NATALE FRA I PASTORI

di

Giovanni Saragat

in

LA DONNA

Rivista quindicinale illustrata

1912

dicembre 1912

PRESENTAZIONE E NOTA BIOGRAFICA

In questo bel racconto Giovanni Saragat – avvocato nato a Sanluri nel 1855 poi trasferitosi a Torino dove morì nel 1938, e  padre di Giuseppe Saragat futuro presidente della Repubblica italiana – rivela chiaramente non solo le sue origini galluresi e tempiesi in modo particolare (il padre Pietro era di Tempio), ma quanto ancora fossero salde in lui e partecipate.

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Natale fra i pastori, di Giovanni Saragat

Giustamente fu detto che l’uomo è un grande bambino, con in fondo all’anima tutte le passioni ed i sentimenti dell’ infanzia, un po’ assopiti ma che si risvegliano e che riprendono vita, rinvigoriti, ogni volta che identità di casi e di circostanze ce li richiamano alla mente.

Perciò il Natale è per noi cristiani, che lo abbiamo vissuto intensamente nell’infanzia, la festa del cuore. Ci disponiamo a goderlo circondandoci di quella stessa intimità che ce lo rendeva caro in quei primi anni, e lo riviviamo felici di veder brillare negli occhi delle nostre creature gli stessi sentimenti e le stesse emozioni provate nell’infanzia da noi.

Per poco non c’illudiamo che il Bambino Gesù, fatto grande anch’egli come noi, debba farci trovare, come ai nostri bambini, nell’alba del Natale, sotto i cuscini, la strenna, una strenna non più di dolci e gingilli ma di cartelle del Debito Pubblico.

E che sconforto quando, per vicende della vita, dobbiamo trascorrere il Natale lontano dai nostri cari!

Lo spettacolo di coloro che, attratti da reciproci affetti, si raccolgono a gruppi nelle famiglie, ci fa sentire il nostro isolamento morale: isolamento di cui nei contatti normali della vita non ci accorgiamo perche le finzioni delle cortesie sociali col loro lustro di sincerità ce lo dissimulano e nascondono.

Ed allora ci assale il senso nostalgico dell’amore dei nostri cari, mentre ci punge intenso il desiderio della famiglia con cui rivivere un giorno caro dell’infanzia: il santo giorno di Natale.

Ed anch’io, fra le risate allegre e spensierate di creaturine che mi amano e che adoro, rivivo con la memoria una di quelle care giornate: un Natale passato fra i pastori della Gallura, negli aspri monti di Limbara, in Sardegna.

Quanti anni fa? Consentitemi di tacere questo segreto… professionale.

Rivedo ancora una rozza ed ampia cucina, tutta nera di fumo, nello stazzu (casa di pastori) di zio Giovanni Andrea, un vecchio venerando, attorno al quale, nelle tristi e liete vicende e nelle feste solenni gli abitanti della cussoglia (gruppo di case di pastori) si raccoglievano come attorno al loro capo naturale. Un capo assennato, dalla figura austera, dai consigli ponderati e giudiziosi attinti all’esperienza della vita, dettati con gesto solenne e con misurata parola.

Stazzo Lu Branu, di Giuseppe Contini
di Aligi Sassu

Nel centro è il grande focolare ove crepita il tradizionale ceppo, una radice di quercia la quale spande scintille e guizzi di livide fiamme, illuminando una trentina di persone, uomini e donne accosciati per terra con le gambe incrociate.

L’onore di una panchina di sughero è riservata a zio Giò Andrea e quello della sedia a prete Michele, un prete cacciatore, il quale mi aveva condotto là sú in grappa al suo cavallo per farmi assistere alla nascita di Gesú fra i pastori e ad una partita di caccia al cinghiale organizzata dai pastori per l’indomani in suo onore, onde compensarlo del regalo di una messa nel dì di Natale.

A me il compito di assisterlo in qualità, bando alla modestia, di sacrista.

Fra il fumo della grande stanza, che non aveva altra uscita se non la porta, le connessure dell’incannicciato del tetto a due pioventi, e… le gole ed il naso dei presenti, vedo ancora il reverendo con gli occhi lagrimosi ed il viso infiammato, curvo sulle bragie cadute dal ceppo, intento a dirigere l’arrostimento di un porchetto, il quale, infilzato ad uno spiedo di legno mosso dalla mano sapiente di un pastore, rigirava attorno a sé stesso, mentre a me, sacrista anche in questa funzione, era riservato il compito di lordellarlo lasciandogli cadere, da un pezzo di lardo infilzato ad altro spiedo, goccie di grasso in fiamme. Le quali cadendo sul porchetto in cottura crepitavano festosamente, mentre il savio sacerdote, con sana filosofia, osservava come sia destino dei porchetti essere lardellati col grasso dei loro maggiori.

by Vittorio Ruggero
Nuoro - Si uccide il porchetto, di Sebastiano Guiso

Un vecchio della comitiva raccontava intanto Una fola di babbu Olcu (favola di babbo Orco). Era la storia di un eroe, il quale, mercé gl’incantesimi ottenuti con un anello fatato, riesciva a liberare uno dei Re Magi dalle grinfe di un carabiniere filisteo il quale cercava d’impedirgli d’arrivare alla stalla ove era Gesù neonato. Una fola fatta apposta per gettare lo scompiglio fra storia sacra, i filistei e l’arma dei reali carabinieri.

