di questo volume siano sicuramente sue»).
Per Cossu la poesia di don Baignu è innanzitutto poesia da salotto letterario, quale era quello che si raccoglieva nelle stanze degli Scolopi, dove a poetare, forse in competizione, era tutto un gruppo: «Sono per lo più Padri Scolopi, che conoscono la letteratura italiana a loro contemporanea, l’Arcadia romana, arrivata, come tutto e come sempre, in Sardegna con un certo ritardo, e anche la letteratura latina. Si possono citare anche i loro nomi: Stefano Ricci, Pietro Spano, Salvatore Sanna Ferrandico, Antonio Pes, Antioco Nou, Pietro Alixa, Pietro Molinas, Salvatore Carcupino, Luca Sechi. È un numero considerevole di autori che ha espresso una produzione omogenea, tanto che è difficile distinguerli l’uno dall’altro […] un gruppo di poeti tempiesi suoi contemporanei che a me è piaciuto … accomunare sotto l’insegna di Arcadia Gallurese. […] Un filone meno arcadico, più realistico, fu seguito dal più spregiudicato e leggermente bernesco Bernardino Pes, cugino di Don Gavino, anche lui sacerdote».
Non solo: sempre per Giulio Cossu si tratta di una poesia che «diventa più fine e acquista ambizioni letterarie» per mettere Tempio – che cercava di darsi toni di città –, al passo, pure nelle lettere, con le città più evolute della Sardegna, con Sassari e Cagliari in particolare; che «deve rispondere a un pubblico più esigente», e che «per riflesso indiretto mitiga anche la rozzezza del ceto più prettamente popolare. Ecco come va inquadrata storicamente l’opera di Gavino Pes, l’unico poeta veramente geniale della Gallura».
Pur consentendo con Cossu sulla generale collocazione di questo genere poetico tempiese, la tesi che però don Baignu fosse principalmente un poeta da tavolo dell’amore reale e sensuale non sembra convicente: a) non è suffragata da quanto Pietro Martini e Pasquale Tola – che per primi ne scrissero a non molta distanza di anni dalla sua morte –, dicono di lui, probabilmente sulla scorta di informazioni ricevute da chi lo aveva conosciuto (nelle loro biografie è chiaro e forte l’accento sulla sua passione carnale femminile; b) e del resto questa nota emerge abbastanza chiara nelle lettere tra lui e il più giovane cugino don Bernardino Pes («bonu amanti», ripeto, si autodefinisce).
Anche Mauro Maxia, noto linguista, autore di vari qualificati contributi pure sulla Gallura, e autore recentemente di una bella Letteratura gallurese lo dice chiaramente che nelle sue poesie si specchiano amori certo non platonici. (Una sua asserzione – quella che in quel tempo «pure i religiosi, specialmente quelli di livello più elevato, potevano avere delle relazioni amorose senza destare particolare scandalo» – ritengo vada però meglio chiarita: che relazioni amorose certi membri dell’alto clero ne avessero è risaputo, ma che la società popolare e popolana li ritenesse “normali” e accondiscendesse, no. Condivisivile invece che l’ “accoglienza” senza scandalizzarsi fosse riferita alla società aristocratica).
E che le passioni di don Baignu Pes fossero reali e carnali lo dice con estrema chiarezza anche Don Nanni Columbano Rum, che fu autore accorto e documentato di buoni libri sulla Gallura.
Una soluzione “mediana” e sostenibile semmai potrebbe essere che la sua poesia, iniziata come un esercizio di svago letterario giovanile agli Scolopi, si sia presto nutrita di sensualità e carnalità reali e che, alla fine, a lungo le due arti convissero e si sorressero vicendevolmente.
Proviamo allora a immaginarlo Baignu in questa prima fase: biondo, forse un bell’uomo?, vestito all’ultima moda dei nobili – con abiti di stoffe raffinate e scarpe imperlinate e anelli e bracciali vistosi guarniti di gemme di gran valore –, impegnato a tessere continuamente trame e rapporti amorosi con le tempiesi. Così più o meno doveva apparire.
Una vita davvero libertina e poco edificante per il rispetto e l’immagine del clero e della Chiesa tempiese in generale, e finanziariamente molto esosa. Fu proprio la necessità di mantenere alto il tenore di vita, a portarlo ad essere fra quei preti fortemente avversi – è Nanni Columbano Rum ad asserirlo – alla erezione delle parrocchie campestri di San Teodoro in Oviddè, Santa Maria della Neve in Arzachena, San Francesco d’Assisi in Aglientu, San Pasquale Baylon in Porto Pozzo, giudicate indispensabili per creare centri di assistenza non solo religiosa, ma morale, civile e sociale nella fascia litoranea gallurese: l’iniziativa, patrocinata dal vescovo Francesco Maria Guiso e dal ministro Bogino, comportava infatti un taglio anche del proprio reddito per finanziare il sostentamento dei parroci di quelle nuove parrocchie. E fu quel che accadde. Insomma Gavino-Baignu Pes, che probabilmente s’era già accorto far fatica a condurre quel tenore di vita (gli era costato un patrimonio e via via che l’età aumentava le spese non erano più nemmeno compensate da trofei femminili), subisce una dura mazzata dalle nuove decisioni della gerarchia ecclesiastica e governativa.
Sapendo quasi niente della cronologia di vita del nostro “dongiovanni” è molto interessante questa informazione di Columbano Rum, perché l’erezione delle chiese e quindi delle parrocchie suddette ci permette di dire che siamo tra il 1776 e il 1780: che Gavino Pes è ormai tra i cinquanta e i cinquantacinque anni, e che è presumibilmente in questo periodo che si chiude il primo capitolo gaudente e lussurioso della sua vita, e ne comincia un altro molto diverso.
Gravato di problemi finanziari, gli giunge infatti per fortuna in soccorso la possibilità di ottenere un lauto reddito su un canonicato della cattedrale di Cagliari a cui aveva rinunciato Don Antonio Francesco Pes suo zio paterno. Si trasferisce quindi a Cagliari. Un cambiamento forte, alla sua età.
Ma Cagliari non è Tempio: lì, per contare nel ceto alto occorreva avere un censo ancora più elevato rispetto al paesone gallurese. Così don Baignu si trova ai margini dell’alta società cagliaritana. Sono anni di meditazione, di smarrimento e cambiamento: sono anni in cui Baignu si fa veramente Don: ai libri di letteratura accoppia il breviario e adempie agli uffici con vero animo sacerdotale, sono gli anni della conversione.
Notizie del suo “nuovo stato”, peraltro, di tanto in tanto arrivavano a Tempio, e gli catturano ilarità e pettegolezzi anche dalle donne, che suo cugino Bernardino Pes, – pure lui famoso poeta e don – andava a riferirgli.
Gli anni di questa seconda fase “cagliaritana” dovrebbero essere quindi gli anni 1780-1785 (ma forse fino al 1788). Don Baignu viaggia tra i cinquantacinque e i sessant’anni e non è più giovane, non più capelluto e biondo, ma «calvo e canuto», probabilmente gobbo e malfermo sulle gambe.
Glielo sbatte in faccia il cugino poeta Bernardino Pes nella canzone Birraldineddu Cumpati – Bernardino compatisce, che può senza dubbio essere considerato il primo testo biografico su Baignu: una lunga canzone ricca di elementi personali, a volte da cogliere “in controluce” attraverso l’ironia sferzante che Bernardino fa sulla vita cagliaritana e i suoi rischi, altre volte diretti e crudi come questo:
Cand’eri pili brundu,
andai comu sa Deu e sa lu mundu,
a passu adduppiatu.
Abà, Baignu meu, chì lu statu
ti torra calvu e canu,
andi bassu, faddhutu, pianu pianu,
umili a celti grutti,
fendi li stazioni come tutti l’alti preti esemplari,
cunsumendi timagna in dugn’altari,
senza mirà lu guastu.
Così nella traduzione di Cossu (pp. 291-292): «Quando avevi i capelli biondi andavi come sanno Dio e il mondo, a passo doppio. Adesso, Gavino mio, che per il tuo stato diventi calvo e canuto, vai basso, cascante, piano piano, umile, a certe grott, fermandoti alle stazioni come tutti gli altri preti esemplari, consumando timagna su ogni altare senza badare al risparmio».
E poi ancora, impietoso, Bernardino in un altro passo lo definisce «peggio di una tigna, calvo e sbilenco.
Che sia così il suo stato fisico lo riconosce lui stesso in una poesia intitolata Poaru, Veccju e malatu – Povero, vecchio e malato, nella quale aggiunge però altri preziosi elementi biografici di estremo interesse, vale a dire che viveva anche in una situazione di marginalità sociale («E oggj fora e in vidda tutti m’hani abbandunatu. Oggj socu in tanti guai: poaru, veccju e malatu – E oggi in paese e fuori tutti mi hanno abbandonato. Oggi sono in tanti guai: povero, vecchio e malato»). Un testo nel quale, dice G. Cossu, si sente un lontano influsso della Caduta di Giuseppe Parini (1785) nell’autoritratto del poeta vecchio». Si faccia attenzione all’anno della poesia di Parini, 1785: potremmo assumere proprio questa data come punto di riferimento su cui calibrare gli ultimi anni della sua poetica. E’ tantopiù importante avere un presumibile riferimento cronologico, se consideriamo che a questo secondo e ultimo tempo di vita e di poesia, quella della incipiente “vecchiezza”, sono legate le poesie più celebri di Gavino – Don Baignu Pes: Lu tempu e Lu pentimentu.
Poesie che lasciano aperto il campo a diverse interpretazioni: segni di vero ravvedimento o rimpianto di un vecchio che non accetta la sua nuova condizione?
A Tempio don Baignu comunque ci torna per l’ultimo periodo della sua vita: malvolentieri, costretto probabilmente dalle necessità di vita, in una condizione spirituale di tristezza, se non di depressione vera e propria. Così scrisse nella lettera a Nicolò Valentino inviatagli da Tempio il 2 dicembre 1786, una delle pochissime o l’unica con la data, inoltre certamente la più ricca di informazioni personali, se vogliamo una sorta di piccola autobiografia (è contenuta in Tutti li canzoni e La canzona Timpiesa sopra citate) che è assolutamente indispensabile riportare integralmente:
LETTERA A DON NICOLO’ VALENTINO, DI SASSARI
In la littara toia, amicu predilettu,
vicu l’anticu geniu, vicu l’antic’affettu;
e in la me’ risposta vidaré, dulci amicu,
chissu mattessi geniu e chiddh’affett’anticu.
In versi ti cuntestu, palchì di bon umori
ha postu la to’ littara, scritta cun tant’amori,
la me’ poara musa, stracca, abbattuta, annosa.
La ‘ecchja temparendi cetara pulvarosa,
di cantà, di pignì, materia tu li dai
cu li spezii passati, chi rinuatu l’hai.
In vidé la to’ filma, m’è ghjunta la mimoria
di li primm’anni nostri la sunniata gloria;
vidé ch’emu passatu la nostra ciuintù
in una faticosa, misera, silvitù;
e li primm’anni nostri e l’etai matura
‘emu mal barattatu in una ‘ita oscura.
Eu, chi di poeta (oh, pinsamentu flebili!)
sempr’agghju alimentatu la pazzia e lu debili,
tutta la me’ dilizia, e dilizia gustosa,
punìa in descriì li grazii d’una rosa:
chist’era lu me’ impegnu e n’aìsi a la fini
lu solitu cumpensu di tribuli e di spini.
Tu, chi nutrii in pettu la me’ inclinazioni,
o mai o pochi”olti ti splichesti in canzoni,
chì li to’ sintimenti no li splicai in glosa,
palchì più ti silvìi di soda sciolta prosa.
Tal’era in noi dui la liberalitai
chi producia effetti di liberalitai.
Tu di l’ecunumia stagghji in lu cunfini
sempri chi ti ‘idìi spuddhatu di quattrini.
Cand’eri cun dinà, cun mecu eri d’accoldu:
solu eri bon economu cand’eri senz’un soldu.
E a chistu tenori andaami eu e tu,
gadagnendi tarrenu in scienzia e viltù
Cussi semu viuti, cussì semu invicchjati,
fin’a chi lu distinu c’ha poi siparati.
Dapoi di tuttu chistu, sendi da te distanti,
agghju fatt’eu ancora lu caaglieri erranti;
la patria abbandunesi cun briu e cu impegnu,
agghju ‘istu lu meddhu di lu poaru Regnu:
turratu soc’a casa pienu di disinganni,
tuttu multivicatu da l’anni e da li danni;
e cussì mi la passu, né malatu né sanu,
cu li lagrimi in l’occhj e a breviariu in manu.
