TEMPIO
PAESI E FIGURE DI SARDEGNA
di Andrea Pirodda
in
VARIETAS
Rivista illustrata
Aprile 1924
pp. 232-236
TEMPIO, adagiata come sirena ammaliatrice fra l’avvallamento di quattro clivi coronati di castagni, d’olmi e d’antiche rubeste querce, conserva tuttora con le sue nere case granitiche, non intonacate, con le vie tortuose, strette, corte nella maggior parte e mal livellate, ad eccezione di tre o quattro di esse e delle piazze d’Italia e di Gallura, nella quale ultima sorgeva, mezzo secolo fa, il convento delle monache francescane un aspetto di villa medioevale.
È divisa in quartieri che prendono il nome di lu Pilari, lu Pulgatoriu, Sant’Antoni, Santu Franciscu Isciaeri, lu Calmini, lu Paloneddu, lu Pulticali, Santu Bastianu e Cacadda; quest’ultimo è certo il più antico dei quartieri tempiesi, dove tuttora conservasi quasi inalterato l’antico idioma. Attorno alla città zampillano perenne mente cinque fonti denominate: Pastini, Funicedda, la Fonte di San Sebastiano, la Fonte della Concezione e la Fonte Nuova, alla quale si recavano le più belle popolane, prima che fosse costruito l’acquedotto, e gli zerbinotti per far loro la corte o per ammirarle; e più lungi quelle freschissime e finissime di Rinaggiu e della Costaglia, la regina, quest’ultima, delle fonti tempiesi ed una delle più rinomate dell’lsola.
Per ampia distesa il territorio tempiese a levante, a mezzanotte e a ponente è tutto coltivato a vigneti che costituiscono uno dei maggiori centri viniferi della Sardegna e il maggior cespite della città, in quanto che il prodotto, nella maggior parte convertito in vino, viene trasportato dai viandanti tempiesi a smerciare in Terranova, Santa Teresa, La Maddalena, e in quasi tutto il Monteacuto.
Nelle vigne, al tempo delle vendemmie, seguendo un’antica costumanza della Grecia, vengono invitate le più belle fanciulle e vi accorrono volenterosi, avendovi libera entrata, i giovani della città, i quali intrecciano, con quelle, carole al suono dei flauti e delle armoniche, o cantano amorose canzoni, sposandole al flebile suono della chitarra. Nella notte poi specialmente dei giorni festivi, i giovanotti si recano sotto le finestre o alle porte delle loro belle per far la serenata, come gli antichi trovadori e menestrelli cantavano sotto le finestre o nelle sale dorate delle belle provenzali.
Oltre i vigneti, sono numerosi boschetti di querce sughero, che alimentarono una grande industria, ora in crisi, di querce gentili, di faggio e di leccio, e cogli interposti corbezzoli dotati, le eriche, le ginestre, le marruche, gli spini neri e i roveti formano nell’assieme una non interrotta foresta lussureggiante che ammanta l’esteso ondulato altipiano gallurese, sfumante nelle cerule lontananze, e costituisce la parte più bella e montana dell’Isola.
A Levante di Tempio sorge maestosa la catena del Limbara, non di rado coperta di neve nella stagione jemale, colle sue più alte cime, quelle del Giogantino e di Balistreri, ricovero la prima a don Salvatore Rizzo avverso alla denominazione aragonese, e da questa messo al bando e l’altra a Giuseppe Balistreri che dopo avere, freddandolo, stroncata l’audacia d’un giovinastro della nobiltà tempiese che voleva portargli il disonore in casa, attentando all’onestà della figlia, per sfuggire alla vendetta dei parenti dell’ucciso, riparò sulla cima più alta del Limbara che da lui prese il nome, e dalla quale scendeva a brevi intervalli o per devastare le possessioni dei suoi fieri nemici, o per dare loro severe lezioni, aiutato in ciò dai malcontenti e dai banditi, di cui era il capo riconosciuto.
A nord-est si stende la catena dell’Unale perdentesi lontano nella curatoria di Montagnana; a nord i monti di Pulchiana e da mezzogiorno a ponente una quasi non interrotta catena di clivi, di colli e di monti che a partire dai pressi della Stazione e precisamente dalla Costaglia va de scrivendo un largo cerchio fino al Monte Pinna, presso il ridente paesello di Aggius, prendendo nell’ultima parte l’aspetto bizzarro e fantastico del Resegone, celebrato dal Manzoni.
Nella interposta e vasta pianura, disseminata di ridenti poggi, che formava la medioevale curatoria del Gemini, si vedono, oltre il villaggio di Aggius paese noto per la svegliatezza e l’acutezza dell’ingegno de suoi abitanti, per il loro spirito pronto, sagace, lepido, satirico, come anche pel sentimento forte di onestà nelle donne quelli di Luras, Nuchis, Calangianus, che formavano anticamente una corona di ville civettuole rispecchiantesi su Tempio che da misero stato sorse, massimamente dopo la peste del 1362, dalla quale ebbe il vantaggio d’uscire immune, a florido stato: poiché gli abitatori delle ville ora spopolate e di buona parte di quelle sopravvissute, specialmente i facoltosi, ivi trae vano come a sito saluberrimo, dove le malattie infettive non potevano far presa, e ivi stabilitisi non tardarono ad acquistare le abitudini e le costumanze degli indigeni per modo da essere, dopo non lungo andare, ritenuti abitanti originari del villaggio.
