Due parole di conclusione
di Silla Lissia
Dalla Presentazione di Guido Rombi
Lissia riassume in breve le cause fondamentali della depressione socio-economica della Gallura e i rimedi da adottare.
Cause: il carattere psicologico della popolazione (poco socievole e poco volitiva) e l’eccessiva divisione della terra (6.547 piccoli proprietari, 2.660 proprietari medi e 722 grandi proprietari), la quale incideva non solo in chiave prettamente economica (come freno allo sviluppo), ma anche psicologica (fomentando l’individualismo e l’egoismo).
Rimedi: la trasformazione delle frazioni in altrettante borgate, che un domani — avvertiva Lissia, mostrando grande lungimiranza — sarebbero diventate comuni autonomi; una vita pubblica vivacizzata da circoli educativi e ricreativi, da intrattenimenti collettivi e conferenze scientifiche e pedagogiche; un nuovo sistema scolastico fondato sulla scuola professionale d’arti e mestieri «indirizzata specialmente ai bisogni della produzione agricola e pastorale, preceduta da un corso teoretico di scienza generale della società»[34]; il cooperativismo agrario come mezzo di una maggior produzione nel settore caseario[35] e vinicolo[36], e quindi la costituzione di latterie e cantine sociali, per permettere ai piccoli e medi proprietari di incrementare e omogeneizzare la produzione e reggere così la concorrenza, nel commercio e nelle esportazioni, dell’industria capitalistica esterna; infine la lavorazione in loco del sughero che a quei tempi, invece, veniva esportato grezzo.
Lo studio analitico fatto nei capitoli precedenti mi spiana la via a qualche facile conclusione e mi autorizza a formulare qualche consiglio pratico nell’interesse sociale e morale del mio paese. Due sono le cagioni fondamentali dello stato presente della Gallura: il carattere psicologico della popolazione e la eccessiva divisione della terra.
Su questi due elementi si è foggiata la vita sociale e morale gallurese ed a questi due elementi devono volgersi gli intenti riformatori.
Noi abbiamo bisogno prima di tutto di modificare la psiche del gallurese, di renderla cioè più attiva, più volitiva e più socievole.
Non è facile impresa, perché le abitudini antiche si cambiano lentamente con la pratica di altre abitudini; e però necessita una serie di sforzi convergenti e soprattutto del tempo.
Il tempo! ecco quello che spaventa, ecco quello che ci rende insofferenti dell’attesa, quello che ci fa deviare dalla via diretta. Perché in fondo all’animo nostro c’è sempre un po’ la fretta di arrivare, e nell’animo dei più la paura di non giungere in tempo, di non vivere abbastanza per godere dei benefici preconizzati; per cui noi ci stanchiamo nella predicazione e nella pratica di quelle idee e di quei sentimenti che vogliamo infondere nel popolo, e questo si disinteressa dei benefizi troppo lontani; noi assale lo sconforto dell’inanità dell’opera nostra e quello prende il tedio di dover aspettare, sempre aspettare.
Ma la vita sociale non è la vita di una generazione, e gli effetti del presente si riscontrano nell’avvenire. Per cui i riformatori, o quelli che si assumono il compito grave di guidare un popolo alla sua risurrezione civile e morale, non si devono lasciare cogliere dallo sconforto del risultato immediato, né si devono lasciar vincere dalle opposizioni volontarie o dal cinismo indifferente dell’ignoranza.
Per riuscire nello scopo bisogna stare sempre sulla breccia, armati di una volontà ferro, e di un grande ottimismo, ma soprattutto di una grande pazienza per lasciar passare le calunnie dei malevoli e lo scherno ignorante di quelli stessi, il cui bene si ricerca. Se anche quindi molti rideranno malignamente alle considerazioni che verrò facendo, ed altri buddisticamente esclameranno che non sono cose per i tempi nostri, non mi allontanerò da quella mèta che mi sono proposto di seguire, né mi stancherò di ripetere fino alla noia le stesse cose.
Il problema della riforma degli animi è un problema complesso e vuol esser risolto complessamente. Bisogna perciò prendere tutta una generazione al momento che sorge e, con una educazione ed una istruzione adatte, cercare di volgerne lo spirito verso quei sentimenti e quelle idee che sono consone ai bisogni della regione ed adatte a sostituire quelle ereditarie, e seguirla su su nella vita fino alla completa maturità senza lasciarla mai. Da qui, una serie di piccoli mezzi diretti tutti ad un fine e concordanti nel perseguimento dello scopo.