In lu me’ appusentu incontru lu me’ spassu,
si and’a calchi passu, calchi dì pal poc’ori
mi faci cumpagnia solu lu cunfissori.
Lu cummelziu m’attrista, m’infada, mi mulesta.
Tuttu pal me è dolu, lu chi pa’l’alti è festa.
Ah, si pudia fa, alumancu un semestri
in chissu, undi se’ tu, paradisu terrestri.
Ah, Niculau meu, cand’a Sassari pensu,
m’ammentu di lu celi, di lu so’ gaudiu immensu;
e si a lu celi, dicu, Sassari s’assumiddha,
è solu la rasgioni chi a dillu mi cunsiddha.
In tutti li stasgioni (la me’ sintenzia è vera)
in tutt’e quattru è sempri custanti primmaera:
in li fiddholi soi, d’unu e di l’altu sessu,
tra lu bonu e lu meddhu, si dividi un cumplessu.
In li so’ dami poi, chi smisurati boli!
Mi figuru chi toccu la sfera di lu soli.
Dugna fiddhola soia, o zivili o cumuna,
pari chi poltia in faccia li rai di la luna.
In li scienzii poi, in l’alti, in lu bon gustu
pari cha agghja Sassari un Mecenati Augustu.
Oh, Deu! No possu più, chì la materia è tali
chi dimmanda un ingenu di più che naturali.
Par ultimu, frateddhu, ti precu e ti scongiuru,
chi procuri sta sanu, comu eu lu procuru.
Fa’ li me’ cumplimenti cun tutta la to’ casa,
chi di lu me’ bon cori sarà ben persuasa.
Salutami l’amichi e a li me’ patroni
di la me’ silvitù falli esibizioni.
Di più, caru frateddhu, ti cumandu e ti precu
chi in li cumandi toi prodigu sii cun mecu.
E voddhia tantu Deu chi a li cent’anni arrei.
Tempiu, a dui Natali di l’ann’ottantasei.
Custanti sempri e sinzeru,
cun tuttu lu cori t’ama
Baignu Pes chi si chjama
lu to’ ‘ecchju amicu ‘eru.
Traduzione di Giulio Cossu:
Nella tua lettera, amico prediletto, vedo l’antico genio, vedo l’antico affetto; e nella mia risposta vedrai, o dolce amico, quello stesso genio e quell’affetto antico. Ti rispondo in versi, perché la tua lettera, scritta con tanto amore ha suscitato il buon umore nella mia povera musa, stanca, abbattuta, annosa. Temperando la vecchia cetera polverosa, tu dai ad essa materia di cantare, di piangere, con gli stimoli di un tempo che tu hai rinnovato.
Nel vedere la tua firma, mi è ritornata alla memoria la sognata gloria dei nostri primi anni e ho pensato che abbiamo trascorso la nostra giovinezza in una faticosa e misera servitù.
I nostri primi anni e l’età matura abbiamo buttato via in una vita oscura.
Io (oh, oh, flebile pensiero!) che ho sempre alimentato la follia e la debolezza di poeta, ponevo tutte le mie delizie, ed erano delizie sapide, nel descrivere le grazie di una rosa: questo era il mio impegno e alla fine ne ebbi il solito compenso di triboli e di spine. Tu, che nutrivi in petto la mia inclinazione, o mai o poche volte ti sei espresso nel canto, perché non esternavi i tuoi sentimenti in sottigliezze poetiche, ma ti servivi di una prosa soda e sciolta.
In noi due era la liberalità che produceva per l’appunto gli effetti della liberalità. Tu stavi sempre sul confine del risparmio, tutte le volte che ti vedevi a corto di quattrini. Quando avevi soldi, eri d’accordo con me. Eri buon economo quand’eri senza un centesimo.
Con questo tenore io e tu andavamo avanti, guadagnando terreno in scienza e virtù. Così siamo vissuti, così siamo invecchiati, fino a che il destino ci ha poi separati.
Dopo tutto questo, essendo distante da te, ho fatto anch’io il cavaliere errante; ho abbandonato la patria con brio e con impegno, ho visto il meglio del povero Regno: sono tornato a casa pieno di disinganni, tutto mortificato dagli anni e dai danni; e così me la passo, né malato né sano, con le lacrime agli occhi e col breviario in mano.
Trovo il mio passo nella mia camera. Se vado a fare qualche passo, qualche giorno, per poche ore, mi fa compagnia solo il confessore. Lo stare con gli altri mi rattrista, mi dà noia, mi molesta. Per me è tutto dolore ciò che per altri è festa.
Ah, se potessi trascorrere almeno sei mesi in quel paradiso terrestre dove tu sei. Ah, Nicolò mio, quando penso a Sassari, mi ricordo del cielo, del suo immenso gaudio e se, dico, Sassari rassomiglia al cielo, è solo la ragione che mi consiglia a dirlo. In tutte le stagioni (la mia sentenza è vera), in tutte e quattro, è sempre costante primavera: nei suoi figli, dell’uno e dell’altro sesso, si divide un complesso tra il buono e il meglio. Nelle sue dame poi, che voli smisurati! Mi pare di toccare la sfera del sole. Ogni sua figlia, o elevata o popolana, pare che porti in volto i raggi della luna. Nelle scienze poi, nelle arti, nel buon gusto, pare che Sassari abbia un Mecenate Augusto. O Dio, non posso più, chè la materia è tale che richiede un ingegno più che naturale.
Da ultimo, fratello, ti prego e ti scongiuro, che procuri di stare sano, come io lo procuro. Presenta i miei complimenti a tutta la tua famiglia, che sarà ben persuasa del mio buon cuore. Salutami gli amici e fa esibizione della mia servitù ai miei padroni. Inoltre, caro fratello, ti raccomando e ti prego che nelle tue raccomandazioni sii prodigo con me. E voglia tanto Iddio che tu arrivi ai cento anni.
Tempio, 2 dicembre 1786 – Costante sempre e sincero, ti ama con tutto il cuore Gavino Pes che si chiama tuo vero vecchio amico.
Come ben si vede, don Baignu vive un profondo sentimento di sconforto, si sentiva dimenticato e abbandonato. Sarebbe vissuto altri otto anni. Le notizie sull’ultimo periodo ce le fornisce Pasquale Tola: li trascorse da vero uomo di Chiesa e di Dio, nella preghiera e nelle opere di pietà, consolando gli infelici con «generose sovvenzioni», abbellendo e decorando la cappella dedicata alla Madonna nella Chiesa del Carmine officiata dai Padri Scolopi. Tola dice che diventò insomma «un altro uomo assai diverso da quel di prima, e diede un esempio bellissimo di ravvedimento da quelle, ch’egli chiamava, sue passate follie».
Non sappiamo quando esattamente Don Baignu torna nel suo paese natìo: da un lato abbiamo la lettera a don Nicolò Valentino del dicembre 1786 scritta a Tempio, ma poi abbiamo la Canzona Timpiesa “Istracca musa mea” scritta e pubblicata presso i tipi della Reale Stamperia, nel 1788 a Cagliari in onore di Michele Antonio Aymerich, ordinato vescovo di Ales. Forse in questi anni stava un po’ in entrambi i luoghi. E siamo alle soglie del 1790.
Gavino Pes – don Baignu, morì il 24 ottobre 1795 all’età di settantuno anni, mentre divampavano per l’Europa le guerre contro la Francia rivoluzionaria e La Maddalena s’era dovuta difendere (1793) dal tentativo di occupazione per mano addirittura del giovane Napoleone Bonaparte, prossimo a dominare la scena internazionale per i successivi vent’anni. Fu sepolto nella chiesa dei frati osservanti, dove lo erano anche gli altri familiari, sotto il pavimento della prima cappella di sinistra.
Questo l’atto di morte conservato presso la Curia Vescovile di Tempio (in Giulio Cossu, Quel gallurese cit., p. 19):
«Anno Domini Millesimo Septingentesimo Nonagesimo Quinto, die 24 octobri – Templi – Nobilis et rev.dus Do.nus Gavinus Pes oppidi huius filius D.ni Antonii, annorum septuaginta et unius domi suae et in Com.ne S.M.E. animam Deo reddidit confessus Canonico Josefho Podda et SS Viatico refectus. Sacra olei Unctione roboratus per Beneficiatum Leonardum Oggiano, testamentum fecit coram Notario Gregorio Cossu Mariotu, cuius corpus sepultum est in Ecclesia Fratrum Obs.tium. De quo beneficiatus Franciscus Saragato».
Si dice che prima di morire don Baignu avesse bruciato molte delle sue poesie giovanili, quelle più ardenti e sensuali. Peccato, ma quelle che ha lasciato lo hanno reso in breve tempo uno dei più grandi poeti del Settecento in Sardegna.
[Presentazione di Giulio Cossu]
«In questa seconda parte del canzoniere sono raccolte poesie di argomento vario, dove la vocazione poеtica sembra rivolta ad altri tentativi di tematica diversa da quella vera e propria dell’amore che è dominante in tutta la produzione. Vi si trovano pubblicati per la prima volta alcuni epigrammi, che la tradizione vuole improvvisati e che sono stati tramandati oralmente. Non figurano infatti in nessuna raccolta manoscritta.
Vi è compresa poi quella che io vorrei chiamare la «tenzone con Don Bernardino», costituita da uno scambio di poesie di cui due molto lunghe e interessanti per i riferimenti biografici riguardanti il periodo cagliaritano del poeta, scritte in forma di epistola.
Eccettuati i molto noti componimenti finali, si tratta di una produzione un po’ fiacca e convenzionale che tuttavia testimonia sempre un impegno di poetare che deriva anche da una consuetudine di scuola, quell’Arcadia Gallurese da me citata, che spinge i poeti quasi a gareggiare tra di loro in bravura per puro diletto intellettuale. Produzione che fa presupporre un pubblico iniziale ristretto, di intelligenza abbastanza raffinata e dotta (si vedano i riferimenti mitici non certo di dominio popolare: Astrea, Salomone, Sansone, Arione etc.), propria di riunioni salottiere di sacerdoti e cavalieri.
La tematica si limita sempre ai giochi amorosi, agli interessi psicologici, al gusto del «donneare», più maliziosamente che sentimentalmente trattato (1).
(1) Don Gavino aveva scritto da Cagliari una lettera al cugino Don Bernardino Pes lamentandosi perché gli era stato riferito che aveva parlato male di lui. Don Bernardino aveva evidentemente risposto con una lettera di giustificazione e Don Gavino aveva risposto pregando di compatirlo.
Di qui l’altro scambio epistolare che qui si riporta: Don Bernardino dice di compatire Don Gavino e quest’ultimo risponde che gli è obbligato del compatimento.
BERNARDINO COMPATISCE …
1. Ti compatisco e tu perdona quanto contro di te (vadano alla malora) hanno detto cattive lingue. Gavino, non affliggerti per questo, né datti pensiero, poiché conosci il modo di fare di coloro che non sanno fare altro che dire male della gente per bene; e tanto più grave è il tuo caso, Gavino, che oggi è conosciuto da ogni creatura più innocente: ogni creatura che sa appena dire babbo conosce la tua storia.
Che il sesso femminile ti abbia tolto memoria, scienza e virtù? Io, se bene conosco chi tu sei, per darti pace e soddisfazione, devo dire con tutto ciò che sei più giusto di uno zecchino romano, che corre anche se vi manca qualche grammo.
E devo dire con tutti che sei diventato un santo, una meraviglia, un prodigio, uno sgomento di codesta capitale.
Il fatto si è, se certuni mi daranno credito, sapendo, amico mio, quello che sanno, che ti dà gusto e ti piace offrire con le mani consacrate incenso e culto a tutte le ore anche a quell’idolo di Stampace. Bernardino compatisce …
2. Da casa a Stampace, tuttavia, impiega più di un’ora un uomo di buon passo.
Lo spasso non ti dà mai stanchezza, né pena la distanza. In sostanza, quando si tratta di praticare il culto per qualche idolo, allora sembra più facile e più breve la strada più lunga.
Né dà molestia il sole più vicino col segno più forte. L’uomo che per buona o cattiva sorte si trova in quest’impiccio può dire che non è sicuro per lui nel cassetto neanche un soldo.
Pietra con pietra soltanto non possono fare un muro sicuro. Solo la malta e la calce lo rendono consistente.
In codesta capitale l’uomo senza soldi ha il valore di quattro agli. L’uccello non può volare senza le ali né fare il suo nido in alto.