Il nome di Tempio appare per la prima volta nella carta di donazione, che Benedetto operaio fece nel 1173 a Santa Maria di Pisa e una seconda volta al tempo delle scorrerie dei conti pisani in Gallura, dopo la morte di Giovanna, figlia di Nino Gentile, amico del divino Poeta e da lui con versi inspirati celebrato nel massimo poema. Ma allora, come anche nei primi secoli della dominazione aragonese nell’Isola, Tempio era una misera villa; giacché dalla carta reale del 1424 risulta che pagava sole L. 15 di feudo, come Nughes (Nuchis).
Passata la Sardegna sotto la signoria aragonese, Tempio venne nel 1358 data in feudo al Guglielmo di Podio-alt, dal quale passò in successione al figlio Antonio e da costui alla figlia Giovanna. Dopo l’unificazione delle due diocesi di Civita e d’Ampurias, avvenuta in virtù della bolla di papa Giulio II del 1506 e segnatamente dopo la distruzione di Terranova nel 1553 per opera di Dragut, Tempio divenne ordinaria sede vescovile nei mesi in cui il vescovo delle due diocesi, per parità di trattamento, lasciando Castellaragonese, doveva risiedere nella Gallura.
Nel 1688 Tempio contava 1972 abitanti, senza tener conto di quelli che per estrema povertà non erano tassabili d’imposta alcuna; fra cui numeravansi 130 cavalieri di nascita, dei quali settanta sedevano nei banchi dello stamento militare, e allora eravi un collegio per l’istruzione pubblica fondato dai comuni di Tempio e di Terranova frequentato da 300 allievi, dove i padri delle scuole pie insegnavano grammatica, rettorica e filosofia scolastica, un convento di Minori osservanti fondato nel 1543 dal comune di Tempio e da donna Giovanna di Portigal, e l’attuale cattedrale di San Pietro.
Dieci anni dopo, in occasione delle corti del viceré don Giuseppe Salis, conte di Montellano, il sindaco di Tempio, don Sebastiano Garruccio, implorò dal monarca aragonese che accordasse alla villa gli onori municipali, e al tempo stesso il clero tempiese chiedevagli la translazione del titolo di cattedrale dell’antica basilica di San Simplicio di Terranova, stata abbandonata alla chiesa di San Pietro in Tempio, dove funzionava un capitolo composto da un arciprete e da undici canonici. Ma per quanto fosse ripetuta l’instanza, il desiderio della comunità di Tempio non venne soddisfatto che nel 1836, nel qual anno Carlo Alberto elevò il villaggio agli onori di città e quello del clero nel 1840, per effetto della bolla di Gregorio XVI.
Durante la guerra di successione al regno di Spagna, dopo la morte di Carlo II, per la parte vivissima che prese la nobiltà tempiese a favore di Carlo III con a capo don Francesco Pes e don Giuseppe Valentino, Tempio poté ottenere nel 1709 l’immunità dai pubblici tributi per un quinquennio e al tempo stesso don Francesco Pes veniva insignito col titolo di marchese di Villamarina e don Giuseppe Valentino con quello di San Martino. Per Filippo V aveva partecipato don Giovanni Battista Sardo, il quale per la brillante operazione eseguita contro un battaglione tedesco al passaggio della Scala (sotto Lurai), venne rimeritato dal monarca spagnuolo, con molti onori e privilegi, che godette anche sotto la dominazione sabauda.
Nel 1802 Tempio divenne teatro delle operazioni militari contro i fautori dell’Angioi, Francesco Cilocco, e prete Francesco Sanna, che ebbero così lacrimevole sorte da disperare d’ogni ulteriore isolano riscatto. Tempio raggiunse il massimo apogeo della potenza nella seconda decade del passato secolo. nel qual tempo il governo si vide dominato dai tempiesi, poiché oltre al viceré don Giacomo Villamarina risiedevano a Cagliari, don Diego Pes, Segretario di Stato, il conte don Francesco Angelo Gina, presidente dell’ufficio fiscale, e Giovanni Maria Dettori, teologo di gran nome, mentre a Torino era ministro della Guerra don Emanuele Pes Villamarina.
Tempio, per quanto ne scrivono l’Angius, La Marmora, lo Spano, il Carbonazzi e il Pais, occupa l’area in cui sorse la romana Gemellas, il qual nome, a detta del primo, aveva assunto, perché vi risiedeva una colonia di soldati di due diverse legioni, speditivi per tenere a freno i Balari e i Corsi; e secondo lo Spano perché dominava i due punti della Gallura a settentrione e mezzodì, tenendo a dovere i popoli predetti, o perché vi sorgeva il tempio dedicato ai gemelli Castore e Polluce. Il nome di Tempio, secondo il Pais, l’aveva già assunto perché ivi sorse l’antico Templum, ossia il centro religioso e poi politico amministrativo delle popolazioni corse, a tenere a freno le quali, Roma vi avrebbe spedito due legioni, dalla cui residenza quel centro religioso, ingrandendosi, sarebbe divenuto città, col nome di Gemellas.