Alla scuola pertanto devono esser volte le prime riforme, e dobbiamo cercare di sostituire alle scuole attuali una scuola capace di dare un poco d’energia fattiva allo spirito dei giovani, una scuola capace di suscitare il bisogno di agire, il desiderio di uscire dalla tutela del vecchio e slanciarsi nei cieli liberi dell’avvenire e del nuovo, una scuola capace di insegnare l’utilità e la necessità della socievolezza come mezzo di rigenerazione e di progresso.
Ma quale deve essere questa scuola? Certamente non la ginnasiale né la tecnica, nelle quali non sono armonicamente fuse la parte pratica e la parte teoretica e manca l’alito dello spirito moderno; ma una scuola professionale d’arti e mestieri indirizzata specialmente ai bisogni della produzione agricola e pastorale, preceduta o seguita da un corso teoretico di scienza generale delle società; giacché la scuola deve avere due scopi principali: preparare i giovani alla vita e fornire loro il mezzo di procurarsi il necessario per vivere. Perciò i sistemi educativi debbono fornire ai giovani sufficiente cultura da aprir loro la mente ed il cuore e da mettere le loro individualità a contatto con i grandi interessi umani del mondo, e debbono metterli poi in condizione di vivere con il proprio lavoro, concorrendo allo stesso tempo al benessere generale.
Naturalmente tutto il nostro compito non deve limitarsi all’istituzione di quella scuola ordinata ai fini che abbiamo detto, ma deve estendersi anche alla vita di famiglia, alla vita pubblica. Allo stesso tempo che coltiviamo i giovani germogli, non dobbiamo trascurare le piante adulte, affinché queste con la loro ombra malefica non nuocciano alla prosperità di quelli.
L’educazione impartita nelle scuole a poco giova se nella famiglia, nella vita pubblica non trova un ambiente corrispondente od almeno non contrario. Quindi dobbiamo volgere la nostra attenzione alla vita pubblica ed alla vita di famiglia e con associazioni e con istituti adatti cercare di neutralizzare tutti quei sentimenti e quelle abitudini che una eredità ultrasecolare ha conservato nell’anima degli adulti. Circoli educativi e ricreativi, trattenimenti pubblici e collettivi, conferenze scientifiche e sociali e pedagogiche ecc., devono servire a sviluppare e coltivare la cordialità e la fiducia reciproca fra gli uomini, la socievolezza e l’affratellamento, devono tendere a creare una coscienza sociale moderna consapevole del fine cui tende e dei mezzi idonei a conseguirlo.
Ma noi urtiamo contro una grave difficoltà: la dispersione di una buona metà della popolazione nelle campagne. Ebbene questa è una difficoltà che in gran parte si può vincere. Nella nostra popolazione di campagna va sviluppandosi sempre più forte il bisogno della vita associata e molti pastori, i più ricchi ed i più adatti a sentire l’influsso della civiltà, già tendono a fissare la loro stabile dimora nelle frazioni di campagna.
Coltiviamo e stimoliamo questa tendenza con facilitare la trasformazione di queste frazioni in altrettante borgate che diventeranno domani comuni autonomi. E quando questa popolazione si sarà accentrata nelle borgate e quando queste borgate saranno divenuti grossi villaggi, comuni autonomi, allora la popolazione si interesserà alla vita pubblica, piglierà amore alle questioni cittadine e di venterà essa stessa una popolazione cittadina. E la psiche nelle nuove occupazioni troverà il modo di svincolarsi da quei sentimenti atavici di odiosità e di vendetta che la portano al delitto. Perché è la solitudine uniforme e sempre uguale della campagna, è l’isolamento bestiale, nel quale questa gente vive, che la fa rude e ferina; perché è la mancanza di occupazione e di distrazione che concentra il suo spirito nella contemplazione di fatti e di odi di famiglia nati dal delitto e che portano al delitto. Nel commercio degli uomini si impara ad apprezzare di più l’opera dell’uomo ed a rispettarne l’integrità fisica e morale: i sentimenti egoistici si smussano nella vita associata, ed i sentimenti altruistici pigliano il sopravvento.
Ma, mi pare d’averlo già notato, un’altra ragione che tende a mantenere quell’eccessivo individualismo della nostra popolazione che porta al difetto di sociabilità, è la eccessiva divisione della terra, la polverizzazione della piccola proprietà. Le zone intorno ad ogni paese sono divise in tante fettucce, di cui ogni famiglia, si può dire, ne possiede una. Ora non è necessario ch’io mi fermi a lungo a dimostrare gli inconvenienti di questo eccessivo frazionamento della proprietà, dell’esistenza di questi numerosi piccoli proprietari, i quali non trovano nel loro pezzetto di terra il mezzo sufficiente di vivere. La piccola proprietà ha due inconvenienti: uno d’ordine psichico e l’altro d’ordine economico.