Come succede a te per sventura e cattiva sorte. Se no, oggi, mille volte saresti andato in fretta per i negozi con la tua cappetta, vestito da abbatino, a cercare stoffe di tutti i colori, perle fini, braccialetti, merletti, broccati, mantiglie e ricchi diamanti, riempiendo i libri dei mercati di mille X, fino a raggiungere, Gavino, un seggio più alto. Fino a che un palo più alto e miglior leva, con braccio più possente, ti cavassero molari e denti, come a tizio e a caio.
Fai bene per questo, adesso, a cercare la tua fortuna anche con la più comune ed umile creatura. Poiché temi le cadute dall’alto che si prendono a Cagliari, dove si perdono i quattrini e il cervello dove meno si pensa. Per dirti questo non ti faccio offesa, né turbare la tua pace, se dico a quattro linguacciuti che ti spassi a Stampace. Bernardino compatisce.
3. Quando avevi i capelli biondi andavi come sanno Dio e il mondo, a passo doppio.
Adesso, Gavino mio, che per il tuo stato diventi calvo e canuto, vai basso, cascante, piano piano, umile, a certe grotte, fermandoti alle stazioni come tutti gli altri preti esemplari, consumando timagna su ogni altare senza badare al risparmio.
Se tu Gavino, aspetti a dirti basta, hai un bello sbadigliare! Non si trovano sanguisughe e zecche più belle di quelle. E non può trovarsi migliore fibbietta di cravatta.
Hai pensato, amico mio, di cambiare stato e fortuna, considerando che solo una nel mondo si fece ingrata. In ogni terra e in ogni paese esiste questa gramigna.
Nata sulla roccia e sulla sabbia del mare non si sazia mai di acqua, perché rassomiglia a una certa razza che nasce nel Nilo, la quale, dopo che incanta, si pasce di cuori di gente passeggera. Non abbiamo tutti la cera di Ulisse per tapparci le orecchie.
Nelle tue condizioni, amico, sono molti a subire questo colpo. Neanche le persone intelligenti e dotte conoscono chi sono. Tanto più tu, Gavino, che hai mille pugnalate in petto.
Bernardino compatisce.
4. Maria e Marianna hanno riso molto delle tue peripezie. Una di loro mi ha detto, non ricordo quale (non so se è Marianna o se è Maria quella che mi dà l’incarico), di impegnarti a metterti in piega con sollecitudine ben composto e tranquillo.
Forse stai a scegliere, a volte, tra le mani, a qualsiasi costo, un anello guarnito e ben composto con una perla, ornato di brillanti, montato alla moda, di bell’aspetto, di buon uso e buon profilo, di tutto tuo genio.
Quando, nelle trattative, si parla dell’importo, non fare il difficile, perché sono pietre di gran costo e hanno valore. Qui non si trovano pietre così brillanti e di prima qualità!
Nelle nostre pietre trovi da tutte le parti mille difetti. Non dare tanto credito al mercante, prima di definire il prezzo; né fidati tampoco del tuo gusto, perché ci sono pietre false che, una volta pagate, se le guardi bene e scopri l’inganno, puoi pure, ma senza vantaggio, lamentarti col mercante che ti ha dato per vera e per brillante la pietra impura e granosa.
Tieni la cappa e la sottana, per amore di Dio: perché in quei luoghi dilaniano, quando hanno qualcuno tra le unghie. Rivoltati a calci uncinati, a bolzoni ed a pugni, se ti danno scampo e fuggi come un lampo e prendi il monte; poiché quanto più conti farai con loro, uscirai sempre in passivo. Se farai tutto quello che ti ho detto, la vittoria è chiara.
Se vuoi vedere limpido il Limbara devi comportarti così. Ché se poi il cuore ti dice di lasciare quella capitale, la crudele battaglia è finita da adesso. Sa Dio quanto è grande la pena per chi la soffre e sta zitto! Per dare soddisfazione a Maria e a Marianna, piantali in asso.
Bernardino compatisce.
5. Tutti i tuoi talenti, sebbene prodigiosi ed eccellenti in maniera distinta, non hanno fatto né mastello né pinta, né croce né testa; perché a chi non dà fa cattiva grinta la donna avida; ella non vuole sonetti né carte piene di complimenti, perché più degli strumenti le piace il suono della borsa: questo è il suo raffreddore, la sua tosse che soffre di continuo. E se vuoi appianare questa via non vi è né miele né olio: specifico più indicato è un orologio di ripetizioni. Gavino, i sonetti e le canzoni non hanno nessun merito. A scuola dicevano: è il presente che fa il passato. Ti consola una cosa, Gavino: sei solo di passaggio. Altrimenti cercheresti da mangiare con le ranocchie e col basso, quando, meschino, ti avessero rosicchiato polpa e osso, se mai ti ho visto senza calzoni e senza collarino. Non tocco questo tasto, chè ti rattristo e ti faccio malumore.
Come ha rosicchiato e cotto te quella turca maligna, che ti ha ridotto peggio di una tigna, calvo e sbilenco, così e peggio di te è diventato oggi il povero Nicola, con i pantaloni rattoppati a spago che fa pena; quando ha perduto i miei e i tuoi cagliaritani, con sentimento, dolori e pesi, si è piegato i risvolti. Pare che sia stato in mano a’ Mori un’infinità d’anni.
Vedi, amico mio, in quanti affanni ti pone la donna? Se fosse stato attento nello stringere il pugno non si svenderebbe oggi come ricotta salata per materiale pregiato da filare. Perché voi avete fatto più danno e male alla comunità di Rossù in tanta tempesta e diluvio di sacchi, presentandovi a tutte le ore con prezzi pazzi, ad ogni alzata di occhi, quando, con quattro setole di finocchio e con minor condimento, facevamo righette, fiori e diminuzioni in qualsiasi calza. Oggi, per diminuire, la finezza più leggera cresce e si solleva.
Per non vedermi in mano a quegli ebrei, per il mio genio, meglio mi gioco in grazia di Dio i miei anni ai dadi.
Bernardino compatisce.
OBBLIGATO, BERNARDIΝΟ!
1. Obbligato, Bernardino! Ti sono obbligato: ti rendo mille distinte grazie per quello che ti devo. Non è virtù, non è merito mio, ma della tua bontà: dai a me tutti i pregi che io conosco in te. Questo detto non è iperbolico, né voto mio soltanto; perché il tuo talento prende un volo così alto e sublime che sale, quando vuole, fino alle cime della virtù e della gloria: con arte rara trasformi in vittoria un’oscura sconfitta. È sicuro che io non facessi altrettanto nella mia giovinezza.
La tua finezza, la tua prontezza, sono una rarità: tu non sai dare buffetti, però fai a tempo giusto certi solletichi che sono cattivi da sopportare; anche quando fanno ridere, si ride rumorosamente. Sembra che tu tocchi il costato e le spalle leggero leggero. Con la stessa mano, quando ferisci, dai pronta la cura. Almeno lasciassi una via di scampo, per sfuggirti di mano; non lasci un osso sano a coloro che aggredisci, e tutto scherza scherzando. Motteggiando in casa dell’impiccato, parli di corda.
Cosa c’entrava adesso Nicolò, ritornato da poco?
Poiché tu, in questo modo, anche non volendo, l’hai costretto a entrare in ballo. Non immaginavo che Nicolò ti negasse ciò che è tuo.
Il peggio è che non ha né il tuo né il suo per osservare il diritto. Chè, per non incorrere in tale delitto, vuole che paghi un altro.
Anch’io, fino ai capelli, sono pieno di debiti e di pesi. Hanno un bel gridare i miei buoni creditori tempiesi; devono aspettare a farmi rispondere, perché non posso pagare; sono come chi cade in un fosso e non ha aiuto.
È a tutti notorio che è più grave l’impiccio di Nicolò, perché presentemente non può vendere neanche (gli orti di) Valentino (1) – Obbligato Bernardino!
(1: Il moderno rione Valentino di Tempio, oltre la circonvallazione omonima, sorge sugli orti citati nella poesia «Obbligatu Birraldinu», orti di proprietà dell’intestatario della lettera).
Nicolò e Gavino, quando si trattava di ambizione e di carezza erano singolari; e tutti e due correvano pari con buon vento e fortuna. Quando lui dedicava amore ad una, io l’offrivo all’altra.
Lui, è vero, saltellava di qua e di là, io, però costante, mi ornavo della fama di essere buon amante, con tutto decoro. Basta: noi eravamo famosi come il bue di Biddhoru.
Però non devi ridere se eravamo tanto traviati: eravamo così da giovani, non in età matura.
Non dico vecchi, poiché sono anni ed anni che noi diamo al mondo prove evidenti e chiare di uomini di gran senno.
Sembra da giovani, davvero, qualcosa che si dice accaduto a Nicolò! Sono pochi anni che, facendo lo spaccone (tu capisci cosa voglio dire), volle dare dodici scudi a una che gli cadeva a genio; però, dopo la convenzione, a partita finita, pianse tanto che credevo perdesse la vita. Ohimé, disse, quanto mi pento della follia commessa!
Può darsi dissipazione più sconcia della mia, Gavino? Oggi sono al punto di fare altri debiti, perché ho speso tutto e ho perduto ogni centesimo per colpa di un’infame.
Fuggi, Gavino mio, se tu brami la tua tranquillità! Fuggi dalla donna, perché non ne troverai mai il fondo.
Che il mondo, Gavino, sia tutto inganno, lo puoi dedurre da me. Lo conosco, lo vedo: è così. Io gli dissi ridendo, – lo mi trovo oggi impegnato in più alte e serie faccende. Non ti posso negare che, da giovane, io ebbi questa debolezza; oggi però, con tono e voce flebile, compatisco te solo.
Chi si ricorda di quando portavo la mia catena? Io stesso mi ricordo appena del computo dell’anno; io la ruppi, se non mi inganno, l’anno di Cinciarino. Obbligato Bernardino!
3. Nicolò gridava e sosteneva che io equivocavo nel conto degli anni. Lo sentivo dire che era successo, credo, nei primi inganni: così lo lasciai a borbottare.
Però tu, Bernardino, puoi informarti da Pietro Molino, il Beneficiato.
Poiché lui è informato della mia vita come io della sua.
Interrogalo bene tu, per la tua vita, chè saprai da lui quanti anni sono che io rassomiglio a un angelo in carne.
Quando a tutte le ore perdevo i ferri, allora ero puledro.
Ma, da quando ho in tutto imitato Pietro, il mio fratello caro, da lui, tutti i giorni, vedo e imparo insegnamenti morali.
Quando Pietro cessò di fare il male, cessai anch’io. Fa’ tu il conto degli anni, Bernardino mio; adoperati per quanto puoi con i piedi e le mani per vedere se ti piace l’epoca più giusta della mia vita, insieme a Molino. Egli ti porrà sulla buona strada perché è un uomo integro, specialmente adesso che è agli ordini di Dio, povero sacerdote!
La pentola, la cappa, il cappotto, e un buon gatto con cui conversa, con cui gioca e conferisce, perché non ha più cane.
E non ne può più, perché non dà più pane a cane senza fede. Come oggi si vede così malsano né morde, né abbaia.
La flogosi che ha nell’inguine lo molesta e molto.
Oggi le sue piaghe sono tante e tante che questo è un gran tormento che non si ricorda più dei seguaci di Cristo.
Quali pene sopporta! Ah! l’uomo non è come una volta!
Adesso ne abbiamo la prova.
Io con Pietro, in questo mondo, siamo due sacchi abbandonati: lui non esce dai crociochi del grande rione Montimasa, e a me rinfacciano che mi adagio adesso in quei luoghi. E quanto quanto male direi contro chi mi flagella!
Buon testimone è Antonio Pasella di tutti i miei passi: egli sa bene che Gavino non cammina in quei luoghi bassi, egli che ha tenuto la candela anche nella Marina e a Castello anche, per favorirmi non solo per un’ora, ma anche per più di due.
Se la Musa mi ispira tanto brio, oggi che sono invalido, quanto più me ne doveva infondere nel tempo in cui ero caldo più del Mongibello?
Fermiamoci qua: perché faccio appello all’alto tribunale di Astrea perché si dichiari se mai quei tali avessero coscienza, fulminandomi in testa la sentenza di un uomo da niente, rinfacciandomi svergognatamente che sono stampacino. Obbligato Bernardino!