L’archeologo, nel comune di Tempio, può trovare larga messe ai suoi studi visitando i numerosi nuraghi del suo esteso territorio, fra cui primeggia quello di Nuracu Majori, le tombe dei giganti e le ville medioevali, di cui rimangono ancora non spregevoli avanzi.
Tempio è patria d’illustri cittadini, fra i quali primeggiano Giovanni Maria Dettori, dottissimo teologo e poeta arcadico valorosissimo, che ebbe il vanto d’essere stato maestro al Gioberti; Pietro Aquenza Mossa, medico celebratissimo, Bernardino Pes, scrittore d’una storia di Sardegna e d’un Ristretto dello stato antico e moderno della Sardegna, il poeta dell’italiano parnaso Gian Paolo Sirena, i teologhi Domenico Pes, Giovanni Garruccio, e Giovanni Giuseppe Guglielmi; il giurisperito Francesco Pes, membro del Supremo Consiglio di Stato, il ministro della Guerra don Emanuele Pes Villamarina, il vicerè don Giacomo Pes Villamarina, i poeti dialettali don Gavino Pes, detto il Metastasio Gallurese, don Bernardino Pes, don Gavino Pes, noto Denticciu, Giuseppe Valentino e molti valorosi gentiluomini, fra i quali vanno distinti don Francesco Pes, don Giuseppe Valentino e don Giovanni Battista Sardo, che tanto fecero parlare di loro al tempo della guerra per la successione al trono di Spagna.
1 Tempiesi, come scrisse il De Rosa, sono per certo i più belli della Gallura. Di mezzana statura, ben fatti della persona, di roseo colorito, d’aspetto gentile, di modi aggraziati, di nobile portamento e di maestoso incedere. Le donne specialmente sono delicate e gentili, di corporatura slanciata, di morbida e vellutata carnagione: onde sembrano venute al mondo più per far le signore che per far le massaie e le contadine, più per comandare che per servire”. Ed è da aggiungere che appunto per queste loro doti peculiari accesero sempre l’estro di molti figli cari alle muse, tra cui tanto si distinsero gli accennati poeti dialettali e il vivente aggese Leone Chispima. Tutti cantarono divinamente il fascino delle loro donne, la potenza del loro amore e l’impetuosità delle loro passioni; ma nessuno ci ha dato la descrizione dei pittoreschi panorami, delle vaghissime convalli, dei pendii disseminati di stazzi e casolari; di quelle balze, di quelle rupi, di quelle rocce ergentisi in gigantesche immagini sul verde cupo di armoniche visioni di paesaggi che dànno alla Gallura l’aspetto della montuosa Svizzera.
Nessuna poesia, com’ebbe a dire Siotto Pintor nella sua storia letteraria della Sardegna, s’accosta meglio della gallurese all’italiana, sia perché il linguaggio si presta facilmente all’armonia poetica, sia perché per natura i suoi abitanti e segnatamente i tempiesi sono più poeti degli altri abitatori dell’Isola; ed è notevole in essi una tal natia semplicità per cui è raro trovare nelle loro poesie un verso stentato e duro.
Il territorio di Tempio, come quello del resto della Gallura, ha moltissimi stazzi, vale a dire case pastorali o solitarie, o, per lo più agglomerate, formanti cussorgie che rassomigliano agli antichi pagus, o sui poggio nelle convalli e specialmente nell’area o nelle vicinanze delle ville distrutte o dall’invasione dei barbareschi o dalle pesti e dalle carestie che nei trascorsi secoli funestarono la Sardegna: nei quali stazzi gli abitatori menano una vita patriarcale quale si riscontra nella Genesi mosaica, nei poemi omerici e nelle opere pastorali greche, latine e dell’Arcadia italiana.
Fra queste cussorgie ricorderemo l’Aglientu, Arzachena, Cuoni, Liscia, Padulu, Santu Bacchis, Vignola.
Il più bell’elogio, poi, che si può fare di Tempio e, in genere, della Gallura, è quello che i suoi abitanti sono all’avanguardia della civiltà sarda e danno una percentuale più bassa che le altre regioni dell’Isola di analfabetismo. Nell’ultima guerra mondiale poi non si mostrarono indietro, per valore agli altri conterranei. Basti dire che una delle prime medaglie d’oro fu data al sottotenente Francesco Fadda, caduto eroicamente al Dente del Sief, il 21 maggio 1916.
Tempio, infine, ha dato i natali a Bernardo De Muro, il Cigno insuperato dei nostri tempi: ad un buon numero di altri artisti e a moltissime persone intellettuali.
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