Il possesso della terra dà all’individuo un’idea esagerata di sé stesso e lo porta all’egoismo, all’isolamento ed alla diffidenza: epperò il piccolo proprietario è in generale poco disposto alla socievolezza ed è dominato dal sentimento d’invidia verso i suoi pari e di superiorità verso i dipendenti e verso i diseredati. Il piccolo proprietario è perciò in generale un essere antisociale, conservatore cieco, misoneista. Ne deriva la necessità di riparare agli inconvenienti morali di questa situazione: ed è fortuna che in questo caso gli interessi morali della riforma collimano con gli interessi economici dei proprietari. Benché le apparenze facciano credere il contrario, pure la piccola proprietà è contraria all’interesse agricolo e commerciale.
Un piccolo proprietario è limitato nelle sue risorse, non può seguire i progressi, anzi non può arrivare ai progressi dell’industria agraria, e commercialmente si trova alla mercé dei commercianti. Le sue limitate risorse gli impediscono di adottare i sistemi di coltura più rimunerativi, pertanto la coltivazione risulta per lui un sacrificio del suo essere fisico, e la sua limitata produzione gli vieta di godere i benefici del commercio.
La Gallura conta 6547 piccoli proprietari, 2660 proprietari medi e 722 grandi proprietari. Possiede 4300 vacche da latte, 20.000 pecore e 40.000 capre pure da latte, che danno una produzione media annuale di oltre 11.600 quintali di formaggio fresco. E calcolando sui risultati del censimento del bestiame, a 3000 i proprietari di bestiame da latte, si ha una produzione media per ogni singolo proprietario di quintali 3,8 che in cifra tonda possiamo portare a quattro; una produzione, come si vede, abbastanza esigua. Ora, oltre l’esiguità della produzione è da notare il sistema antichissimo («preadamitico») della manipolazione e la varietà della manipolazione stessa, diversa da un proprietario all’altro. Di qui, le difficoltà dello smercio ad un prezzo buono. Perché se anche il commerciante riesce a riunire tutte queste piccole produzioni, lo svantaggio che egli trova nella diversità dei formaggi lo compensa col prezzo basso che impone alla merce. Eppure la quantità totale della produzione disponibile per il commercio non è piccola. Calcolando il consumo locale di tutta la regione in base al consumo individuale di Tempio, si avrebbe una quantità di circa 8000 quintali di formaggio fresco esportabile. E naturalmente se il latte fosse manipolato più razionalmente oltre ad avere una produzione ed un rendimento maggiore, si avrebbe la possibilità di affrontare i maggiori mercati con vantaggio grande del prezzo di vendita.
Lo stesso ragionamento e lo stesso calcolo possiamo fare per le vigne.
In Gallura si ha o meglio si aveva, quando le vigne non erano distrutte ancora dalla fillossera, una produzione di vino di circa 50.000 ettolitri. Vale a dire una quantità di circa 30.000 ettolitri disponibile per l’esportazione; perché calcolando il consumo individuale, come a Tempio, a 70 litri ed escludendo dal computo l’isola della Maddalena, che deve essere considerata come un ottimo e vicino centro di esportazione, si ha un fabbisogno di consumo locale di circa 20.000 ettolitri. Ora l’inconveniente che abbiamo notato per i formaggi, cioè della piccola produzione per ogni singolo proprietario, si ripete per la produzione vinicola. Ogni proprietario di vigne produce per conto suo, dimodoché si hanno tante piccole quantità di vino a tipo diverso quanti sono i proprietari di vigne: e la quantità di vino disponibile non può vantaggiosamente ricercare i mercati buoni perché non può presentarsi bene e con un tipo costante.
E se finora questi numerosi piccoli e medi proprietari di vigne e di bestiame sono riusciti a sbarcare il lunario, si deve alla produzione patriarcale che finora si è praticata, venendo così a perdere un utile rilevante sia nella produzione e sia nel prezzo della merce.