4. Sono di un’altra sfera: non credere che io sia più com’ero, spogliato, meschino, senza pantaloni e senza collarino. Ahi, sorte tiranna! Con la cappa fasciata e la sottana nei giorni di più gala. Oggi, quando salgo e scendo in qualche scala, sebbene senza moneta, mi riconosce al suono della seta la gente di casa.
Neanche la mia borsa è magra nel concetto di alcuni. Per questo cerco le ore opportune che posso, in versi o in prosa, evitare che mi chiedano qualche cosa persone che hanno bisogno.
Anche di questo è testimone buono il lodato Antonio. Se qualcuna mi mette alla prova di farle qualche regalo, ahimé, che terribile faccenda sarà per me questa, dopo che ho speso il mio poco bene per fare quell’anello a colei che ti ha dato tanto fastidio per caricarla su di me! Per dirtela, il costo della gemma è conforme alle mie forze; perché ancora porto le scarpe rimontate che mi hanno fatto indossare a Tempio. La perla è gemma di gran costo, bella e all’ultima moda, di occhio brillante, allegra e di bel profilo: è l’unica a Cagliari; la pretendevo per farmi un anello di rara montatura. Se riesco ad averla, non torno in Gallura per nessun rispetto.
Poveretto, credevo di poter corrispondere il prezzo piano piano, quando ho la notizia, quando vengo a sapere che qualcuno l’ha comprata dal mercante con denaro contante o forse a credito. Senza dubbio mi si sono sconnesse arterie, fibre ed ossa, oggi che quello se ne va a Marrubiu e se la porta in dito, essendone geloso più di un cattivo marito nei riguardi di una buona moglie.
Sarà disprezzata quindi dagli zoticoni e dai selvaggi. La perla è nata in quei mari. Ah, potenza infinita! E accadrà che, o perla, starai per sempre inter porcos! Obbligato, Bernardino!
LETTERA A DON NICOLO’ VALENTINO, DI SASSARI
Nella tua lettera, amico prediletto, vedo l’antico genio, vedo l’antico affetto; e nella mia risposta vedrai, o dolce amico, quello stesso genio e quell’affetto antico.
Ti rispondo in versi, perché la tua lettera, scritta con tanto amore ha suscitato il buon umore nella mia povera musa, stanca, abbattuta, annosa.
Temperando la vecchia cetera polverosa, tu dai ad essa materia di cantare, di piangere, con gli stimoli di un tempo che tu hai rinnovato.
Nel vedere la tua firma, mi è ritornata alla memoria la sognata gloria dei nostri primi anni e ho pensato che abbiamo trascorso la nostra giovinezza in una faticosa e misera servitù.
I nostri primi anni e l’età matura abbiamo buttato via in una vita oscura.
Io (oh, flebile pensiero!) che ho sempre alimentato la follia e la debolezza di poeta, ponevo tutte le mie delizie, ed erano delizie sapide, nel descrivere le grazie di una rosa: questo era il mio impegno e alla fine ne ebbi il solito compenso di triboli e di spine. Tu, che nutrivi in petto la mia inclinazione, o mai o poche volte ti sei espresso nel canto, perché non esternavi i tuoi sentimenti in sottigliezze poetiche, ma ti servivi di una prosa soda e sciolta.
In noi due era la liberalità che produceva per l’appunto gli effetti della liberalità.
Tu stavi sempre sul confine del risparmio, tutte le volte che ti vedevi a corto di quattrini. Quando avevi soldi, eri d’accordo con me. Eri buon economo quand’eri senza un centesimo.
Con questo tenore io e tu andavamo avanti, guadagnando terreno in scienza e virtù.
Così siamo vissuti, così siamo invecchiati, fino a che il destino ci ha poi separati.
Dopo tutto questo, essendo distante da te, ho fatto anch’io il cavaliere errante; ho abbandonato la patria con brio e con impegno, ho visto il meglio del povero Regno: sono tornato a casa pieno di disinganni, tutto mortificato dagli anni e dai danni; e così me la passo, né malato né sano, con le lacrime agli occhi e col breviario in mano.
Trovo il mio passo nella mia camera. Se vado a fare qualche passo, qualche giorno, per poche ore, mi fa compagnia solo il confessore. Lo stare con gli altri mi rattrista, mi dà noia, mi molesta. Per me è tutto dolore ciò che per altri è festa.
Ah, se potessi trascorrere almeno sei mesi in quel paradiso terrestre dove tu sei.
Ah, Nicolò mio, quando penso a Sassari, mi ricordo del cielo, del suo immenso gaudio e se, dico, Sassari rassomiglia al cielo, è solo la ragione che mi consiglia a dirlo. In tutte le stagioni (la mia sentenza è vera), in tutte e quattro, è sempre costante primavera: nei suoi figli, dell’uno e dell’altro sesso, si divide un complesso tra il buono e il meglio. Nelle sue dame poi, che voli smisurati! Mi pare di toccare la sfera del sole.
Ogni sua figlia, o elevata o popolana, pare che porti in volto i raggi della luna. Nelle scienze poi, nelle arti, nel buon gusto, pare che Sassari abbia un Mecenate Augusto. O Dio, non posso più, chè la materia è tale che richiede un ingegno più che naturale.
Da ultimo, fratello, ti prego e ti scongiuro, che procuri di stare sano, come io lo procuro. Presenta i miei complimenti a tutta la tua famiglia, che sarà ben persuasa del mio buon cuore. Salutami gli amici e fa esibizione della mia servitù ai miei padroni.
Inoltre, caro fratello, ti raccomando e ti prego che nelle tue raccomandazioni sii prodigo con me. E voglia tanto Iddio che tu arrivi ai cento anni.
Tempio, 2 dicembre 1786
Costante sempre e sincero, ti ama con tutto il cuore Gavino Pes che si chiama tuo vero vecchio amico.
La vita di Gavino Pes-Pes, più noto come Don Baignu, si svolse interamente durante il 1700. Infatti, era nato nel 1724 a Tempio, dove morì nel 1795. Poiché faceva parte dell’élite del centro gallurese, il padre avvocato avrebbe voluto avviarlo a una professione liberale. Ma egli preferì il sacerdozio, divenendo un padre scolopio.
Si deve forse a questa sua scelta il nomignolo di Don Baignu con cui fu noto ai suoi tempi ed è noto tuttora. […]
Il tema dell’amore, che affiora in gran parte delle sue poesie, potrebbe apparire occasionale e distaccato dalla realtà se si considera che egli era un religioso.
Ma per intendere appieno questo aspetto bisognerebbe avere una visione più aderente ai costumi sociali del 1700 quando pure i religiosi, specialmente quelli di livello più elevato, potevano avere delle relazioni amorose senza destare particolare scandalo. […]
Ecco alcune considerazioni in cui, ormai vecchio, rimpiange gli anni trascorsi a Sassari e manifesta il suo disinganno in una Tempio che gli sta stretta:
«La Patria abbandunesi, e cun briu e impegnu/haghju vistu lu meddhu di lu poaru Regnut. / Turratu socu a casa pienu di disinganni / troppu multificatu da l’anni e da li danni. / E cussì mi la passu ne malatu ne sanu/cu’li lagrimi in l’occhi, e a briviariu in manu. / In lu me’ appusentu incontru lu me’ spassu, / solu passu li di, solu li notti passu. / S’andu a dà quattru passi calchi di pochori / mi faci cumpagnia solu lu cunfissori. / Lu cummelziu mattrista, m’infada, mi mulesta, / tuttu pal mè è dolu lu chi pal l’alti è festa».
«La Patria abbandonai, e con brio e impegno / ho visto il meglio del povero Regno. / Sono tornato a casa pieno di disinganni/ troppo mortificato dagli anni e dai danni. / E così me la passo né malato né sano. / Con le lacrime agli occhi e col breviario in mano / nella mia stanza trovo il mio spasso. / Da solo passo i giorni, da solo le notti passo. / Se vado a fare quattro passi talvolta per poche ore / mi fa compagnia solo il mio confessore. / Il commercio m’attrista, mi stufa, mi molesta. / Tutto per me è dolore quel che per gli altri è festa. […]
Don Gavino Pes ebbe i natali in Tempio il 31 luglio 1724. Il padre Antonio e la madre Maddalena Sanna erano persone virtuose e di alto rango per il loro ambiente. Ebbero altri sette figli, che educarono con grande dedizione per farne onesti cittadini e buoni cristiani. Per il figlio Gavino il padre aveva sognato le glorie del foro, ed essendo avvocato di buona fama egli stesso si era adoperato perche proprio questo figlio, di belle speranze, seguisse le proprie orme paterne.
Fu determinante nelle sue scelte di vita l’opera affettuosa e solerte del suo precettore, il canonico Diego Ferrau, che gli prospettò, tra le altre carriere possibili da scegliere, anche quella di prete.
Questo disegno andò maturando per l’esempio e l’insegnamento dei Padri Scolopi, che avevano aperto e dirigevano in Tempio un collegio di ottima fama.
Prete e poeta
Don Baignu lo frequentò con frutto e vi apprese le lettere umane, fondamento del suo amore per la letteratura e per l’arte poetica, che in seguito avrebbe praticato con vivissima passione e che lo avrebbe reso famoso. Subito dopo si dedicò agli studi filosofici e teologici, che superò con buoni risultati.
Il corso della formazione scientifica si concluse con l’ordinazione sacerdotale; in questa scelta di vita trovò sbocco una carriera che gli permise di dedicarsi quasi totalmente alla poesia. «Lo studio suo prediletto furono i libri poetici, ed in questo spese gli anni suoi giovanili, ed una parte ancora dell’età matura, non mutato dal sacerdozio, né persuaso dagli amici che lo incitavano a pensamenti più gravi».
Questa dedizione pressoché totale alla poesia, gli fu possibile perché era libero da altre cure e preoccupazioni e ricco di beni di fortuna provenienti dall’asse familiare, titolare di un beneficio semplice di cui era abate e perché ottenne una grossa pensione ecclesiastica da un canonico di Cagliari, al quale aveva rinunciato in suo favore don Antonio Francesco Pes, suo zio paterno.
Va ricordato a suo demerito, in fatto di soldi e di redditi beneficiali, che egli fu uno degli strenui oppositori alla erezione delle quattro parrocchie campestri: San Teodoro in Oviddè, Santa Maria della Neve in Arzachena, San Francesco d’Assisi in Aglientu, San Pasquale Baylon in Porto Pozzo, giudicate indispensabili per creare centri di assistenza non solo religiosa, ma morale, civile e sociale nella fascia litoranea gallurese.
Egli si mostrò contrario a quell’iniziativa, patrocinata non solo dal vescovo Francesco Maria Guiso ma anche dal ministro Bogino, perché avrebbe dovuto rinunciare a parte del reddito dei suoi benefici, da destinare, come di fatto per buona sorte avvenne, al sostentamento dei parroci di quelle nuove parrocchie.
Risolta così la questione economica, senza gli affanni dei comuni mortali che devono lavorare per vivere, non sottoposto agli stimoli del bisogno, era inutile che cercasse impieghi ed onori.
Allora «si rimase tranquillamente nella sua patria, poetando di bellezze, di piaceri, di amori, e menando giorni sollazzevoli nella innocente semplicità della vita privata […]».
Don Baignu spese l’ultimo periodo della sua vita nella preghiera e nelle opere di pietà e misericordia. Diventò un altro uomo e diede chiaro esempio di ravvedimento da quelle che egli stesso definì le sue «passate follie».
Sua cura principale fu, anche per i molti mezzi materiali di cui disponeva, soccorrere i poveri e gli infelici. Fu particolarmente devoto alla Madonna del Carmelo; abbellì, decorò e arricchì anche con alcuni legati la cappella a Lei dedicata nella chiesa dei Padri delle Scuole Pie, quella chiesa oggi trasformata in teatro.
Giunto all’età di settantadue anni, attaccato da fortissime febbri, cessò di vivere a Tempio il 24 ottobre 1795. Fu sepolto nella chiesa dei Frati minori osservanti. È un vero peccato che la città di Tempio si sia dimenticata così presto di un figlio tanto illustre, e nessun segno ricordi le ceneri del Vate di Gallura, che certamente riposano sotto il pavimento della prima cappella di sinistra di quella chiesa.
PES (Gavino), poeta vernacolo, nato in Tempio nel 1725 dalla stessa nobile famiglia dei precedenti. Dalla natura ei trasse animo molto gentile, feconda vena di poetico ingegno, cuore appassionato: conseguì poi dai lunghi suoi studi sopra le lettere amene ed i migliori poeti latini ed italiani quell’arte senza la quale non è dato di scrivere con giudizio e forbitezza di stile.