Le ragazze, annoiate da quella storia, protestavano d’averla udita venti volte dallo stesso narratore che non cambiava repertorio. Cosa che capita anche ad altri novellieri del mondo civile.

Antonio, un giovane pastore, in fama di burlone nella cussoglia, venne in soccorso alle ragazze proponendo che si giuocasse «al montone» e la proposta, neanche a dirsi, venne accettata fra gli evviva. Antonio si levò ed estratto di tasca un coltello finse di sgozzare un montone imitando i belati della vittima con tanta grazia ovina da far sbellicare dalle risa le ragazze. Indi finse di scorticarlo, di squartarlo e di venderne le diverse parti. E qui si parve la sua nobilitate ed il suo spirito: vendette ad una a lui cara il cuore sanguinante, ad una seconda in fama di fegatosa il fegato, ad una terza linguacciuta la lingua, ad una biliosa il fiele, e diede infine le corna… ad uno scapolo; ciò per dimostrare che nella cussoglia, almeno in quel tempo, non vi era alcun ammogliato degno di quell’ornamento matrimoniale.

Finita la finta vendita il venditore, nel fare i conti, prese a nominare qualcuna delle porzioni vendute.

Chi l’aveva comprata doveva prontamente declinare il proprio nome. Guai a titubare o tacere!  Pioveva subito una penitenza. Gli uomini venivano condannati far qualche gioco di ginnastica, a improvvisare qualche strofa a tema obbligato; e le donne a risolvere qualche indovinello, a dire un complimento od una insolenza e persino… vedi audacia di giuoco! a dare un bacio a qualcuno dei presenti.

Figurarsi quante risate e che divertimento per le ragazze condannate a baciare ed a lasciarsi baciare! Lu standaldu (l’orsa maggiore) dell’agnello, segnava già nella notte l’ora del sacrifizio dell’agnello, zio Gio Andrea si recò all’ovile, ne prese uno che belava, quasi presago della sua fine, lo sgozzò, lo scorticò e, così ridotto, lo portò in cucina, fra il silenzio generale, gli staccò la scapola sinistra e la raschiò ben bene col coltello. Su quella scapola dovevano leggersi le sorti della cussoglia, le tristi e le buone venture. Quando l’ebbe affinata così da renderla quasi trasparente, prese a guardarla a contro luce, vide un punto che a lui parve d’un prete e, poco discosto, due altri puntini, indubbiamente due sposi. L’augurio era d’un matrimonio e la cussoglia lo accolse con grida di vero entusiasmo. Indi l’agnello segui le sorti del porchetto e venne anch’esso passato a fil di spiedo.

John William Cook - Graminatorgiu a Tempio, 1849

Quando a zio Giò Andrea parve che lu standaldu segnasse le dieci ci invitó a passare nella stanza attigua, ove le donne avevano imbandito la tavola: una tavola stretta e lunga, e su di essa, tutto attorno, una fila di scodelle di legno per il latte, destinato a sostituire la minestra.

Il porchetto e l’agnello, già squartati, fumavano su due grossi taglieri di legno ai due capi della tavola.

I commensali, poste da banda le inutili scodelle e le non meno inutili forchette, diedero mano ciascuno al proprio coltello tascabile e si lanciarono all’assalto dell’arrosto, lavorando di denti e di coltello, rischiando ad ogni boccone di tagliare con la carne arrostita tenuta fra i denti anche la punta del naso.

Mangiavano silenziosi, discorrendo piano coi compagni di fianco. Discorreva per tutti a voce alta il reverendo, bevendo anche per tutti il vino che si era portato con sè, perchè i pastori non ne hanno e sono astemii.

Per un riguardo a lui che doveva presentarsi all’indomani al santo sacrifizio della messa in istato di digiuno, si diede termine al pasto prima della mezzanotte.

Finita la cena fu ritirata la tavola e si diede principio al tradizionale ballo tondo, cadenzato dalla nenia di quattro cantatori che facevano coro ad una canzone intonata da zio Gio Andrea, il quale era improvvisatore apprezzato in Gallura.

Il reverendo, per fare onore agli ospiti, volle ballare anch’egli ed entrando nel girone dei ballerini scelse a compagna la moglie di zio Giò Andrea, la vecchia zia Annaredda, mentre il marito faceva le finte di esserne geloso.

La festa durò tutta la notte e fini in una ridda d’inferno. Solo al mattino, uscendo all’aperto, quei buoni pastori ricordarono che mentre essi ballavano era nato Gesù redentore e che era giorno di Natale, giorno delle tre messe.

In un batter d’occhio i cavalli furono bardati, i cavalieri balzarono in sella, presero le donne in groppa e la comitiva partì per una non lontana chiesuola solitaria, fra i boschi popolati di cinghiali, ove il reverendo scodelló in fretta le tre messe d’obbligo dando, fra un salmo e l’altro, ai cacciatori più vicini all’altare, le disposizioni per la caccia grossa.

Natale fra i pastori, di Giovanni Saragat
John William Cook - Graminatorgiu a Tempio, 1849
Ballo con organetto
Sughero di Gallura
SUL NATALE IN GALLURA SI VEDA IN MODO PARTICOLARE:

IL NATALE IN GALLURA E IN SARDEGNA

di Andrea Pirodda

1894 / 1915

♦ in «RIVISTA DELLE TRADIZIONI POPOLARI ITALIANE»,

anno I – 1893-94, fascicolo II – gennaio 1894, pp. 139-145

nel libro: BOZZETTI E SFUMATURE, Palermo, Ed. Remo Sandron, 1915 ⇒

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