E la causa di questi danni è posta nell’isolamento nel quale vive la piccola proprietà, ed un po’ anche la media, e nella produzione isolata di ciascun proprietario. Ed è isolamento che pone in una condizione di inferiorità di fronte ai bisogni della produzione, grazie al progresso compiuto dallo strumento tecnico, e di fronte al commercio la piccola e media proprietà. L’industria capitalista già pervade anche la produzione agraria, e la piccola e la media proprietà non possono arrivare alla produzione capitalista. Ad esse manca il capitale sufficiente per poter utilizzare il progresso dello strumento tecnico della produzione e rimangono perciò in un grado di inferiorità di fronte al capitalismo agrario. Tuttavia anche la piccola e la media proprietà possono arrivare alla produzione capitalista industriale, uscendo da quell’isolamento nel quale deperiscono.
Se pertanto i piccoli e medi proprietari di Gallura non vogliono rimanere vittima del progresso dell’industria agraria capitalista esterna e vogliono uscire dallo stato di crisi nel quale si trovano, devono cercare nell’associazione delle forze isolate il mezzo di elevazione e di lotta.
È nell’unione delle forze singole in un fascio unico di produzione, è nel cooperativismo agrario che dobbiamo cercare il rimedio ai mali della proprietà gallurese. Unendo le forze isolate, associando le singole unità produttive, la piccola e la media proprietà si mettono in grado di poter utilizzare i progressi dello strumento tecnico di produzione, cioè di poter far produrre la terra secondo i sistemi moderni di coltivazione, grazie alle macchine, la concimazione chimica, la selezione delle sementi etc. e di potersi trovare in grado di rispondere ai bisogni dei mercati nazionali ed internazionali attaverso l’unificazione dei prodotti. Quindi è nelle latterie sociali, è nelle cantine sociali che devono trovare il rimedio alle loro tristi condizioni piccoli e medi proprietari della Gallura, ed in tutte quelle istituzioni connettive che sono i sindacati agrari, le cooperative di credito e di assicurazione.
Riunendo per regioni tutti i singoli produttori di latte e di vino si costituirebbero altrettante latterie e cantine sociali, le quali potrebbero anche federarsi fra loro nell’interesse dello smercio, e costituire una confederazione regionale cooperativa.
Ma tutto ciò non si può ottenere senza una propaganda assidua e costante che spieghi ad ogni singolo proprietario la necessità di uscire dall’isolamento e di entrare nell’associazione; senza la trasformazione psicologica del popolo gallurese ottenuta con una scuola nuova, per mezzo di quelle istituzioni cui ho accennato in principio.
La Gallura è inoltre vittima di un altro errore economico che si risolve in un danno finanziario rilevante per il paese. Noi abbiamo una produzione annuale di sugheri intorno agli 8 o 9000 quintali. Ebbene la massima parte di questo sughero viene esportato grezzo, appena raschiato della sua scorza; solo una piccola porzione viene lavorata in sito e trasformata in quadretti e tappi.
Or non bisogna avere un grande acume economico e commerciale per capire il danno che deriva alla regione da questo sistema commerciale primitivo, e quale sarebbe il vantaggio finanziario se tutto il sughero fosse lavorato qui ed esportato sotto forma di quadretti e turaccioli. Senza considerare il benefizio di dar lavoro ad una quantità di famiglie, che oggi devono lottare con la disoccupazione più o meno permanente, basta fare la differenza fra il prezzo di vendita del sughero grezzo sulle piazze di Genova e di Marsiglia ed il prezzo di vendita della stessa unità di peso trasformata in quadretti e turaccioli, per comprendere che sono centinaia di migliaia di lire che si regalano ai commercianti continentali. Sarebbe quindi necessario che si formassero qui delle cooperative di produzione per la lavorazione dei sugheri, o che per lo meno quegli stessi negozianti, che oggi fanno gli intermediari fra i proprietari di sughero e i commercianti continentali, si unissero in società anonima per l’acquisto e la lavorazione locale dei sugheri.
Io credo pertanto di essermi messo su un terreno pratico e di aver consigliato quei mezzi di risurrezione economica e morale che scaturiscono da un esame coscienzioso e spassionato delle condizioni presenti del paese. Se sarò ascoltato, spero di vedere la mia Gallura assurgere a quel grado di benessere e di moralità che forma il vanto dei paesi più progrediti.
Ai dubbiosi ed ai timidi ed a tutti coloro che non trovassero nelle cose dette da me ragioni sufficienti per decidersi all’azione ed all’unione consiglio di prendere informazioni sullo stato delle latterie sociali svizzere e delle cantine sociali dell’alta Italia. Nella lezione meravigliosa delle cifre e dei resoconti troveranno rafforzata quella fiducia che io mi lusingo di essere riuscito ad infonder loro.