Pertanto dalla più fresca età si pose a verseggiare nel natio dialetto in diversi metri, e specialmente in sesta ed ottava rima.
Ma meglio di ogni altro genere di poesia la erotica accomodava alla sua facile musa: sicchè nella patria terra veniva tenuto pel poeta dell’amore.
Nel suo congiunto D. Bernardino Pes trovò egli un emulo poeta che lo accendeva a più elaborate composizioni: e con esso infatti corrispose di frequente in verso sì in Tempio, che in Cagliari, dove per alcuni anni stanziò il Gavino Pes.
Finalmente si fece sacerdote, e venuto in età grave, cantò il pentimento delle terrene follie.
Morì in Tempio nel 24 ottobre del 1796, in età d’anni 71 [è un chiaro lapsus visto che poi scrive 71].
Delle molte sue poesie abbiamo soltanto colle stampe le due intitolate: Il Pentimento, inserite nel volumetto, Canti popolari (Cagliari, 1833). Le quali di per sè comprovano che in questo poeta eguali alla vivezza della immaginazione, ed alla coltura della mente erano la spontaneità ed armonia del verso, le grazie del dire, e la dirittura e delicatezza nei pensieri e negli effetti.
PES (GAVINO),
distinto poeta gallurese del secolo XVIII. Nacque in Tempio nel 51 luglio 1724 da Antonio Pes e Maddalena Sanna, nobili e virtuose persone, le quali, oltre a questo, ebbero ancora sette altri figli, che piamente e civilmente educarono. Il padre, che era avvocato di qualche grido, voleva ch’egli si applicasse al diritto ma l’anima poetica del figlio non patì d’essere incatenata da quelle aride dottrine; e l’immaginazione sua, ardente per natura e per gioventù, sdegnò i cavilli del foro.
Fu suo precettore il canonico Diego Ferrau, e le umane lettere imparò nelle scuole pie della sua patria. Attese per alcun tempo agli studi teologici, e sorpassò la mediocrità: però lo studio suo prediletto furono i libri poetici, ed in questo spese gli anni suoi giovanili, ed una parte ancora dell’età matura, non mutato dal sacerdozio che abbracciò, nè persuaso dagli amici che lo incitavano con belle speranze a pensamenti più gravi.
Ricco di beni di fortuna, e pel reddito di un beneficio semplice, di cui era abate, ottenne ancora una grossa pensione ecclesiastica sopra un canonicato della cattedrale di Cagliari rinunziato da D. Antonio Francesco Pes suo zio paterno. Per la qual cosa, vivendo agiato e senza cure, non bramò onori nè impieghi, ma si rimase tranquillamente nella sua patria, poetando di bellezze, di piaceri, di amori, e menando giorni sollazzevoli nella innocente semplicità della vita privata.
Le sue poesie sono inspirate da questo suo genio leggiero, pieghevole, amante e quasi idolatra del gentil sesso. […]
Sono le poesie di un trovatore nazionale, che cantò con più fortuna degli altri i varii casi d’amore, le passioni, le dolcezze, gli affanni, gli sdegni, le paci degli amanti.
Preso egli stesso alla bellezza di questi ami, nelle finzioni e nelle immagini della sua vivace fantasia espresse l’ardenza dei suoi affetti, e cantando dei casi altrui narrò ancora i proprii; e così, amando e poetando passò gli anni, finchè tra questi bei sogni e follie si trovò giunto alla vecchiezza.
Allora cantò con dolente metro gli errori giovanili, e scrisse due canzoni robuste e sentenziose sul Tempo, e sulla Vecchiaja, che sono meritamente riputate le sue produzioni migliori.
Lo spirito del poeta, che avea ciecamente navigato un mare lunghissimo e procelloso, si riposò finalmente sull’altezza di una rupe secolare sovrastante al lido, e mirando i pericoli, dai quali era scampato, sciolse un cantico mesto, maestoso, solenne, in cui la confessione del fallire è sanata dal pentimento, il pentimento sublimato dalla speranza di una vita migliore. […]
Al tenore di queste poesie, gravi, sentenziose, melanconiche corrisposero esattamente gli ultimi anni della vita dell’illustre cantore.
Si astenne costantemente dal più poetare, e mandò alle fiamme moltissimi suoi componimenti, che troppo accendevano colle dolcezze della melodia poetica l’amor profano.
Dividendo il suo tempo nell’orazione, e nelle opere di pietà, diventò un altro uomo assai diverso da quel di prima, e diede un esempio bellissimo di ravvedimento da quelle, ch’egli chiamava, sue passate follie.
Esercitò allora con più frequenza quelle virtù ch’erano proprie del suo cuore, tra le quali ottenne il primo luogo la compassione per gl’infelici, che consolò sempre con generose sovvenzioni.
Nella chiesa dei PP. delle scuole pie abbellì e decorò con particolari legati la cappella dedicata al nome di Maria erettavi dai suoi maggiori, e fece molte altre opere generose, che confermarono la saldezza dei suoi sentimenti religiosi.
Così giunto all’età di settantadue anni [no: settantuno], oppresso da febbre micidiale cessò di vivere nella sua patria addì 24 ottobre 1795, e fu sepolto nella chiesa dei frati osservanti, dove riposano le ceneri dei suoi antenati.
Le sue poesie, inedite tutte, ad eccezione delle due canzoni sul Tempo e sulla Vecchiaja, che sotto diverso titolo furono stampate in Cagliari nel 1835, meriterebbero di essere raccolte in un volume, ma con quella parsimonia, e con quel giusto criterio, il quale non ingozza tutto alla rinfusa, e sa vagliare il grano dalla mondiglia, e ricorda sempre che anche il divino Omero alcuna volta dormiva. La quale fatica, se portata con onore e con pazienza, molto splendore accrescerebbe alle glorie verginali delle non inculte muse sarde.
LA POETICA DI GAVINO PES – DON BAIGNU
PES (Gavino), poeta vernacolo, nato in Tempio nel 1725 dalla stessa nobile famiglia dei precedenti. Dalla natura ei trasse animo molto gentile, feconda vena di poetico ingegno, cuore appassionato: conseguì poi dai lunghi suoi studi sopra le lettere amene ed i migliori poeti latini ed italiani quell’arte senza la quale non è dato di scrivere con giudizio e forbitezza di stile.
Pertanto dalla più fresca età si pose a verseggiare nel natio dialetto in diversi metri, e specialmente in sesta ed ottava rima.
Ma meglio di ogni altro genere di poesia la erotica accomodava alla sua facile musa: sicchè nella patria terra veniva tenuto pel poeta dell’amore. […]
Delle molte sue poesie abbiamo soltanto colle stampe le due intitolate: Il Pentimento, inserite nel volumetto, Canti popolari (Cagliari, 1833). Le quali di per sè comprovano che in questo poeta eguali alla vivezza della immaginazione, ed alla coltura della mente erano la spontaneità ed armonia del verso, le grazie del dire, e la dirittura e delicatezza nei pensieri e negli effetti.
Le sue poesie sono inspirate da questo suo genio leggiero, pieghevole, amante e quasi idolatra del gentil sesso. Dettate tutte in dialetto gallurese, vi si scorge una tenerezza, una delicatezza di sentimento, ed una spontaneità e morbidezza tale di verso, che rapisce nell’ascoltarle. A ciò contribuisce in gran parte l’armonia e la gentilezza della lingua, svelta, vivace, espressiva, come la fisonomia, i modi, le forme dei montani abitatori dell’alpestre Gallura.
Forse in alcune delle medesime si potrebbe notare la soverchia gonfiezza dei paragoni, l’abuso delle sentenze morali, e lo sdolcinamento delle espressioni: ma questi non erano difetti originali del poeta, come si ravvisa da varii luoghi delle sue poesie, improntati di molto fuoco, e nervosi ed acuti qual era l’anima sua; erano invece cattive abitudini d’imitazione metastasiana, di quel sommo creatore del melodramma italiano, il di cui genio perì con lui, nè risurse più mai, dacchè una turba di evirati poeti, che fu d’Italia danno e vergogna, sposò la musa italica a tutte le indeterminate blandizie della vita, e subordinò alla meretriciamente alla squisitezza del senso musicale (1).
Il Pes erasi formato da se stesso in questa scuola, e i suoi versi sono talvolta molli ed ampollosi, e quasi sempre cincinnati con arte assai discosta dall’agreste bellezza della vergine poesia nazionale.
Lo splendore delle cadenze ritmiche serve spesso ad occultare la povertà o la debolezza dei sentimenti; e confrontando le sue poesie con quelle dell’Araolla, e con altre di più antichi poeti sardi, si riconosce subito la diversità del secolo, in cui furono scritte; quello tutto anima, tutto sentimento, tutto creazione, perchè non corrotto ancora da leziosi e forastieri ornamenti; questo tutto esagerazioni, tutto forme falsate, tutto parole.
La Sardegna ebbe in tal rispetto, nell’Araolla il suo Dante, e nel Pes il suo Frugoni. Abbenchè sia tale in totalità l’indole poetica del Catullo gallurese (che tale lo estimano, o poco meno i suoi conterrazzani), scrisse non pertanto in mezzo alle moltiplici sue poesie alcune canzoni, rimarchevoli per la naturalezza del verso, per la leggiadria delle immagini e per la nobiltà dei concetti. Tale, per darne qui qualche saggio, a noi sembra tra le altre quella che compose sulla infedeltà della sua donna, in cui con bell’artifizio, mette in contrasto la propria passione colla certezza del tradimento, facendo per finezza di amore, trionfar la prima, che è cieca, prepotente, irremovibile, sopra la seconda che non sa, che non osa, che non vuol persuadersi di tanta perfidia: […]
Bellissima per la semplicità è un’altra canzone intitolata La Timpistai (la Tempesta), nella quale finge il poeta di ricoverarsi sotto il tetto della sua amata, e di aver con lei un dialogo affettuoso, alla fine del quale viene a discoprire, siccome la sua bella contadina donava ad altri ancora i suoi favori. La medesima è una dipintura schiettissima degli usi, delle passioni, delle abitudini, e perfino dei modi più comuni di esprimersi del popolo gallurese, e sotto questo rapporto è improntata di una fisonomia tutta propria, che la rende più pregevole ed originale. […]
Di questo genere, ma la maggior parte amorose, sono tutte le altre poesie del Pes, le quali mantengono ancor oggi una celebrità popolare, e si cantano nella Gallura dalle donne, dai giovani, dai vecchi, e perfino dai fanciulli, nei conviti, nelle feste, nelle allegrezze pubbliche e private.
Sono le poesie di un trovatore nazionale, che cantò con più fortuna degli altri i varii casi d’amore, le passioni, le dolcezze, gli affanni, gli sdegni, le paci degli amanti.
Preso egli stesso alla bellezza di questi ami, nelle finzioni e nelle immagini della sua vivace fantasia espresse l’ardenza dei suoi affetti, e cantando dei casi altrui narrò ancora i proprii; e così, amando e poetando passò gli anni, finchè tra questi bei sogni e follie si trovò giunto alla vecchiezza.
Allora cantò con dolente metro gli errori giovanili, e scrisse due canzoni robuste e sentenziose sul Tempo, e sulla Vecchiaja, che sono meritamente riputate le sue produzioni migliori.
Lo spirito del poeta, che avea ciecamente navigato un mare lunghissimo e procelloso, si riposò finalmente sull’altezza di una rupe secolare sovrastante al lido, e mirando i pericoli, dai quali era scampato, sciolse un cantico mesto, maestoso, solenne, in cui la confessione del fallire è sanata dal pentimento, il pentimento sublimato dalla speranza di una vita migliore. […]
Al tenore di queste poesie, gravi, sentenziose, melanconiche corrisposero esattamente gli ultimi anni della vita dell’illustre cantore. […] Le sue poesie, inedite tutte, ad eccezione delle due canzoni sul Tempo e sulla Vecchiaja, che sotto diverso titolo furono stampate in Cagliari nel 1835, meriterebbero di essere raccolte in un volume, ma con quella parsimonia, e con quel giusto criterio, il quale non ingozza tutto alla rinfusa, e sa vagliare il grano dalla mondiglia, e ricorda sempre che anche il divino Omero alcuna volta dormiva. La quale fatica, se portata con onore e con pazienza, molto splendore accrescerebbe alle glorie verginali delle non inculte muse sarde.
Sullo stato attuale della Sardegna
Rivista europea. Nuova serie del “Ricoglitore italiano e straniero · Parte 1
Il dialetto della Gallura è incontrastabilmente uno de’ più moderni nell’isola, mentre vi fu introdotto colla dominazione de’ Pisani, che quivi più che altrove lasciarono impresse profonde traccie del proprio dominio. Essendo quindi un dialetto corrotto della lingua toscana, esso è ancora uno de’più dolci ed atto a rappresentare le più delicate passioni. Da questa prerogativa della patria favella deriva forse la particolare tendenza alla poesia manifestata in ogni epoca dagli abitanti di Tempio e di tutta questa parte settentrionale dell’isola.
Quivi appunto trovansi i più distinti improvvisatori, e qui le donne, intente a filare la lana, odonsi sovente gareggiare fra loro nell’arte d’improvvisare canzoni. […] ma quello che meritamente si può risguardare come il Metastasio della Gallura, per la spontaneità e dolcezza de’ suoi versi, si è don Gavino Pes, autore di varie poesie.
Non crediamo di poter meglio somministrare un’idea della grazia del dialetto e del merito di questo lirico sardo, che riportando una poesia da lui dettata sul Pentimento.
«Otto poeti concorrono a far bello il libro, anzi nove, tenendo conto del traduttore che ha dato opera a guastarli co’ suoi versi monchi e bastardi».
Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti
Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti
L’abate Gavino Pes di Tempio nella Gallura fu nel secolo scorso il più grande de’ poeti di quel luogo. Dopo le tempeste d’una disordinata giovinezza si raccolse appiedi della Croce e cangiò la lira di Anacreonte col tetracordo di Geremia.
La sua ode: Lu pentimentu, è degna di un grande poeta.
Furono pure di Tempio Pietro Spano e Salvatore Sanna autori di poesie religiose e filosofiche.
Giulio Cossu
Quel gallurese del Settecento così gentile, così raffinato
e
[presentazione a Il Canzoniere d’amore]
in
Tutti li canzoni.
Le straordinarie rime d’amore e di gelosia del ‘Catullo gallurese’ del Settecento
Cagliari, Edizioni della Torre, 1981 ⇒
[Estratti]
Letterato fine e sensibilissimo, egli ha preso come modelli gli autori nazionali di canzonette amorose, dove le parole perdono il loro significato logico per risolversi in puro suono, per disciogliersi in musica. Le strofe, rapide e volubilissime, vi si atteggiano in un ritmo di danza. E i modi musicali galluresi per chitarra le hanno infatti sapute adattare alla loro esigenza melodica, ottenendo come effetto una patina di facile e piacevole popolarità che però copre un’orditura di sottofondo letterario, esile e ripetuta all’infinito sino alla monotonia. […]
A parte il fatto che questa poesia ha fatto entrare per la prima volta il dialetto gallurese nella competizione della letteratura in lingua sarda.
Né si deve credere che essa, tutta aristocratica, rispecchi la realtà sociale dell’epoca in cui è stata composta. Epoca di gravi conflitti alimentati marginalmente in Sardegna dai barlumi dell’Illuminismo nascente. Gavino Pes visse nei decenni successivi al passaggio dalla dominazione spagnola a quella sabauda.
Nulla che riguardi questo momento importante è registrabile nella sua poesia, tutta ricavata evidentemente da un otium che scarta però anche le occasioni di fare poesia, spesso improvvisata, che il popolo utilizzava: feste paesane e campestri, graminatogghj, cerimonie nuziali e di battesimo, serenate, indovinelli, cantilene […]
Nulla che riguardi un feudalesimo in ritardo al tramonto. Solo registrabile, come un’eco di consuetudine di sottomissione dovuta al privilegio della nobiltà, tutta una terminologia psicologicamente simbolizzata: tirannia, schiavitù, catene, servitù, servizio, omaggio, zelo deferente, rigore di padronanza. Che è come dire trasporre in linguaggio poetico una gradazione di ceti considerata come naturale, istintiva come le vittorie, le sottomissioni o le delusioni d’amore. Insomma, il minuetto galante che l’epoca seguente accetterà come melodia e rifiuterà come tematica fatua, nel clima di rinnovamento col quale si chiuderà la letteratura italiana del Settecento.
La poesia di questo canzoniere, dunque, non deve essere assolutamente confusa con la poesia veramente popolare in dialetto gallurese, che ha origini e tradizioni diverse. E semplicemente poesia dialettale come quella del Meli in Sicilia.
La vera poesia popolare è più rozza in tutte le sue espressioni, meno ritoccata, più genuina e spontanea, più legata alla vita del proprio tempo, vera espressione di folklore, svincolata da ogni ambizione di forzatura di vocaboli per esprimere concetti elevati, di italianizzazione di sintassi, di ritmi, di contenuti, di modi di dire raffinati. Una documentazione di questa poesia di genere diverso lo ho dato nella prima parte del mio già citato volume di recente pubblicazione, edito dalla Fondazione Sechi di Tempio, Poesia dialettale in Gallura.
L’autentica poesia popolare gallurese tratta, come ho detto, generi molto lontani dal compiacimento letterario: mutti, ninne-nanne, indovinelli, canti di vendemmia, di graminatogghju e di strau, serenate, contrasti di semplici riunioni conviviali di stazzi e paesane: poesia che ha allietato le poche occasioni di trattenimento che poteva offrire un’epoca offuscata da tanti pregiudizi e superstizioni e priva di vie di comunicazione, di luce elettrica, di radio, di televisione, di giornali e, in generale, per così dire, di alfabetismo.
Il discorso, a questo punto, può diventare interessante, ma non è questa la sede per ampliarlo. Io mi limito ad accennarlo con qualche esempio. La serenata gallurese è una derivazione della serenata spagnola. Dallo spagnolo despertar (svegliare) è diventata disispirata. Con qualche variante si chiama anche cantu di ghjanna. Il canto di graminatogghju, legato al cerimoniale primaverile della carminatura della lana, soprattutto nello stazzo, il tipico e unico insediamento rurale della Gallura di origine corsa, è una specie di necessità diplomatica, un sondaggio, per le richieste di matrimonio difficili, che poi trovano lo sbocco conclusivo nella pricunta (la richiesta ufficiale della mano di una ragazza). Ai canti della vendemmia è legata la tradizione originalissima della stirruta o starruta (proposta del tema) e della carragghjata (svolgimento arguto ed epigrammatico del tema stesso). La stirruta, con un grido selvaggio e acutissimo iniziale, introduce una profferta semplice e ingenua d’amore e aspetta come un’eco la ritroga, ma anche un’allusione oscena. Il lamento funebre diventa, come del resto in tutte le parti della Sardegna, l’attittu o lu curruttu.
È un linguaggio poetico colorito quanto si vuole, ma estremamente primitivo ed artigianale.
Con Gavino Pes siamo in una fase di progresso o di sviluppo a cui forse questo stesso poeta ha dato l’avvio. Si tratta di una vera e propria scuola che può essere chiamata l’Arcadia Gallurese, i cui poeti non si sentono attratti verso nessuno dei generi della poesia di cui sopra. Rappresentano quindi una svolta di superamento ma anche di tradimento di essa, che però, con la loro influenza, ingentiliscono con un processo di elevazione che si fa determinante e culminante nella differenziazione della cultura e della civiltà gallurese da quella delle altre sottoregioni sarde e delle altre aree linguistiche, processo di incivilimento che incide in ultima analisi su tutto il costume e il carattere, anche oggi considerati diversi. Essi tendono a rappresentare non più un paese che è il centro di attrazione di una costellazione di stazzi sparsi, di un piccolo ambiente cioè ad economia pastorale ed agricola completamente indipendente, ma il mondo di un centro abitato in evoluzione che tende ambiziosamente a diventare città e ne vorrà anche la consacrazione giuridica da un romantico principe sabaudo che lo onorerà della sua visita e concederà il titolo nei primi decenni dell’Ottocento. […]
Il primato dei nobili vuole la sua appariscente significazione in palazzetti di un certo fono aristocratico, ornati di balconate in legno nelle loro facciate di granito a vista. L’antica, anzi primitiva casa tarrena, con lu fuchili al centro dell’unico ambiente e il tetto di graticci di canne, diventa cosi palazzo civile.
A Tempio, fin dal 1665, esiste una delle pochissime scuole superiori dell’Isola dove si insegna ad una quindicina di allievi il latino e la filosofia, la musica e la teologia. Ha quindi un diritto di riguardo anche per questo. La popolazione in uno degli ultimi censimenti del 700 è registrata in 4.500 anime, e per la Sardegna del tempo non è poco. Siamo in una atmosfera diversa da quella di altre zone, specialmente dell’interno. Le signore di alto rango vestono alla maniera continentale, imitando quelle di Sassari e di Cagliari. Anche le fogge del vestiario popolano scompaiono prima che altrove.
Ecco perché anche la poesia diventa più fine e acquista ambizioni letterarie. Perché deve rispondere a un pubblico più esigente che per riflesso indiretto mitiga anche la rozzezza del ceto più prettamente popolare.
Ecco come va inquadrata storicamente l’opera di Gavino Pes, l’unico poeta veramente geniale della Gallura. Egli può anche frequentare l’ambiente culturale di Cagliari, che offre anche rappresentazioni di melodrammi di Metastasio. Qui può continuare l’abitudine di frequentare una biblioteca alla quale è stato iniziato dai padri scolopi continentali che a Tempio, ai primi dell’Ottocento, doteranno il loro istituto di un libro appartenuto a Ugo Foscolo e da lui firmato da Firenze con la data del 1812 che oggi è uno dei rari cimeli della Biblioteca Comunale tempiese.
Franco Fresi
Antica terra di Gallura. Miti, riti, gente e tradizioni
Newton Compton Editori 1994, p. 21
Non è difficile individuare nel «costume poetico» di questi aedi dei poveri l’insegnamento di don Gavino Pes (1724-1795), di quel «Don Baignu» tempiese, poeta dialettale di alta statura e grande erudizione, caposcuola della poesia gallurese, tanto chiacchierato dai poeti rurali che non gli perdonavano, per la sua condizione di sacerdote e di nobile, una troppo licenziosa e profana ingerenza in un mondo con il quale secondo loro non aveva niente a che fare: il mondo delle donne, la più grande delle sue debolezze.
Nanni Columbano Rum
Preti di Gallura. Sette ritratti di sacerdoti indimenticabili
Della Torre, 2001
I critici letterari amano sottolineare questi aspetti positivi della sua produzione poetica, ma sono altrettanto implacabili quando devono mettere in risalto, almeno per una parte della sua opera, la soverchia gonfiezza dei paragoni, l’abuso delle sentenze morali e la sdolcinatura mielosa delle espressioni.
Il giudizio pesante sugli aspetti negativi viene attutito constatando che certo modo di poetare del suo tempo era conseguenza delle cattive abitudini proprie dell’epoca, derivate da una maldestra imitazione della scuola metastasiana. In questo senso si parla di «turba di evirati poeti che fu d’Italia danno e vergogna» perché non avendo in proprio le risorse dell’arte del Metastasio, finì per imitare gli aspetti deteriori.
Don Baignu era figlio del suo tempo; e se spesso riuscì a sottrarsi alle mode correnti perché il suo carattere era improntato di molto fuoco e perché il suo animo era acuto e nervoso, altre volte lo splendore delle cadenze ritmiche servì ad occultare la povertà e la debolezza dei sentimenti: allora si assiste a forzature ed esagerazioni, le forme vengono falsate e si deve assistere ad un mitragliamento di parole, di sole parole con assenza di concetti.
Fu un grande poeta
Tutto questo non può pregiudicare un giudizio complessivamente positivo, tanto da far chiamare a giusto titolo don Baignu il ‘Catullo gallurese’.
Anche perché una valutazione attenta della sua opera deve saper distinguere due diversi periodi della sua vita e insieme della sua produzione poetica.
Il primo periodo è dominato dall’Eros e le sue poesie sono per la maggior parte di carattere amoroso. Il trovatore gallurese canta, con più fortuna di altri poeti, i vari casi d’amore, le passioni sfrenate, le dolcezze inebrianti, gli affanni, gli sdegni, i tradimenti, gli intrighi, le paci degli amanti.
«Preso egli stesso alla bellezza di questi ami, nelle finzioni e nelle immagini della sua vivace fantasia espresse l’ardenza dei suoi affetti, e cantando dei casi altrui, narrò ancora i propri».
Molte poesie di questo periodo, e su questo tema, sono ancora oggi note e cantate; ma proprio su una parte di esse si appuntano gli strali della critica.
Il secondo periodo della vita di don Baignu è dominato invece da Thanatos e la produzione poetica si eleva in ogni senso: per spessore e validità di contenuti, per forma lucida ed ispirata, per lirismo quasi sempre alto e nobile, se non viene mortificato dalla spinta di fare quelle prediche, che, da buon prete, avrebbe dovuto fare in precedenza, e invece non ha fatto.
Gli anni passarono amando e poetando, finché, tra questi bei sogni e queste follie, non si trovò giunto a vecchiaia. Allora cantò con metro dolente gli errori giovanili, e compose le canzoni più robuste e sentenziose, che sono ritenute le sue produzioni migliori. «Sin’ora aveva navigato in un mare ampio e procelloso, ora si riposa finalmente sull’altezza di una rupe che sovrasta il lido e scorgendo i pericoli dai quali era scampato, scioglie un cantico mesto, maestoso, solenne, in cui la confessione degli errori passati è sanata dal pentimento, e il pentimento è sublimato dalla speranza di una vita migliore».
Dedimus annos corpori, demus animae dies
Dopo la sua conversione non volle più poetare e mandò alle fiamme moltissimi suoi componimenti che accendevano troppo, con le dolcezze della melodia poetica, l’amore profano. Si ripete così anche per don Baignu lo schema ormai classico e collaudato della vita divisa in due periodi: la prima parte, quella della giovinezza e della prima maturità, sprecata nel sollazzo peccaminoso; la seconda parte, quella della vecchiaia, sanata dalla conversione e dedicata alle opere di bene.
Un canonico di Tempio, sicuramente un bello spirito, vissuto qualche tempo dopo don Baignu, compendiò queste due stagioni della vita facendo scolpire sugli architravi delle due porte della sua abitazione queste massime: sul primo la scritta diceva: «Dedimus annos corpori» (‘Abbiamo dato gli anni al corpo’); sul secondo architrave era inciso: «Demus animae dies» (‘Diamo all’anima almeno gli ultimi giorni’).
Queste massime possono servire a sintetizzare la vita di don Gavino Pes.
Amore e morte
No, ‘don Baignu’ (come veniva chiamato il prete Gavino Pes, pоеta dialettale, detto per la raffinata sua poesia ‘il Catullo gallurese’) non conosceva la psicoanalisi; non poteva conoscerla perché verrà scoperta ed insegnata oltre un secolo più tardi. Ma si può dire che visse e poetò come se fosse un epigono delle teorie e dei metodi creati da Freud.
No si poni risisti chisti dui estremi folti: lu ‘idetti è la me’ molti lu no videtti è murì’.
È facile vedere in questi pochi versi che, per la forza dei contenuti, per l’intenso afflato lirico e per l’eleganza della forma, basterebbero da soli a far grande un poeta, se non proprio la terminologia certo alcune categorie tipiche della psicoanalisi. Mancano solo le espressioni verbali di Eros e Thanatos, ma i contenuti rappresentati da quelle voci vi sono tutti, e detti come li sa dire solo un poeta vero ed autentico.
Amore e morte sono gli estremi forti di tutta la sua vita e delle espressioni più alte della sua poesia. Don Baignu conosceva certamente il detto scritturistico: «Fortis ut mors dilectio», l’amore è forte come la morte, ed ha sperimentato nella sua carne prima, ed ha tradotto nei suoi versi dopo, la forza creatrice e devastante dell’amore e della morte.
Eros e Thanatos possono essere presi a ragione come la chiave di lettura di tutta la sua produzione poetica, per constatare come in essa si sia avuta la sintesi, la sublimazione, del dilacerante contrasto, vissuto nel suo spirito, tra i due estremi forti di Amore e Morte.
Don Baignu era un prete, e chiunque si sarebbe aspettato che la sublimazione della lotta tra l’Es e l’Io si realizzasse nella religione ed in una intensa vita di pietà. Questo non è avvenuto, e va attribuito al suo temperamento, a scelte personali e ad alcune circostanze determinanti della sua vita; se si fosse verificato, avremmo avuto un prete dedito alla sua alta missione ed ai suoi doveri sacerdotali, forse un santo, ma probabilmente non avremmo avuto il grande poeta dialettale gallurese. […]
A voler affrontare ora anche solo una sintesi dell’opera poetica di don Gavino Pes penso che giovi ancora il binomio Eros e Thanatos. Per il Leopardi la coppia amore-morte va intesa come quell’amoroso affetto che implica un desiderio di morte. Per don Baignu Eros è l’amore profano, sensuale, al quale dedica la prima parte della sua vita e dei suoi canti; Thanatos è l’istinto di distruzione, davanti al quale nascono le grandi paure dell’ignoto che gli dischiudono i veli del mistero, per dargli il senso di una fede coerente ed il valore della vita di prete. Gli ultimi anni e gli ultimi canti saranno segnati da questo sigillo.
Le moltissime poesie profane ed erotiche della prima maniera possono essere compendiate e simboleggiate soprattutto da due canzoni, che in questo senso diventano emblematiche.
La prima è quella che compose descrivendo l’infedeltà della sua donna. Con naturalezza di verso e leggiadria di immagini mette in contrasto la propria passione per la donna con la certezza del tradimento da parte di costei. E riesce con finezza di amore a far trionfare questa passione, che è cieca, prepotente, irremovibile, su quella certezza del tradimento, che non sa, che non osa, che non vuole persuadersi di tanta perfidia.
L’inganni ch’agghju intesu chi mi fai no li ‘oddhu sapé pa’ no lassatti.
1.
Contra di te mi pioini l’accusi
Dicendimi chi se’ un’infideli,
Chi di lu me’ bon cori tropp’abusi,
Chi più mi se’ crudeli;
Ed eu tengu l’aricchj e l’occhj chjusi
Pa’ tuttu chiddhu chi po’ dà zeli,
Oh! Celi e comu possu cridé mai
Chi tu a me di chissu modu tratti?
L’inganni ch’agghju intesu…
Di cantu mi s’è dittu contr’a te.
Ghjenti c’è chi s’offèri a dammi proi,
Fammi vidé e fammi palpà be’
Tutti li to’ capricci vecchj e noi.
Però, vulendit’eu tantu be’,
Chi a chissu m’esponghia e comu ‘oi?
Dapoi, e si lu dittu è viritai,
Chi cori dec’aé d’abbandunatti?
L’inganni ch’agghju intesu…..
La seconda canzone, dal titolo premonitore ‘La Timpistai’ (‘La tempesta‘), molto più sciolta nel verso, scanzonata e forse cinica nell’inventare o rivivere, chi lo sa, un’avventura boccaccesca, racconta come in una notte tempestosa di pioggia, tuoni e lampi, lui, il poeta, è costretto a bussare alla porta della sua donna per trovare rifugio e soccorso.
Il dialogo troppo lungo, e sostenuto mentre il poeta sta fuori della porta, deve servire all’amante scaltra e spregiudicata, che se ne sta dentro casa dietro la porta, per dare tempo ad un segreto visitatore di fuggire, senza che l’amico possa vederlo e individuarlo.
1.
POETA:
– Ghjésu, chi timpistai!
In bon’ora stanotti socu isciutu!
Chiddu tempu suai
Cussì in una in una s’è paldutu:
Chist’ea no ha fini,
Palchì lu celi la lampa a cagghjni.
Da ch’è cussì piuendi,
Cansà mi oddhu chici und’è cummari;
Iddha sarà cinendi…
Però luci no c’ha…
Drummendi pari.
Lu sonnu vi l’ha fatta?
O ghjenti v’ha chi tratta o chi cuntratta?
Un cuntrasteddhu bassu
Intengu, si l’aricchj no m’inganna;
Eu però no lassu Pa’ cassisìa di tuccà la ghjanna.
Oh, di casa patroni, abbritimi chi socu gucciuloni!
2.
AMICA:
– Cal’è chistu impultunu
Chi di fassi a curracchja ha gana fora?
Eu mai a nisciunu,
Nemmancu a babbu meu abbru a chist’ora:
Tu pensi chi soc’eu
Di chissi fimineddhi in cancalleu?
3.
POETA:
– Primma mi cunniscìi
Solu a lu pedisugnulu, a l’alenu;
Abà mi scacci e dìi
Chi socu un impultunu, un omu angenu.
Eu socu lu ch’era
Più di tre ori cun tecu stasera.
4.
AMICA:
– Uhai, lu me’ magghju!
Tu sei chissu?
Eu t’abbru abali, abali.
Cunnisciutu no t’agghju,
Cumpari meu, cant’agghja mali!
Aspetta chi mi ‘estu,
E pal chissu no t’abbru tantu prestu.
Entra, lu me cunsolu
E middhi ‘olti ben vinutu sìi!
Ghjà se’ ‘inutu solu,
Senza li to’ infadosi cumpagnìi:
Cussì solu andi be’
E cussì sola sola incontri a me.
5.
POETA:
A chistu no cuntestu,
Ch’è vantu di li femini di l’usu…
Fa’ luci e focu prestu,
Pal Deu, chi m’incontru tuttu infusu;
A più chi a lu carrugghju
Dai chi dai a chist’ora e a lu bugghju³.
Che si tratti di un bozzetto di vita vissuta, di sua propria esperienza o raccontatogli da altri, è detto con la leggera scioltezza di versi fluidi e piacevolissimi, anche per la loro musicalità, non v’è dubbio. Vi sono portati usi e costumi, abitudini, passioni, tresche e tradimenti usuali in un certo contesto gallurese. La rappresentazione è di un realismo unico nella individuazione di luoghi, circostanze, personaggi.
Ma il linguaggio qui, come in altre poesie di questo periodo, almeno in alcuni passaggi, rasenta il boccaccesco e la lascivia. Nessuno potrà dire che don Baignu abbia fatto pornografia, perché ha saputo innalzare con i voli dell’arte tanta materia erotica, anche se trattata in eccessiva abbondanza.
Rimane però vero che i suoi canti sono serviti da veicolo a certo tipo di erotismo nella cultura gallurese, specialmente in quella dello stazzo.
La conversione
Veniamo all’ultimo periodo della sua vita, nel quale sono stati prodotti i suoi capolavori. I canti sul ‘Tempo‘ e sulla ‘Vecchiaia‘ sono due autentici monumenti, solenni nelle strutture portanti, ricchi di concettose sentenze, articolati in immagini e similitudini, pieni di malinconia e di rimpianto, aperti al ravvedimento, presentati con versi scorrevoli e musicali, che sanno creare le suggestioni e la partecipazione provocate dalle cose belle e grandi, proprio quando il lirismo raggiunge il suo culmine. Se questi monumenti rivelano qualche piccola screpolatura, nulla viene tolto alla loro maestà e importanza per la nostra letteratura in lingua gallurese.
1.
Tantu tempu era muta
La me’ poara musa e ogghj è molta;
Da lu chjodu è caduta
La me’ cetara e l’agghju in pezzi accolta;
Lu me lauru è siccu
Ch’in lu me fronti fesi calchi spiccu.
16.
L’inganni e vanitai
M’hani lu meddhu tempu fraudatu
Senza cunniscì mai
Un be’ chi vildaderu sia statu.
Lu disingannu è ghjuntu
Ogghj chi socu ghjà difuntu.
20.
Li dì, l’ori, l’istanti
Chi viì possu, cun sinzeru amori
Offeru a chist’Amanti
Chi da l’omu no vo’ sinnò lu cori.
E si l’ha indivisu,
Faci pruà in tarra un Paradisu¹.
Concludo queste note con alcune strofe del più famoso canto di don Baignu, dedicato al Tempo.
Palchì no torri, di’, tempu passatu?
Palchì no torri, di’, tempu paldutu?
1.
Torra alta ‘olta, torra a fatti meu,
Tempu impultanti, tempu priziosu,
Tempu chi vali tantu cant’è Deu,
Par un cori ben fattu e viltuosu.
Troppu a distempu, o tempu caru, arreu
A cilcatti, oh!, affannu aguniosu…
Cant’utilosu mi saristi statu,
Tempu, aènditi a tempu cunnisciutu!
Palchì no torri, di’…
4.
L’alburu nudu senza fiori e frondi
Vinutu magghju, acquista frondi e fiori;
A campu siccu tandu currispondi
Un beddhu traciu d’allegri culori.
Supelbu salta di ‘arru li spondi
Riu chi è d’istiu poaru d’umori;
E l’anticu vigori rinnuatu
No sarà mai in un omu canutu?
Palch’ no torri, di’….
8.
No timì, tempu caru, d’impliatti
In bassi e falsi immagghjnazioni,
In fa’ teli di ragni, o in chiddhi fatti
Cuntrari a lu bon sinnu, a la rasgioni;
In chimeri, in dilliri, in disbaratti,
Muttii di la me’ paldizioni.
Agghj cumpassioni, tempu amatu
D’un cori afflittu, cunfus’e pintutu
Palchì no torri, di’…
Raffrontati e messi quasi in sinossi i due periodi di vita ed i due tipi di produzione poetica di don Gavino Pes si riscontrano così diversi da far pensare a due persone distinte, tanto sono lontani contenuti, sentimenti, idee, impegni di vita e la forma stessa del poetare.
L’Eros dominante nella sua giovinezza e nella prima maturità lo spinge non solo a vivere senza freni ed inibizioni l’amore profano, ma lo porta a concludere che chiunque, senza eccezione, deve sottostare alla forza ineluttabile e invincibile del fascino femminile, manifestando questo suo convincimento con la gioiosa soddisfazione di chi ha fatto una grande scoperta, forse nella non confessata speranza, tanto fanno tutti così, di una giustificazione alla sua non edificante condotta:
È lu nostru trattu,
Chisti li nostri beddhi galitai:
No mantinimu pattu,
Femu lu chi no diami fa mai.
Cun tuttu no pudeti
Lassacci siculari, frati e preti.
Quando poi fa capolino Thanatos, allora cambia lo stile di vita e cambia anche la poesia, nei contenuti e nella forma. Questo uomo, che credo sia rimasto prete in fondo all’anima anche quando viveva in maniera difforme dagli impegni presi e dai suoi doveri, fa la grande scoperta che l’Eros, l’amore profano e passionale, può e deve essere superato e sublimato nell’Agape cristiana. Le energie, il talento, il tempo, impiegati in una vita disordinata vengono compendiati in un’espressione dolorosa e poetica insieme, quale solo il suo genio poteva trovare: ha sprecato tutto nel fare tele di ragni.
Riconosce e confessa umilmente di aver dato troppo tempo al corpo: «Dedimus annos corpori». Vuole riparare, e di fatto si riscatterà, consacrando all’anima le ultime energie ed il suo migliore poetare: «Demus animae dies».
Una ricca e intensa pagina di cultura e di civiltà della terra di Gallura è scritta nella vita e nelle opere di don Gavino Pes, don Baignu, prete e poeta. (7)
NOTE
(1) Non si possono sopportare queste due forze estreme: il vederti è la mia morte, il non vederti è morire.
(2) Ritornello: Gli inganni che ho sentito che mi fai, non li voglio sapere per non lasciarti. Contro di te mi piovono le accuse, dicendomi che sei un’infedele, che abusi troppo del mio buon cuore, che più ti stimo e più mi sei crudele; ed io tengo le orecchie e gli occhi chiusi per tutto quello che può darmi eccitazioni. Oh cielo, e come posso credere mai che tu mi tratti in questo modo? Di quanto mi si è detto contro di te, c’è gente che si offre a darmi prove, per farmi vedere e toccar con mano tutti i tuoi capricci vecchi e nuovi. Però, volendoti io troppo bene, come vuoi che io mi esponga a questo? E poi, se le dicerie sono verità, che cuore devo avere di abbandonarti?
(3) POETA: – Gesù, che tempesta! Stanotte sono uscito di buon’ora! Quel tempo soave, così, d’improvviso si è perduto: questa pioggia non ha fine, perché il cielo la butta a catinelle. Giacché piove così, voglio fare una capatina qui da mia comare; forse starà cenando… Però non traspare luce… Sembra che dorma. L’ha vinta il sonno? O c’è qualcuno che tratta e che contratta? Sento un bisbiglio basso, se l’orecchio non mi inganna; però, per chiunque, non lascerò di bussare alla porta. “O padroni di casa, apritemi che sono molle di pioggia”.
AMICA: – Chi è questo importuno, che fuori ha desiderio di bagnarsi come una cornacchia? Io, mai, a nessuno, neanche a mio padre, apro a quest’ora: pensi forse che io sia una di quelle donne in bilico?
POETA: – Prima mi conoscevi solo al passo e al respiro, adesso mi scacci e mi dici che sono inopportuno ed estraneo. Io sono colui che era con te per più di tre ore questa sera.
AMICA: – Oh! Mio maggio! Sei proprio tu? Ti apro or ora. Non ti ho riconosciuto, compare mio, che abbia male! Aspetta che mi vesto, per questo non apro presto. Entra mia consolazione e sii mille volte il ben venuto. Tanto più che sei venuto da solo, senza le tue seccanti compagnie. Così da solo va bene, e così trovi me, sola soletta.
POETA: Non contesto una cosa simile, che è un vanto consueto delle donne…piuttosto fa presto luce e fuoco, per Dio, che sono tutto bagnato; a parte il fatto che a quest’ora e al buio puoi essere oggetto di pettegolezzo per i vicini di strada.
(4) Da tanto tempo era muta la mia povera musa ed oggi è morta. È caduta dal chiodo la mia cetra e l’ho raccolta a pezzi. È secco il mio alloro che fece qualche spicco sulla mia fronte.
– Gli inganni e le vanità m’hanno defraudato del tempo migliore, senza che mai potessi conoscere un bene che sia stato verde (duraturo). E oggi che sono già mezzo defunto è arrivato il disinganno.
– I Giorni, le ore, gli istanti che posso vivere offro con sincero amore a questo Amante che dall’uomo vuole solo il cuore. E se lo ha indiviso, fa provare in terra il Paradiso.
(5) Perché non torni, dimmi, tempo passato? Perché non torni, dimmi, tempo perduto?
– Ritorna un’altra volta e sii nuovamente mio, tempo importante, tempo prezioso, tempo che vali tanto quanto Dio per un cuore ben fatto e virtuoso. Troppo tardi, tempo caro, arrivo a conoscerti (oh, peso di agonia!). Quanto utile mi saresti stato, o tempo, avendoti conosciuto a tempo!
-L’albero nudo senza fiori e fronde, quando viene maggio, riacquista fronde e fiori e al prato inaridito allora si sostituisce un bel mantello di allegri colori. Superbo salta d’inverno le sponde il fiume povero d’umori nell’estate. E l’antico vigore non sarà mai in un uomo canuto?
– Non temere, o tempo caro, d’impiegarti in basse e false immaginazioni, in fare tele di ragno, o in faccende contrarie al buon senso e alla ragione, in chimere, in delirii, in disperazioni, cause della mia perdizione. Abbi compassione, o tempo amato, di un cuore afflitto, confuso e pentito.
(6) Questo è il tratto che ci distingue. Queste le nostre belle qualità: non manteniamo i patti, facciamo quello che non dovremmo fare mai. E tuttavia non potete fare a meno di noi, secolari, frati e preti.
(7) Di “don Baignu” non possediamo un ritratto credibile. Franco Farina ha provato a darcene, nella pagina iniziale di questo capitolo, un’immagine ideale.
In presenza di tutte le lingue del mondo
Anche Gavino Pes (1724-1795), nativo di Tempio, in Gallura, apparteneva all’ordine degli Scolopi, ma ciò non gli impedì d’essere, un poeta principalmente attratto dalla tematica amorosa, tant’è vero che Bonu vede in due celebri canzoni dell’età matura, Lu tempu e Lu pentimentu i segni del ravvedimento e la speranza di una vita migliore.
A prescindere da tali valutazioni, nell’opera del Pes “si riconosce una vasta preparazione classica nonché un’eredità del barocco spagnolo”: il poeta manifesta una notevole abilità letteraria, peraltro riconosciuta dai suoi conterranei presso i quali godette di chiara fama.
Manlio Brigaglia insiste molto su tale aspetto riguardante lo stretto rapporto fra il poeta e la società gallurese e arriva a concludere che la poesia di Gavino Pes non è soltanto amorosa: “è il più compiuto ritratto della civiltà spirituale gallurese così come essa si è venuta maturando attraverso i secoli. Per questo don Baignu vive ancora nei canti degli stazzi, sulle aie “nelle vendemmie”, d’inverno intorno ai camini fumanti vero trovatore di tutti i gentili uomini di Gallura.
Eduardo Blasco Ferrer, Peter Koch e Daniela Marzo (a cura di)
Manuale di linguistica sarda
De Gruyter 2017 – p. 220
Gavino Pes «don Baignu» (1724-1795), il «Frugoni sardo», conoscitore di autori arcadi (Meli, Rolli, Frugoni), è voce poetica del mondo contadino.
Elegante è il gusto della contrapposizione «No si poni risisti / chisti dui estremi folti: / lu ‘idetti è la mé molti, / lu no videtti è murì» (“Non si possono sopportare queste due forze opposte: se ti vedo muoio e il non vederti è, lo stesso, morire”; Pes 1981, 36s.).
Gavino Pes è considerato il maggiore poeta gallurese del Settecento oltre che il caposcuola di un gruppo di autori, anche essi tempiesi, alcuni dei quali erano dei religiosi come lui. Giulio Cossu definiva “Arcadia gallurese” questo gruppo letterario che proprio nei temi dell’Arcadia trovava i motivi della propria coesione. Per i temi trattati egli è stato anche definito “il Catullo gallurese”. L’adesione di Don Baignu all’Arcadia si inquadra nella persistenza di modelli e temi che caratterizzano la letteratura europea dei secoli precedenti. La letteratura spagnola, che raggiunse il massimo prestigio nel periodo imperiale, permeò in modo decisivo la letteratura sarda di quel periodo e ancora fino a tutto il 1800.
Pes, più che interpretare la società da cui proviene, canta temi idealizzati mettendosi in luce per il suo talento. È la sua affermazione in contesti più ampi della Gallura del suo tempo a conferirgli l’autorevolezza e il ruolo di principe indiscusso della letteratura gallurese. Egli canta l’amore ma eccelle soprattutto nella descrizione elegante degli stati d’animo (la meraviglia, la gelosia, il dubbio, lo sconforto, la speranza, la pace). Sotto questo profilo, anche se apparteneva a un ceto sociale elevato, egli riesce a dare voce anche alla società gallurese ed è a questa sua capacità che si deve il successo di cui godette ai suoi tempi e gode ancora ai nostri giorni.
Secondo Nicola Tanda egli «getta un ponte tra la poesia colta delle letterature greca, latina, italiana e il gallurese, elevandolo a un prestigio letterario che non possedeva».
A questo suo successo, oltre che l’eleganza del verso, potrebbe anche avere concorso l’ansia di elevazione sociale della comunità tempiese nel periodo seguito alla sua morte quando il ricco e nobile casato dei Pes, con il ramo dei Villamarina, assurse in Sardegna ai massimi livelli dello stato sabaudo.
Il tema dell’amore, che affiora in gran parte delle sue poesie, potrebbe apparire occasionale e distaccato dalla realtà se si considera che egli era un religioso.
Ma per intendere appieno questo aspetto bisognerebbe avere una visione più aderente ai costumi sociali del 1700 quando pure i religiosi, specialmente quelli di livello più elevato, potevano avere delle relazioni amorose senza destare particolare scandalo.
Questo aspetto non sfugge a Manlio Brigaglia secondo cui il modello di vita di Gavino Pes “è privo di grandi idealità e di virtù ma aderisce a “quel mondo contadino generalmente gentile ed educato che è il mondo della civiltà gallurese” (Brigaglia 1975, pp. 174-175).
Ma non mancano del tutto le opere in cui Don Baignu si allontana dall’Arcadia.
Nella canzone In la littara toja Amicu predilettu (f.59 v) egli si descrive con una certa sincerità che ne mostra i veri tratti umani al di là del ruolo che i contemporanei gli attribuivano. […]
La sua figura appare simile a quella di un gigante solitario che non lascia eredi diretti perché gli autori successivi sono immersi nella letteratura spontanea estranea alle correnti letterarie e più aderente alla vita reale sia di Tempio sia delle comunità rurali. Questa apparente solitudine potrebbe essere dovuta al fatto che, mentre di Pes si conosce pressoché tutta la produzione letteraria, di altri pur validi poeti del suo tempo sono rimasti soltanto pochi testi che non consentono di avere una visione altrettanto profonda della loro complessiva opera.
Tra le molte composizioni di Gavino Pes una delle più note, insieme a Lu Tempu, è quella qui riprodotta e intitolata Non si poni risistì. È una delle poesie classiche in cui Don Baignu, trattando il tema delle pene d’amore, raggiunge uno dei migliori risultati coniugando leggerezza e musicalità tipiche dell’Arcadia.